Corso Svizzera 49
di Dario Voltolini

Lui ha cucinato le seppie con i piselli e il pomodoro, e anche dei gamberetti bolliti e sgusciati mescolati freddi a un avocado di provenienza israeliana acquistato giorni prima, duro, e maturato sul mobile della cucina al caldo dell’appartamento che quest’inverno – ma per lui non ci sono altre stagioni con cui fare confronti, poiché abita lì da poche settimane – sembra una sauna dato che il riscaldamento centralizzato va come un pazzo. Ieri ha accennato alla cosa parlando con il geometra che rappresenta l’impresa che gli ha affittato il bilocale, caldo, caldissimo, molto piacevole dato che fuori va spesso sotto zero, però c’è da girare in mutande per casa, vediamo cosa si può fare, ha detto il geometra, ma non c’è proprio niente da fare, meglio così, meglio questo gran caldo, questo spreco di energia, alla faccia di ogni ecosostenibilità: l’appartamento durerà per lui forse giusto un paio di stagioni, vedremo nell’assetto primaverile come si comporterà. Per ora l’ha preso in toto, caldo come è, alto come è, cioè all’ultimo piano, con la porta che (se ne è accorto l’altroieri) basta appoggiarvisi e si apre, perché le due ante sono lontane e anziché collimare lasciano un gioco esagerato fra di loro e persino due mandate non fanno chiudere la serratura. Questo era il motivo per cui parlava ieri con il geometra, dopo aver fatto notare come, ispessendo con due monetine da un centesimo una delle quattro guide metalliche che in teoria avrebbero dovuto ricevere e bloccare in sé ciascuna un perno del sistema di serratura dall’altra anta della porta, era riuscito almeno a far ingranare uno di quei perni, in modo da stare più tranquillo, che la porta non si sarebbe spalancata al minimo apriti sesamo soffiato da un passante nel corridoio.
Quando lei se ne è andata era notte. Guardando dal balcone giù verso il corso gli ha domandato se quella fosse una zona sicura.
«Non so, mi pare» ha risposto lui. Ma non ne aveva idea. Il bar di sotto sta aperto fino a tardissimo, e a lui questo induce un senso di sicurezza, però proprio davanti al bar da giorni ha notato un tale che se ne sta in piedi a fumare una sigaretta, sempre, e al massimo si sposta verso l’angolo della via, un tipo strano, alto, con scarpe nere da similginnastica.
«Magari scendo con te, ti accompagno» le dice. Si rimette velocemente i calzini, la camicia, i jeans, le scarpe, il maglione, il cappotto, e scendono insieme.
Davanti al bar c’è quel tale. Fuma. Il resto del corso, e dell’intera città, sembra, è deserto. Lei sale in macchina e parte. Lui torna verso il suo portone, ma è indeciso. Ora che se ne è uscito, che è già per strada, potrebbe salire in macchina e farsi un giro notturno di quelli che ha fatto spesso, che ha fatto per anni, da solo nella notte metropolitana in periferie taciturne e sgomente, un giro senza meta, un arabesco sulla mappa cittadina, così per trovare il passo ai propri pensieri, che lui da fermo non riesce a godersi, deve per forza spostarsi, anche a piedi certo, ma preferibilmente con l’automobile di notte. Quasi vent’anni prima era sostanzialmente uguale, una notte, e lui se ne girava da solo, scendeva una rampa verso il corso che costeggia il parco (ora lui abita in questo inverno accanto a quel parco, ma allora no, abitava da tutt’altra parte) ed era così incazzato, così disperato, che prese la curva in velocità e il culo della macchina scivolò per conto suo mandando a sbattere la ruota di dietro, destra, contro la pietra del marciapiede, scassando tutto, e lui si trascinò cigolante fin verso casa, parcheggiando vicino all’autofficina a cui il giorno dopo avrebbe affidato l’auto.
Così incazzato, così disperato. Quella che gli aveva detto di amarlo sopra ogni cosa e più di tutto e di chiunque, aveva passato tutta la sera seduta sulle ginocchia del fidanzato ridendo e scherzando con lui lì a guardare. Banale, ma è così: una furia e una disperazione. Curioso però questo fatto: ogni volta che lui aveva la necessità di un raccoglimento in se stesso, per un qualche tipo di magagna, prendeva su e se ne andava in giro in macchina. Di notte.
Una volta si era talmente spinto oltre la periferia, nella nebbia, da trovarsi poi, dopo un lungo guidare, di fronte alla visione emergente dalla lattescenza di una struttura ad archi in mattone, enigmatica eppure nota. Era il foro boario di una cittadina addirittura di un’altra provincia, lo capì anni dopo, rivedendola di giorno in ben altra situazione (era andato a trovare una donna che gradiva solo il cunnilingus, restando nella sfera sessuale del discorso, e nemmeno il suo).
Ora però qualcosa, nella coazione a prendere su e andarsene a meditare in macchina girovagando fino a ogni ora, si era inceppato. Infilò la chiave nella toppa del portoncino e salì a casa. Si liberò dei vestiti e con i soli boxer neri addosso e un paio di crocks regalategli dalla figlia, color lavanda, o no, forse malva, lavò piatti, posate e pentolame nel profumo che le case hanno sempre dopo che si è cucinato del pesce (in senso lato, di creatura marina).
Il cellulare, silenziato, era sul tavolo. Lo prese e vide che c’era un nuovo sms. Lei era arrivata a casa e gli diceva che la cenetta era stata deliziosa, grazie, e grazie anche di avermi accompagnato alla macchina, una cosa che ho molto apprezzato.
La rivedeva salire in macchina con le movenze eleganti e giovani da puledra nuova da poco in piedi, intorno il corso alberato deserto, solo insegne, il bar aperto e l’uomo alto.
Dalle finestre lui ogni mattina vedeva, meteo permettendo, sorgere il sole dalla collina. Da anni non abitava sufficientemente in alto da godersi un colpo d’occhio sulla città. Qui, sebbene si trattasse solo di un sesto piano, la vista era sgombra. La casa del sole nascente, pensò. Un bordello? pensò ancora, cercando di ricordarsi il testo della famosa canzone, uno dei testi perlomeno.
Cosa fa quell’uomo lì sotto a fumare davanti al bar? Perché torna in mente Spencer Tracy che canticchia «Oh, brutte seppie, oh quanto siete brutte, a farvi a pezzi, bisogna che mi avvezzi» in un film visto chissà quando? Dove si perde lo sguardo che con la pancia, volando, sfiora tutti quei tetti, solleticato dalle antenne, dai comignoli? Come mai ritorna a galla, mutata di segno (dove c’è salvezza cresce il pericolo), una frase trovata in un libro studiato un tempo, che diceva che, là dove c’è il pericolo, cresce ciò che salva? Cosa resta dei vecchi studi non proseguiti? Quale città, se non questa, era fin dall’inizio presente nell’immaginazione futura, nella scomposta richiesta di essere ascoltata, per le cose che aveva da dire, per il senso che voleva le si riconoscesse?
Eppure nemmeno la neve, né il mercato allestito ogni mattina sul corso, si scioglievano mai in qualcosa di diverso. Come un toro pazzo la mente che ha visto un lampo rosso da qualche parte si avventa dove i muri sono più solidi senza mai scalfirli, pietra su pietra, materia impenetrabile, fredda, edificazioni, labirinti, strutture, cavi che passano, tubature che passano, era un sogno? Che tutto questo avesse un segreto, un senso, e che l’avrebbe disvelato? Storie sono solo le storie di persone?

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