Settembre
di Giulia Ottaviano

Ero la nipote più giovane e ogni mattina, d’estate, mi spettavano dei precisi doveri.
Dovevo comprare il pane per tutti e il giornale per il nonno che, successivamente, in ordine di importanza ed età, sarebbe andato al resto della famiglia.
Prima zio Peppino, in quanto grecista e quindi detentore del sapere più antico.
Poi Franco, il marito di zia Rosina, che si accaparrava il secondo posto in veste di filosofo e grande saggio della famiglia – scavalcando zio Totò, lo sportivo, che in mattinata era irreperibile perché sgambettava qua e là per il paese.
Mio padre era sempre fuori graduatoria perché non sopportava le pagine stropicciate.
Verso mezzogiorno arrivava il turno di zio Saro: calzino bianco accostato a scarpe eleganti rigorosamente accavallate sullo sgabellino, e musica lirica di sottofondo. Di fianco a lui suo figlio Giovannino, il più grande tra noi cugini: molliche incarcerate tra i peli del petto fin dalla prima colazione, sorriso sempreverde e voglia incalzante di leggere il giornale per poterne discutere con gli altri in spiaggia.
Nel tardo pomeriggio il quotidiano veniva poggiato dall’ultimo lettore, verosimilmente uno dei Cugini Grandi, sul tavolone in terrazza, e dato alla mercé di zie e nipoti che durante la giornata avevano anteposto tintarelle, insalate di polipi e nuotate alle notizie del giorno.
Per il cenone di San Lorenzo eravamo trentadue cristiani sotto lo stesso tetto. Nella sovrabbondanza di scacce broccoli e ricotta, tonnina e arancini, la gerarchia familiare permaneva e noi nipoti servivamo i piatti iniziando rigorosamente dai nonni. Solo quando anche l’ultima cassatella era stata tagliata e consumata, potevamo passare ai gavettoni. I gavettoni di San Lorenzo erano la “livella” della mia famiglia. Escludevamo solo i nonni per rispetto reverenziale e lo zio Peppino perché allora qualcuno di noi piccoli era ancora costretto a quotidiane ripetizioni di greco, e si temeva vendetta. Per il resto era uno spietatissimo tutti contro tutti di cui il massimo stratega era sicuramente lo zio Saro. Anni di rebus e parole crociate condivise con zio Peppino, che amava ricondurre qualsiasi argomento alle Guerre Puniche, gli permettevano di organizzare noi nipoti ora in un raffinato acies triplex romano, ora in un grezzo arrembaggio piratesco di cui io ero puntualmente l’esca. Poi si saliva tutti insieme in terrazza e, sdraiati su teli da mare e vecchi giornali, avvistavamo le stelle comete ascoltando le storie che ci raccontava la nonna.
Poi la nonna, con gli anni, passò il testimone alla zia Rosina.
Poi anche la zia Rosina cominciò ad accusare dolori alla schiena dovuti alla muddura, nemica numero uno della famiglia, e noi nipoti femmine iniziammo ad autogestirci. Mentre la metà maschile della famiglia giocava a whist, noi leggevamo a voce alta. Ci interrompevamo solo per esprimere desideri piuttosto facili da avverare; per esempio cercavamo di salvare o vendicare i nostri personaggi preferiti, un po’ come si fa per pilotare i sogni prima di addormentarsi.
“Allora facciamo che alla prossima stella chiediamo che la sposa non pianga perché ha paura che muoia Cicco Petrillo?”.
“Così il marito non la abbandona?”.
“O facciamo che lui annega nel pianto…”.
“E Matteo e Carolina?”.
“Avaja, loro dopo!”.
Per anni avevamo aspettato la notte delle comete solo per poter rileggere le solite favole storpiate secondo i nostri desideri.
Adesso, invece, terminata la cena, nessuno saliva più in terrazza con “Favole Italiane” sotto braccio, anzi, il più in fretta possibile abbandonavamo la villa per andare in spiaggia a disperderci in diverse e più prosaiche comitive intorno ai falò.

L’estate dei miei quindici anni, per San Lorenzo, dopo cena si insistette a lungo per fare una fotografia della famiglia al completo, come a presagire che da allora in poi sarebbe stato sempre più difficile riunirci. I figli della seconda generazione avrebbero preso il mio posto accovacciandosi in prima fila, la seconda generazione sarebbe passata alle retrovie e la terza si sarebbe prima seduta sulle sedie in tela al centro della foto e poi, lentamente, sarebbe scomparsa dall’obiettivo.
Verso fine Agosto la villa dei nonni si svuotò, e tutti iniziarono a tornare intorno ai propri focolari domestici sparsi per l’Italia.
A inizio Settembre c’erano ancora la zia Rosina e lo zio Franco.
A metà mese rimanemmo con i nonni solo io e Gulliver, un bastardino nero che avevo trovato nelle serre di pomodori dietro la villa. Quelle che “un tempo non c’erano” e che “prima erano solo campi sterrati che partivano da dietro la chiesa e costeggiavano tutto il paese fino a casa nostra, in cima alla collina”. La terra in quel tratto la ricordo rossa. Quand’ero bambina mi sembrava un enorme campo da tennis inspiegabilmente inutilizzato, interrotto di tanto in tanto da carrubi e ulivi dalle olive sempre troppo mature. Ogni casa possedeva un po’ di quel terreno in vista di una futura, ovviamente abusiva, espansione. In realtà gli unici veri abitanti della zona eravamo stati noi ragazzini che sotto gli alberi ci eravamo sbucciati le ginocchia, e Don Turiddu e Donna Vannina che sotto gli alberi ci avevano vissuto una vita (con il benestare dei vari proprietari). Ottantenni, stavano ancora in una casupola, come negli anni Trenta, con una mula in camera da letto e le galline tutt’intorno.
Nonostante avessi smesso da tempo di cacciare cavallette per i campi e di risalire la saia in cerca di rane, non avevo perso l’abitudine di passeggiare per serre e cascine private, sempre con somma disapprovazione della nonna, eternamente terrorizzata dai marocchini. Ma non lo erano allora e non lo sono oggi solo marocchini, sono anche tunisini, algerini, romeni: gli unici a lavorare sotto teli di plastica, imbustati a quarantacinque gradi fra pesticidi e pomodorini Pachino.
Anche dopo la partenza di tutti i parenti, i miei compiti continuavano ad essere più o meno gli stessi, ma quella mattina preferii anticiparli di qualche ora per poter portare Gulliver in spiaggia. Sapevo che il nonno alle sei sarebbe già stato sveglio e che, finché non gli avessi portato il giornale, sarebbe stato costretto a rimanere a letto a subire la nonna.
“Cettì, come stai?”.
“Nenè, come i vecciaredi…”.
“Oh Gesù bambino, sempre a lamentariti”.
“Allora chi chiedi affari…”.
Potevano andare avanti così quasi all’infinito, nel più canonico scambio di battute fra anziani, finché la nonna non avrebbe detto: “Speriamo che il signore mi prenda con sé”, e il nonno avrebbe risposto: “Macari mi facissi stu favuri”.
A quel punto si sarebbero offesi vicendevolmente, poi, permalosi com’erano, si sarebbero alzati dal letto rompendo il silenzio solo con un “bi bi bi” o un “ahi”, e solo dopo mezz’ora di lamentele individuali avrebbero cominciato a cercare tutti i nipoti per ammazzare il tempo e sbollire l’incazzatura.
Ma, poichè quel Settembre ero rimasta solo io, avevano esteso l’appello anche ai gatti dei vicini in vista di un autunno in cui avrebbero avuto da contare solo i morti in sogno. Mi sa che quando si è vecchi e quando fa molto caldo si cerca di dilatare il più possibile le conversazioni e le attività inutili nell’attesa. Da anziani si teme il tempo al contrario. Perché è troppo lento, perché si pensa di non averne a sufficienza per fare qualcosa di significativo e, nel non fare nulla, il tempo da ladro diventa letargico.
Ero uscita di casa all’ora in cui in genere mi coricavo. Il paese, verso le cinque del mattino, era sempre vuoto, questo lo sapevo, non fu quindi il cambio di prospettiva a stupirmi, ma il silenzio: non si sentivano le finestre dei mattinieri aprirsi o il gelataio preparare il carretto. Il paese era disabitato. Il mare era calmo, il cielo basso e sporco di nuvole si rifletteva uniforme sull’acqua tranne in un unico punto non lontano dalla riva che era più chiaro, quasi giallo, a causa della secca.
Man mano che scendevo dalla collina potevo vedere qualche centimetro in più d’acqua, mi sembrò bellissimo poter allargare e restringere il mare a mio piacimento semplicemente facendo un passo in avanti o uno indietro. Lo dissi a Gulliver, prendendolo in braccio per fargli notare il fenomeno, ma dalla sua reazione non mi sembrò colpito quanto me: non fece nessuna di quelle cose da cani felici che manifestano la propria contentezza, tipo tirare fuori la lingua. Lo rimisi a terra e continuai verso la spiaggia.
Come avviene spesso a fine stagione, mi aspettavo di trovare la sabbia ancora compatta e umida fino al lungomare, a testimoniare il temporale notturno. E invece testimoni dell’accaduto erano delle sagome, simili a sacchi neri della spazzatura, che io, da lontano, identificai come foche. Foche norvegesi. Pensai che non ci fosse nulla da stupirsi, vista la collocazione particolare della spiaggia: un punto dove il mare si divide in due gusti, dinnanzi alla punta più a sud della Sicilia, un punto di indecisione sempre vittima del vento, che talvolta trascina a riva squaletti dall’Africa e banchi di meduse argentate che rovinano le vacanze ai villeggianti.
Mentre mi avvicinavo, le foche continuavano a sembrarmi un’ipotesi plausibile. Presi di nuovo Gulliver in braccio e affrettai il passo, incuriosita come la prima volta che avevo trovato le meduse sulla riva, pronta ad accoltellarle coi legnetti.
Sentii prima la pianta dei piedi graffiarsi sugli scogli, poi affondare dentro la sabbia molle e tirarsi dietro pezzi di stoffa, vestiti che forse già alla partenza erano stati stracci.
Non appena arrivai al lungomare, mi resi conto che lì non c’erano foche, ma persone.
Cinque cadaveri arenati.
Un uomo, a sinistra della spiaggia, era steso sullo scoglio cavo che in paese chiamavamo ‘a timpa caruta. Altri tre sul bagnasciuga, sdraiati di profilo. Poi c’era una donna, l’unica con il viso rivolto verso la sabbia. I capelli divisi a ciocche ben definite, incollate da granelli bianchi, le braccia rannicchiate all’altezza del seno. Era incredibilmente composta, come se fosse già pronta per essere sepolta durante quella stessa giornata in una buca di sabbia.
Cercai di avvicinarmi ai corpi, ma il tanfo mi fece vomitare immediatamente, a pochi metri da loro.
Lo stesso luogo in cui l’anno precedente, quattordicenne, avevo fatto per la prima volta l’amore, con i capelli insabbiati e l’asciugamano accartocciato dietro la schiena, adesso era un campo santo.
Mi sembrò che a fare da croci fossero gli ombrelloni abbandonati della passata stagione, quelli della mia famiglia, anche, che ogni anno se ne permetteva uno nuovo, più colorato, più ampio, da lasciare a fine Agosto in regalo alla ruggine e alla spiaggia.
Tirai il collo della maglietta sopra il naso e cominciai a muovermi da un cadavere all’altro per scacciare gli insetti. Pensai di riempire delle vaschette d’acqua e fiori di gelsomino come mi aveva insegnato la nonna, per allontanare le zanzare durante il sonno estivo. Non volevo che quei corpi patissero ulteriormente la loro esposizione, non volevo che anche da morti il loro posto fosse tra i moscerini delle vicine serre.
Ricominciai a correre verso casa, senza sentire il peso delle salite sulle gambe, girandomi solo di tanto in tanto per assicurarmi che Gulliver mi stesse seguendo. Per accorciare il tragitto, pensai di passare per i campi, e la nausea mi assalì ancora. Vomitai su uno dei teli bianchi da serra, sotto il sole sorto già da un’ora. Giunsi al campo di donna Vannina, improvvisamente svuotato di senso e familiarità. Della serenità dei pomeriggi trascorsi a sparare olive con le cerbottane costruite da Don Turiddu non restava nulla. Il frinire delle cicale rievocava, adesso, solo una terra troppo calda e la delusione infantile per un appuntamento all’ombra del terzo ulivo a cui nessuno dei miei amichetti s’era presentato. Rievocava le code delle lucertole e le lucertole con le nuove code biforcute torturate dai miei fratelli, la cattività di un asino condannato a vivere tra quattro mura, i denti marci e fuori dal tempo di Donna Vannina, i carrubi e i gelsi amputati per evitare che sporcassero piscine con i loro fiori, le cadute dagli alberi non raccontate alla mamma per la vergogna di essere una bambina, e sandali di gomma che fanno male, spine di riccio estratte con ago e olio, volti sbattuti sul fondale, cadaveri neri come sacchi della spazzatura, litigi fra parenti, nostalgia di casa, fotografie di famiglie lontane sbiadite dall’acqua mangiate dai pesci, terra calda, terra arretrata, le coalizioni contro un solo bambino più debole degli altri, l’odore di anziano, urina di gatto su materassi abbandonati in campagna, olive peste, corpi lividi, moscerini come avvoltoi, granelli di sabbia appiccicosi, carcasse di cani, foche e persone e vie di formiche in parata verso di loro.
Era tutto là, mescolato intorno a me.
Il nonno anche, come perso in mezzo al campo, nella solitudine della sua sordità.
Dai suoi occhi pensai che sapesse dell’accaduto, ma dopo una prima impressione mi accorsi che non aveva lo stesso sguardo di quando cinque anni prima, da quel medesimo posto, mi aveva annunciato che Lady D era morta con il naturale distacco che si ha per una morte appresa via cavo.
Non riuscivo a capire se era il riflesso della tragedia che depositatosi sul fondo dei miei occhi adesso si rifletteva nei suoi o se anche lui aveva in qualche modo direttamente assistito alla mia scoperta. Mi indicò senza parlare la terrazza sopra di noi, pensai allora che avesse visto i morti sulla spiaggia da lì. Poi mi disse solo: “Cettina”.
Gli risposi di entrare in casa, l’avrei detto io alla nonna, e lo lasciai lì a scavalcare lento la saia che separava la villa dal campo, mentre continuava a ripetere: “Cettina”.
Salii le scale, come ogni mattina in cui distribuivo pane e odore di pane lungo tutto il perimetro della casa.
Trovai la nonna sulla sedia a dondolo con i piedi ancora immersi in una bacinella d’acqua e sale.
Era un tutt’uno con la poltrona, privata solo dell’appendice a cui più era affezionata: il ventaglio nero le era caduto a terra. Dentro l’acqua marina che si era preparata da sola per alleviare il peso di quasi cent’anni c’erano due piedi callosi e gonfi. Ce li aveva sempre mostrati con orgoglio, soprattutto il piede destro a cui in tempo di guerra le era stato amputato il mignolino.
La nonna, nonostante anno dopo anno l’avessi vista comprimersi e rimpicciolirsi in pochi centimetri di altezza, adesso davanti a me era anche lei una perfetta foca monolitica con il volto di cartone bagnato.
A giorni sarebbe arrivato l’autunno, e il nonno avrebbe cominciato a sognarla.

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