Pacific Highway
di Linda Fava

Cosa stiamo cercando esattamente? Chiese Mari.
Non lo sapevo.
- Non lo so – dissi.
- Ma lo sai che stai guidando da sei ore di fila e Dolores ha duecentomila miglia all’attivo vero?

Dolores aveva vent’anni e duecentomila miglia già quando l’avevamo comprata per quattrocento dollari da un rivenditore di auto usate a Oakland. Era una Ford color grigio scrostato dell’86. Forse era stata persino metallizzata, un tempo.
- Duecentomila miglia sono circa duecento Californie più…un sacco di Italie intere su e giù – fece i conti Mari aggrottando le ciglia dietro gli occhiali da sole. Poi distese i piedi nudi sul cruscotto e mi guardò come a dire: che ne pensi?
Le sorrisi e pensai che duecento Californie no, ma un paio ero disposta a farle, anche intere e su e giù, per ritrovare una cosa persa e fondamentale.
Teo aveva smesso di parlare con il suo pesce rosso, forse si era addormentato. Lanciai un’occhiata dietro attraverso lo specchietto retrovisore, e vidi che non dormiva, teneva gli occhi aperti incredibilmente vicini alla sacca trasparente dentro cui nuotava il pesce. Era una settimana ormai che aveva smesso di parlare con noi, senza un motivo preciso, credo. Era in un momento di comunione tutta speciale con il pesce, gli aveva fatto una promessa esclusiva di parlare solo con lui, di dedicargli tutte le sue attenzioni fino alla fine del viaggio, o qualcosa del genere.

- Quando pensi che arriveremo al faro, Sid? – Chiedeva ora al pesce.

Pensai di anticipare la risposta di Sid.

- Non manca molto, circa un centinaio di curve, se non ricordo male.

- Cento curve! – Teo si meravigliò con tutti i muscoli del viso – si potrebbero fare un sacco di altre cose in cento curve – parlava sempre col pesce – se fossimo a casa potremmo mangiare cinquanta fette di toast col burro di noccioline, nel tempo di cento curve.

- No che non potreste – rispose Mari mentre si osservava nello specchietto alla ricerca di ciglia superflue lungo l’arcata sopraccigliare destra – Perché io non ve lo lascerei fare. Lo sai che con il grasso di dieci fette di burro di arachidi ci si può fare una saponetta?

Questo se l’era inventato. Era irresistibile quando diceva cose così, a caso, sforzandosi di crederci con gli occhi e con la voce. Una volta mi aveva giurato che il prezzemolo era un’alga, e che era una delle prime specie vegetali che si erano sviluppate nel brodo primordiale. Subito dopo le amebe, il prezzemolo.

La macchina faceva un rumore di onde in risacca ogni volta che scalavo le marce per prendere una curva.

- Credo che Dolores abbia bisogno di una canzone d’incoraggiamento. Le dovresti cantare quella del pulmino innamorato, Teo. O puoi cantarla al pesce se preferisci, sono sicura che la macchina apprezzerà comunque.

Teo detestava cantare con noi, diceva che gli sembrava di stare all’asilo. Sospettavo che fosse una di quelle cose per cui lo prendevano in giro i suoi compagni di scuola. In effetti non mi aveva mai detto che i suoi compagni lo prendevano in giro, forse non succedeva affatto, ma non riuscivo a togliermi dalla testa quest’immagine del suo compagno di banco di sette anni che lo apostrofava virile, tra una boccata di sigaretta e l’altra: vai a cantare la bella lavanderina con le tue mamme, stellina!

- Lo so Sid che odi quella canzone, stai tranquillo, non la canto – rassicurò il pesce – Hai ragione a odiarla, è stupido che un pulmino si innamori di un autista.

- Non è stupido, Teo.

O meglio, a me piacevano le canzoni stupide di Mari, e più di tutto mi piaceva cantarle in macchina con lei e Teo quando lasciavamo l’Italia per uno dei nostri viaggi. Erano facili da cantare perché non richiedevano grandi doti vocali, bastava mugugnarle con un filo di voce, e più le mugugnavi senza impegno, più erano come dovevano essere. Impastate e imperfette.

- Sei perplesso?

Pare che Sid-il-pesce fosse perplesso, ora.

- No, non lo so cosa ci siamo venuti a fare qui, Sid.

- Siamo venuti a cercare una cosa che tua mamma si è dimenticata qui molti anni fa. – Mari tentava di dare una parvenza di razionalità all’impulso totalmente irrazionale che mi aveva spinto a strapparli alle loro sdraio e formine di sabbia a Long Beach, per portarli sulla strada più tortuosa della costa californiana all’inseguimento di un ricordo impreciso, a cui negli anni la mia memoria aveva dato le sembianze di un oggetto. Sulla forma di quell’oggetto dovevo ancora indagare a fondo.

- Ma almeno ti ricordi com’era fatta questa cosa, Sara?

- Era lunga. E svasata, direi.

- Tipo un vestito anni ’30?

- Tipo.

Avevo dieci anni, e percorrevo questa strada su un’automobile che i miei genitori avevano noleggiato per fare una gita al faro di Big Sur. Era stata l’ultima vacanza che avevo fatto con loro, e l’unica oltreoceano.

Quel qualcosa c’entrava con le curve della strada, mi pareva, ma neanche di questo ero troppo sicura. Forse aveva più a che fare con il modo in cui mio padre prendeva quelle curve, e il modo che aveva mia madre di sorreggergli il mento quando era stanco di guidare. Diceva che era una cosa in meno di cui si doveva preoccupare, tenere dritta la testa, a quella ci pensava lei, così lui poteva concentrarsi sulla strada e rimanere sveglio. Era sera tardi, quell’estate, quando siamo arrivati a questo punto della Pacific Highway. Tutti i campeggi che avevamo incontrato erano pieni, e proseguivamo nell’unica direzione in cui era possibile andare, senza sapere quando sarebbe stata la prossima area di sosta, o il prossimo motel, sempre che ce ne fossero. Ma c’era una strana bella atmosfera nella macchina, e nell’aria tiepida di settembre.

 

Accostai sul ciglio della strada, che si allargava in uno spiazzo. La macchina prese a soffiare fuori aria, un lungo sospiro di sollievo. Davanti a noi c’era un cartello di legno con una scritta dipinta a mano in caratteri infantili.

- È qui che l’ho persa.

Mari strinse gli occhi per leggere il cartello.

- Qui ad…Harmony?

Sotto il nome del paese c’era una scritta che indicava la popolazione: diciotto abitanti. C’erano a malapena quattro o cinque case, di pietra, in mezzo a cui si arrampicavano piante e si srotolavano tappeti d’erba di tutte le sfumature del verde.

- Diciotto abitanti, ma è pazzesco! Sembra un paese giocattolo, hai visto Teo?

Teo e il pesce avevano visto, ed erano già scesi dalla macchina in perlustrazione, uno in spalla all’altro. Teo aveva trovato questo buffo modo di portarsi in giro il pesce. L’aveva messo in uno zainetto di plastica trasparente che originariamente fungeva da serbatoio di una grossa pistola ad acqua, un superliquidator che qualcuno gli aveva regalato per il suo ultimo compleanno. La madre del suo amico Tobia, preoccupata forse che crescendo con due mamme Teo non sviluppasse quella  propensione alle armi che è indice di salute mentale in tutti i bambini di seconda elementare. La pistola era rimasta a scolorire al sole tutta l’estate, ma Teo aveva tenuto il serbatoio e ora ci portava in giro per il mondo il suo pesce rosso. Sid l’avevamo comprato lì, da un artista di strada cinese a Santa Monica. Mari diceva che era un pesce cinese, che i pesci rossi sono originari della Cina. Non ero sicura che la United Airlines avrebbe gradito il nostro nuovo bagaglio a mano. Ma Teo aveva già architettato un sistema di oscuramento temporaneo della sacca per il volo, che prevedeva l’immersione del tutto in un secchio di vernice blu e l’asciugatura al sole.

- Ora che facciamo? – chiese Teo al pesce.

- Dividiamoci e cerchiamo – dissi io.

- Va bene –­ disse Mari – ma se non mi dici che aspetto ha questa cosa come faccio a capire se l’ho trovata?

- Me la fai vedere e io ti dico se è lei oppure no. Allora, voi andate da quella parte – dissi indicando la stradina che portava a quello che sembrava un vecchio capanno degli attrezzi – e quando vedete qualcosa che io troverei interessante, mi fate un urlo e vengo a controllare. E io vado a cercare laggiù – e indicai una casa diroccata che non aveva più porte né finestre. Dentro si scorgeva l’edera arrampicata sui muri e le erbacce tra i lastroni del pavimento.

Ci incamminammo ognuno nella sua direzione.

All’interno della casa filtravano raggi di sole che illuminavano solo fitti banchi di polvere. Attraversai la stanza di polvere, ma uscii in fretta dalla porta sul retro, poi feci il giro dell’edificio e tornai davanti all’ingresso, da dove potevo vedere Mari e Teo al lavoro. Vederli laggiù, due macchie di colore che si muovevano in una danza veloce e scoordinata, mi confortava; aggirarmi sola tra quelle mura e quel muschio mi aveva fatto venire una specie di freddo tra le spalle. Il fruscio del vento tra le foglie secche ricordava i passi di presenze umide e leggere sul selciato. Cominciavo ad aver voglia di correre via, quando Mari chiamò.

- È per caso di pietra, Sara? – gridò da dietro un cespuglio.

- No! – Urlai io in risposta. – No, di pietra no, dissi più piano.

- Allora posso smettere di guardare i sassi uno a uno?

- Forse…– cominciai mentre cercavo di tradurre le sensazioni in parole – forse aveva dei riflessi!

- Dei riflessi come? – urlò Mari in risposta – qui c’è una bottiglia di birra! Riflessi tipo quelli su una bottiglia di birra?

No, niente birra. La sera, la fame, e frasi come “Harmony! ha l’aria un posto perfetto per fermarsi a mangiare qualcosa”. Era tutto quello che affiorava. Ma più che altro era la voce di mia madre, insolitamente tintinnante, a emergere. Aveva il suono del ghiaccio in un bicchiere di gazzosa, delle risate e del cristallo.

Raggiunsi Teo, che intanto si aggirava per l’unico edificio del villaggio che sembrava abitato. La prima cosa che avvertii quando entrai nello stanzone fu un odore acre di latte.

Poi vidi i formaggi. Forme enormi di formaggio appese alle pareti, appoggiate sui mobili, stipate sui ripiani, paioli di caglio e latte sul tavolo.

- Vieni a vedere Mari, è pieno di formaggio.

Stare in una stanza piena di formaggi era una cosa che a volte sognavo la notte: immergere le mani tra le caciotte, plasmare forme di ricotta e tagliare grosse fette di fontina. Ogni tanto in quei sogni arrivava anche Mari, e facevamo i formaggi insieme. Era una cosa che mi ero sempre ripromessa di fare prima di morire, il formaggio.

Teo si aggirava incantato tra quei dischi bianchi e gialli sfiorandoli con le dita. Eravamo entrambi in balia di quel fascino lattiginoso, e di quell’odore umido e animale. Mari non sembrava partecipare al nostro raccoglimento. Fedele allo scopo che ci aveva portato lì, cominciò a perlustrare la stanza.

- Ti ricordi se era qualcosa di tondo? – chiese distogliendomi dal mio stato di contemplazione.

- Sì, aveva una forma morbida.

- Sara, era un formaggio? –. Mi guardò scettica.

- No, non era un formaggio.

- Ah, bene. Ma anche la consistenza era morbida? – e immerse il dito in una ricotta densa e grumosa.

- No, non era neanche una ricotta.

- Non è bello il formaggio Sid? – chiedeva intanto Teo al pesce –  il formaggio mi piace più del burro di arachidi.

Il pesce doveva aver detto che a lui il formaggio non piaceva affatto, perché Teo rispose: – Pazienza, non possiamo essere sempre d’accordo su tutto… – però continuò a dar credito ai suoi consigli – Giusto, dici che potrebbe essere una cazzuola da formaggio?

- Non si chiama cazzuola da formaggio, si chiama spatola, lo corresse Mari.

- No Sid, grazie per il tentativo, non era una spatola – risposi grata.           – Forse mi è venuto in mente qualcosa.

Restarono tutti e due in silenzio e in attesa, come se il mio pensiero dovesse materializzarsi e sfilare davanti ai loro occhi.

- No, non era niente. Forse ho solo fame.

Delusi, ricominciarono a guardarsi intorno, concentrati e zitti.

- Un attimo. Era fredda. E trasparente, direi.

Bene. E si muoveva? Indagò Mari.

- Questo non lo so.

- Insomma, era una cosa trasparente, fredda, rotonda e con dei riflessi che forse si muoveva, fece il punto lei.

- Non poi così fredda, no.

- Ma se l’hai appena detto tu.

- Non è che era un verme del formaggio? – chiese Teo al pesce.

- Una muffa? – azzardò Mari.

- No, ci stiamo allontanando – sbuffai io.

Mari mi prese la testa tra le mani e mi appoggiò un bacio consolatorio sulla fronte.

- Non vuoi proprio del formaggio? – insisteva Teo muovendo le dita sulla plastica trasparente per attirare l’attenzione del pesce.

- Ora ne prendiamo un po’ – dissi – e poi ce ne andiamo. E uscii per cercare qualcuno a cui chiedere informazioni. Notai un’insegna a cui entrando non avevo fatto caso. Diceva Harmony Dairy Products: Milk and Cheese. Ma la strada e i cortili erano deserti. Pensavo a quei diciotto abitanti, magari facevano gite di gruppo e oggi erano andati al mare tutti insieme. E dove vivevano, in ogni caso? Tutti nella stanza dei formaggi?

Decidemmo di impacchettare qualche fetta di formaggio di capra, imbottigliare un po’ di latte, e uscimmo in fretta dalla casa.

Proseguimmo verso nord. In macchina restammo in silenzio. Per più di un’ora ascoltai solo il fiato irregolare di Dolores, sempre più insofferente mano a mano che la luce calava. Ora avanzavamo in lieve salita lungo la costa; guardando in basso vedevamo le onde grosse infrangersi contro la scogliera.

- Guarda Teo, il faro!

Le mie parole rimbalzarono sul sedile posteriore. Teo dormiva, abbracciato allo zainetto del pesce. Anche Mari si era appisolata, la testa spettinata contro il finestrino.

Guidai fino allo spiazzo da cui partiva il sentiero verso la spiaggia. Parcheggiai Dolores, e, con la voce che sovrastava appena il suo soffio prolungato, accennai la prima strofa del pulmino innamorato. Teo mi lasciò arrivare fino alla fine del ritornello, poi mugugnò qualcosa dal sedile di dietro.   – Metti in spalla Sid che scendiamo a vedere il faro.
Lento di sonno si trascinò fuori dalla macchina.

- Torniamo subito – dissi a Mari addormentata, e appoggiai le sue  gambe sul mio sedile vuoto.

Percorremmo a piedi il sentiero roccioso verso la spiaggia. Teo stava zitto e guardava dove metteva i piedi, tenendomi per mano.

Quando fummo quasi giunti ai piedi del faro alzò lo sguardo.

- Pensavo che un faro fosse più alto – disse.

- Anch’io.

- Mi dispiace che non hai trovato quella cosa.

Cominciammo a salire i gradini che portavano in cima alla torre.

- Però forse ho capito cos’era.

- Davvero?

Annuii, e lui sgranò gli occhi.

- Mi sa che era un pesce.

- Non è vero – sorrise.

- Giuro.

Raggiungemmo la balaustra che si affacciava sull’oceano. Teo guardò giù e mi strizzò le dita più forte.

- Come sta Sid? – chiesi, accennando alla sacca del pesce con il mento.

Si strinse nelle spalle.

- Non mi parla più. Da stamattina. Mi sa che ci ha ripensato. – Esitò un attimo poi riprese. – Avevamo fatto un patto. Il signore cinese mi ha detto che è un pesce dell’Oceano Atlantico, e io gli avevo promesso che prima di ritornare a casa l’avrei liberato.

Mi guardò serio.

- Quella cosa di dipingere lo zaino è troppo difficile da fare – disse scuotendo la testa – non voglio che i controllori dell’aereo se ne accorgano e lo buttino giù per il gabinetto.

Si levò lo zaino dalle spalle e lo appoggiò a terra. Tolse il coperchio del serbatoio e lo sollevò oltre le sbarre del parapetto. Capovolse la sacca e fece scivolare giù tutto il contenuto. Il pesce si dibatté in aria finché non toccò l’acqua, credo, una decina di metri più in basso.

Starà bene – mi rassicurò – è il suo mare.

Annuii.

Non c’era nessun bisogno di dirgli che Sid stava nuotando nell’Oceano Pacifico.

Tirai fuori il cartoccio con il formaggio dalla borsa e gliene porsi una grossa fetta, poi ne presi un pezzo per me.

Cominciammo a morderlo a grandi bocconi, lasciando i segni dei denti, come fosse una mela.

 

 

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