Kop
Renato D’Urtica

La bambina era semisdraiata sul divano in cucina, avvolta in una coperta. Aveva un po’ di febbre e si sentiva accaldata e debole. Teneva sotto il braccio un orsetto di peluche giallo dagli occhi di vetro. L’orsetto era consunto e spelacchiato e una delle zampe posteriori qualche tempo prima era stata riattaccata al corpo con uno spago. Aveva pianto tanto quando si era staccata, ma poi la mamma aveva trovato un grosso ago ed un pezzetto di corda ed aveva risistemato la zampa in un baleno. La bambina aveva smesso di piangere mentre la guardava cucire, poi aveva ripreso il suo orsetto e senza dire niente era andata a sedersi al buio, nel corridoio.
Nell’altra mano teneva un biberon di vetro pieno a metà di acqua zuccherata, dal quale di tanto in tanto beveva, girando intorno a sé uno sguardo attento e quieto. La mamma lavava i piatti, in piedi vicino all’acquaio. In casa non c’era nessun altro. La bambina bevve ancora un sorso di acqua e zucchero e liberò dalla coperta un braccio, allungandolo in direzione della parete di fronte. Indicò una scatola di detersivo posata sulla mensola. «Kop» disse.
La mamma si voltò verso di lei con un sorriso. «Che hai detto?»
La bambina non si era mossa, il braccio teso e l’indice puntato verso la scatola blu. «Kop» ripeté.
La mamma si asciugò le mani nel grembiule. «Kop?»
La bambina fece sì con la testa.
La mamma spostò la coperta e le tese la mano. «Vieni» le disse. Davanti alla mensola le indicò un’altra scatola, rossa e verde. «E questa?»
«Aiax.»
Indicò la porta del frigo.
«Frigor.»
La bambina iniziò a pensare che stava per arrivare una bella sgridata e abbassò il capo, ma la mamma non sembrava arrabbiata. Tenendola per mano la condusse nel corridoio, davanti alla libreria. La bambina dovette piegare la testa per guardare le scritte sui dorsi allineati, ma uno dopo l’altro lesse i titoli. «La Divina Commedia.» «La Gerusalemme Liberata.» «Sogno di una notte di mezza estate.» «Delitto e castigo.» Alcune parole dovette pronunciarle lentamente, erano difficili e non ne conosceva il significato, ma non ne sbagliò quasi nessuna.
Tornarono in cucina e la mamma si chinò. «Ma quando hai imparato?»
La bambina non sapeva cosa rispondere, si divincolò e risalì sul divano infilandosi sotto la coperta. Afferrò il biberon e bevve una lunga sorsata. L’acqua e zucchero le piaceva molto.

Più tardi sua sorella arrivò da scuola e la mamma la informò eccitata. Lei aprì qualcuno dei suoi libri indicando delle parole. Ma i caratteri erano troppo piccoli e la bambina non riusciva a riconoscere le lettere.
«Solo i titoli» disse la mamma, «le parole scritte grandi. Ha soltanto tre anni.»
Per tutto il pomeriggio sua sorella la condusse in giro per casa e le fece leggere un mucchio di parole, incoraggiandola se esitava e correggendola dove sbagliava. Nel frattempo la febbre le era passata e non temeva più di essere sgridata.
La sera, quando il papà rientrò dal lavoro, la mamma e la sorella gli raccontarono l’accaduto. Lui spiegò il giornale che aveva portato a casa e le indicò il titolo. In quel momento la bambina giocava con il suo orsetto seduta sul pavimento.
«La Stampa» disse, e riprese a giocare.
«Hai visto?» disse la mamma trionfante.
Fu così che la bambina scoprì di avere imparato a leggere.

Nei giorni seguenti la mamma raccontò la novità ai conoscenti e nei negozi del quartiere. Era un quartiere popolare, ai margini della città, dove, mescolati agli enormi e anonimi palazzoni della periferia, esistevano ancora degli orti e qualche prato di erba spelacchiata. La bambina lesse le parole indicate dagli adulti incuriositi e intascò le caramelle e i dolcetti che le venivano offerti. Presto la notizia venne risucchiata nel vortice della consuetudine, come schiuma che scompare nello scarico di un lavandino. Ma la mamma conservava un comprensibile orgoglio, quando, ogni mattina, con la bambina faceva la spesa nei negozi del quartiere dopo che entrambe avevano accompagnato la sorella a scuola. Soprattutto le piaceva passare in latteria. La figlia della lattaia aveva dieci anni ed era considerata da tutti una grande intelligenza. Sulla scorta dei suoi successi scolastici, le sue insegnanti le avevano preannunciato un futuro brillante, e sua madre la chiamava «la cervellona». Ma da quando la bambina aveva imparato a leggere aveva smesso di vantarsi, e ciò procurava alla mamma un piacere non disgiunto da un caldo senso di rivalsa.
La bambina preferiva di gran lunga la bottega del panettiere. La latteria era sempre fredda e le piastrelle bianche che rivestivano i muri a toccarle erano gelide. Invece nella minuscola panetteria faceva caldo – per via del forno sempre acceso nel retrobottega, le aveva spiegato la mamma – e il panettiere portava i calzoni corti anche in pieno inverno, con un buffo grembiule lungo e bianco annodato sui fianchi. Ma più di tutto le piaceva il cane del fornaio.
«Ecco la nostra letterata! Lo vuoi un grissino?»
La bambina allungò la mano. Il bastoncino mandava un buon profumo.
«Oh, lo so chi stai cercando. Bill è in cortile. Vai a trovarlo.»
In fondo al locale c’era una porta a vetri. La bambina manovrò la maniglia con una certa difficoltà ed uscì all’aria gelida. Il cane le venne incontro. Aveva dolci occhi marroni e il pelo liscio e chiaro, tranne sul muso dove diventava nero e morbido.
«Bill» sussurrò la bambina. Spezzò in due il grissino e soltanto dopo che il cane ebbe mangiato la sua parte si decise a sgranocchiare la propria metà. La mamma diceva sempre che Bill era brutto da far paura con quel muso schiacciato, ma lei lo trovava bellissimo.
La mamma si affacciò dalla porta a vetri. «Non vorrai restare qui fuori tutta la mattina. Andiamo.» Il cane si era ritirato nella sua casetta e osservava la bambina con uno sguardo mite, il muso poggiato sulle zampe.
«Vieni sì o no?» La mamma fece qualche passo avanti, spazientita.
La bambina mosse appena la testa, poi tornò a girarsi verso il cane. «Morte» disse, indicando un punto davanti a sé. Dalla bocca le uscì una nuvoletta di vapore.
«Cosa?» chiese la mamma.
La bambina restò immobile, con il dito puntato verso la casetta del cane. «Morte» ripeté.
«Vieni via» disse la mamma prendendola per mano.

Piovve tutta la notte, la bambina udì gli scrosci violenti dell’acqua riemergendo a tratti dal sonno.

La mattina dopo il sole era caldo e brillante e le pozzanghere fumavano evaporando nell’aria tiepida. La bambina indossava un paio di stivaletti di gomma rossi, la mamma l’aveva autorizzata a camminare nell’acqua, a patto di non sollevare spruzzi. La neve ammucchiata vicino al marciapiede, residuo della settimana prima, si andava sciogliendo.
Il campanello della panetteria tintinnò allegramente quando entrarono.
«…in un momento, così, e senza neanche un guaito.» Il panettiere si asciugava gli occhi con un lembo del grembiule. Meccanicamente tese un grissino alla bambina. «Mia moglie ha pianto tutta la notte, nessuno dei due ha chiuso occhio. Non riusciamo a darci pace.» Scosse il capo e si soffiò il naso in un fazzoletto azzurro.
«Ma che è successo?» chiese la mamma.
«Il cane» spiegò una cliente. «È stato messo sotto dal camion che portava la farina.»
«Il mio povero Bill. Così buono e intelligente.»
«Oh, santo cielo!» esclamò la mamma. «Dove vai? Torna subito qui.»
Ma la bambina era già corsa fuori. Un uomo stava ritirando la casetta del cane, della segatura sparsa a terra nascondeva a stento una larga macchia scura.
«Bill?» domandò la bambina.
L’uomo scosse il capo. La bambina fissò la segatura.
«Quando imparerai ad ubbidire?» La mamma le sistemò il cappottino. «Andiamo a casa.»
La bambina stringeva ancora in mano il grissino. Passando lo lasciò cadere intatto sopra un cumulo di neve sporca.

Qualche giorno dopo, rientrando a casa, la mamma e la bambina trovarono un grosso furgone parcheggiato davanti al palazzo. «Roberti, radio e tv» lesse la bambina sulla fiancata. In pantofole, l’inquilino del primo piano si affacciava dalla tromba delle scale.
«Saluta il signor Valenti» disse la mamma.
«Ciao piccolina» disse Valenti.
Un operaio arrancava trasportando uno scatolone.
«Ho comprato il televisore. Ero stanco di dovere andare al bar ogni volta che c’era un programma interessante.»
«Complimenti» disse la mamma.
«Più che altro l’ho preso per Lascia o raddoppia» aggiunse l’uomo. «E per i documentari sulla natura. Quelli sono proprio la mia passione.»
«Piacerebbe anche a me» disse ancora la mamma, «ma che vuol farci? con due bambine da crescere i soldi non bastano mai.»
Intanto il tecnico aveva raggiunto sbuffando il pianerottolo. Valenti si fece di lato indicando la porta spalancata. «Da questa parte, in fondo a destra. Arrivederci signora. Ciao bella.»
La mamma, appesantita dalla borsa della spesa, fece una rampa intera prima di accorgersi che la bambina non l’aveva seguita. Stava rigida e immobile davanti alla porta chiusa del signor Valenti.
«Che fai lì incantata?»
La bambina voltò la testa, fissando sulla mamma uno sguardo vuoto, poi alzò un braccio. «Morte» disse. Fece un passo avanti. La punta del suo dito sfiorava la porta, dove la vernice vecchia si sollevava rivelando un pannello di legno scolorito. «M-O-R-T-E» ripeté sottovoce muovendo il dito a sottolineare una parola invisibile.
La mamma respirò forte. Mentre la trascinava via, udì richiudersi una porta e subito dopo lo scatto della serratura della Ramazzina.

«Sì, sì, i documentari. Te lo dico io cosa vuol vedere quel vecchio sporcaccione. Vuol vedere le ballerine, ecco cosa.» La voce della mamma si spostava qua e là, mentre riordinava la cucina.
Dalla penombra sotto il tavolo la bambina udì il fruscio di un giornale sfogliato.
«È vedovo, vive solo, ha una buona pensione. Che c’è di male se si prende qualche soddisfazione?» Questa era la voce del papà.
«Quanto potrà costare un televisore?» domandò la mamma.
«Non ne ho idea. Comunque non possiamo permettercelo, per ora.»
I piedi della sorella, nelle pantofole di panno, si fermarono accanto al tavolo. La bambina si ritrasse, passando l’orsetto da un braccio all’altro.
«Vediamo» disse il papà. Per un po’ la bambina udì solo i rumori lontani provenienti dal ventre del palazzo. «Molto bene. Ma qui c’è scritto che sei debole nelle tabelline.»
«Quella dell’otto è difficile. Anche quella del nove» disse la sorella.
«Basta fare attenzione. Proviamo.»
«Uno per otto otto» iniziò la sorella. «Due per otto sedici. Tre per otto ventiquattro.»
La voce del papà si unì in una lenta cantilena.
«Quattro per otto trentadue. Cinque per otto quaranta.»
La bambina si sdraiò sulle piastrelle appoggiando la testa sul braccio disteso. Il pollice dell’altra mano iniziò a scivolare verso la sua bocca. Fece uno sforzo di volontà, spalancando gli occhi. La mamma diceva che solo i bambini piccoli si succhiano il pollice, e lei ormai era grande, aveva quasi quattro anni.
«Attenta adesso» disse il papà.
«Sei per otto quarantotto. Sette per otto cinquantaquat… cinquantasei! Otto per otto sessantaquattro. Nove per otto settantatre.»
«Settantadue» la corresse il papà.
«Settantadue. Otto per dieci ottanta!»
«È ora di andare a dormire, signorina» disse la mamma.
Una lama di luce si infilò sotto il tavolo. La bambina si sentì sollevare e afferrò l’orsetto. «Settantadue» disse. La sorella ridacchiò.
«Fila a lavarti i denti, tu, e poi subito a letto. Certo che dice un mucchio di cose strane, da un po’ di tempo.»
«Quali cose?» domandò il papà.
«Prima la metto a letto.»
La mamma la depositò nel lettino e la bambina scivolò nella posizione che più le piaceva, su un fianco, con le gambe ripiegate e un braccio protettivo intorno all’orsetto.

La tabaccheria era un altro dei posti preferiti della bambina. Era un ambiente luminoso con il soffitto alto dal quale pendeva un enorme lampadario a forma di globo. Sulla porta di ingresso c’era una lunga barra di ottone lucido. La bambina spingeva sulla barra con tutte le sue forze ma la porta resisteva, come se non volesse lasciarla entrare. Poi la mamma arrivava dietro di lei e la porta, improvvisamente leggera, si spalancava.
Il tabaccaio era un uomo alto, con una gran testa di capelli bianchi, sempre vestito di nero. La mamma le dava una monetina, la bambina si avvicinava al banco e sapeva di avere diritto a cinque more rosse e nere. Oppure dieci bolligomma. La bambina allungò il braccio attraverso il bancone e depositò la moneta nella mano del tabaccaio. Poi si spostò di lato, davanti alla vetrinetta, e attese che questi preparasse il sacchetto di carta. La mamma pagò i suoi acquisti e uscirono.
Fuori dal negozio la mamma salutò dei pensionati che chiacchieravano sulle panchine.
La bambina osservò la porta che si richiudeva dietro di loro e infilò una mano nel sacchetto. «Morte» disse.
«La porta?» disse la mamma.
«No» disse uno dei pensionati. «Ha detto morte.»
«Ha sentito male» disse la mamma.
La bambina passò il sacchetto da una mano all’altra, manovrando con precauzione. Alzò il braccio e puntò il dito contro la vetrina. «Morte.» Si mise in bocca una mora rossa e prese a masticarla lentamente.
«Che vuoi dire piccolina?» disse l’uomo.
La bambina tornò a indicare la vetrina.
«Andiamo» disse la mamma.
L’uomo si alzò e sbirciò nella vetrina.
«È che da poco ha imparato a leggere» provò la mamma, ma la sua voce aveva poca convinzione. «L’avrà letto da qualche parte.»
Anche gli altri uomini si alzarono per dare un’occhiata. All’interno il tabaccaio incuriosito da quel viavai girò intorno al bancone e si avvicinò alla porta. La mamma e la bambina si erano già allontanate.

Sul pianerottolo del primo piano, un gruppetto di inquilini parlava sottovoce.
«Che succede?» domandò la mamma.
«È morto il Valenti.»
«Santo cielo.»
«Da ieri non rispondeva al telefono, il figlio è venuto a vedere. Lo ha trovato sul divano, con il televisore ancora acceso. Infarto.»
«Che disgrazia!» disse la mamma. «Sembrava in perfetta salute. Chi se lo sarebbe mai aspettato?»
La signora Ramazzina fece una smorfia e si lisciò il grembiule. «Ah, davvero? Pensavo che lei lo sapesse.»
«E come potevo saperlo?»
La Ramazzina osservò la bambina che saltellava sugli scalini, poi fissò la mamma. «Ne è proprio sicura?»

«Poveretto. Non ha potuto goderselo molto» commentò il papà la sera stessa. «Dopo Natale magari andremo a vedere quanto può costare un televisore.»
«Dici davvero?» chiese la mamma.
«Mi hanno promesso un aumento. Be’, non proprio, mi hanno fatto capire che potrebbe arrivare. Con quello e una parte della tredicesima forse possiamo farcela.»

Il sabato pomeriggio iniziò a nevicare fitto. Il papà andò in cantina a prendere la scatola delle decorazioni e la mamma e la sorella fecero l’albero di Natale e il presepe. La bambina era troppo piccola per maneggiare le fragili palline di vetro colorato, ma le fu permesso di estrarre dalla scatola le statuine di gesso e di cartapesta. Eseguì il suo incarico con grande precauzione, passandole alla sorella che le disponeva nel presepe nominandole una ad una. «La Madonna. San Giuseppe. L’angelo. L’arrotino. L’acquaiolo. Un pastore. Un altro pastore. Il dormiglione.» Man mano che le statuette componevano la scena del presepe, nella sua testa i nomi si incastravano l’uno all’altro come mattoni delle costruzioni. Alla fine, la sorella sentenziò che c’erano poche pecore.
«Domani ne compreremo qualcuna, dopo la scuola» disse la mamma.

Quella notte la temperatura scese di colpo.

La mattina dopo nella neve alta e ghiacciata c’erano soltanto le impronte profonde del signor Penna, che si alzava presto e arrivava al lavoro prima di tutti. Dalle grondaie pendevano lunghi ghiaccioli acuminati e trasparenti.
«Camminate contro il muro» ammonì la mamma.
Imbacuccata nel cappottino blu, il viso nascosto da sciarpa e berretto, le mani protette dai guanti di lana, la bambina saltellava qualche passo avanti, pesticciando la neve. In tasca aveva ritrovato una moneta e giunta nei pressi della tabaccheria accelerò con una corsetta. Una piccola folla si assiepava davanti all’ingresso e la porta di ferro, nonostante il freddo, era spalancata. Sgusciò tra le gambe delle persone che allungavano il collo e sussurravano tra loro.
La mamma non fece in tempo a fermarla. «Aspetta qui e non muoverti» disse alla sorella.
Nessuno aveva fatto caso alla bambina che nel frattempo era arrivata al banco e aveva depositato la sua moneta. Nel retrobottega c’era un uomo inginocchiato con una borsa nera aperta al suo fianco. Sul pavimento, giaceva una scala rovesciata e qualcosa di somigliante a un grosso fagotto. La bambina riconobbe il maglione a righe del tabaccaio.
«È morto» disse a voce alta l’uomo con la borsa.
«Si è rotto l’osso del collo» commentò qualcuno alle spalle della bambina.
La mamma si era fatta largo a fatica. «Vieni fuori subito» sussurrò.
La bambina raccolse la moneta. Gli uomini dal retrobottega tornavano in negozio, accompagnando il medico. Uno di loro gli reggeva la borsa mentre si infilava il cappotto. Quando si accorse della bambina le puntò contro un dito ossuto e rattrappito. «Come facevi a saperlo?» Le afferrò la manica al di sopra del bancone e la scosse un paio di volte. «Dico a te. Come lo sapevi?» La bambina riuscì a liberarsi, la mamma la prese per il colletto e insieme iniziarono ad indietreggiare.
«Lasciatela stare» disse la mamma. «È solo una bambina. Lasciateci stare.»
Tutti gli sguardi erano puntati su di loro. La gente taceva e si spostava lentamente.
Quando riguadagnarono la piazza, trovarono la sorella ad aspettarle poco più in là, ignara di tutto. Si allontanarono a passo svelto verso la scuola.

Per acquistare le pecore dovettero andare in cartoleria, che si trovava ai margini del quartiere, al di là di una strada larga e piena di traffico. La bambina non ricordava di essere mai stata da quelle parti. Le vetrine sembravano più grandi e più luminose e in una di esse c’era un presepe ricco di statuette, davanti al quale la bambina si fermò stupita nell’accorgersi che alcune si muovevano: il fabbro ferraio batteva il martello sopra l’incudine, un contadino rastrellava l’erba tagliata, e un personaggio sorridente, seduto ad un tavolo, continuava a sollevare il boccale che teneva in mano.
Per le pecore fu necessaria una lunga disamina: ce n’erano di ogni tipo, in piedi, sdraiate, nell’atto di brucare. Alla fine la sorella ne scelse una accovacciata, una con la testa sollevata verso il cielo e un agnellino trotterellante. La bambina approvò tra sé. La donna che stava dietro il banco non le aveva prestato molta attenzione, ma, mentre attendeva che la mamma prelevasse le monete dal borsellino, si irrigidì. La mamma notò il suo sguardo e si affrettò a pagare. Mentre uscivano udì la donna chiamare. «Piero, vieni qui un momento.» Le bambine si erano fermate a guardare il presepe meccanico e non si accorsero della coppia che le osservava dall’interno del negozio.
Non fecero la solita strada. La mamma le condusse nei vicoli umidi che serpeggiavano dietro le case, dove ristagnava un odore di muffa e la neve era grigia e gelata. La sorella si lamentò per la puzza, ma alla bambina il nuovo percorso piacque molto, anche se il buio era intenso e tutto sembrava triste e abbandonato. Appena sbucarono nella loro strada, la bambina riconobbe le vetrine della drogheria illuminate da una scritta blu elettrico. «Torrefazione Caffè Corte» lesse.
«Passiamo a prendere lo zucchero» disse la mamma.
Non fecero in tempo a salire i gradini. La porta della bottega si aprì e la commerciante comparve bloccando il passaggio. «Non abbiamo piacere che veniate a servirvi qui.» Parlava alla mamma ma il suo sguardo era fisso sulla bambina.
«Non starà scherzando, vero?» disse la mamma. «Siamo clienti da molto tempo e non abbiamo mai lasciato una lira da pagare.»
La donna scosse il capo. «Non ho niente contro di voi, ma quella bambina qui dentro non ce la voglio.»
«Mi serve solo un chilo di zucchero» provò la mamma.
La donna scosse ancora il capo. «Mi dispiace.» Aprì la porta e rientrò in negozio camminando a ritroso.
Quella notte l’orsetto finì sul pavimento e il tonfo svegliò la bambina che si sporse dal letto per recuperarlo. Da sotto la porta filtrava una luce e le voci della mamma e del papà le arrivavano in un mormorio di cui non riusciva ad afferrare le parole. La sorella dormiva nel letto vicino, udiva il suo respiro lento e regolare. Rimase a lungo sveglia, con gli occhi fissi alla fessura illuminata.

Le vetrine del quartiere si erano riempite di addobbi e decorazioni. Ma la mamma e la bambina non facevano più i loro acquisti nel quartiere, adesso frequentavano altre zone della città dove non conoscevano nessuno. Soltanto il pane lo compravano nella solita bottega. Il fornaio era un brav’uomo e continuava ad offrirle un grissino ogni volta che la vedeva. Però non c’erano più chiacchiere né calore. Alla bambina sembrava che lo spazio fosse aumentato e che la gente fosse sempre più lontana e distratta.
Ogni sera, quando il papà arrivava a casa dal lavoro, apriva il giornale sul tavolo e lo leggeva in silenzio fino all’ora di cena. A volte la mamma diceva qualcosa. «La casa gialla in fondo alla strada. Ci abita la signora Zoppis, sai chi voglio dire. Quella molto anziana.» Oppure: «Il caseggiato sull’angolo, con il laboratorio del falegname. Suo figlio, il maggiore, è molto ammalato». Il papà allora la guardava come se volesse dire qualcosa, ma non si decideva a parlare. La bambina si sentiva sull’orlo di una sgridata, che però non arrivava mai.

La domenica era il giorno che la bambina preferiva perché il papà non lavorava. Al pomeriggio, quando il tempo era bello, la famiglia andava a fare una passeggiata. Adesso però era inverno e faceva troppo freddo per uscire. Il papà si metteva al tavolo e consultava delle carte, incolonnava lunghe file di numeri su un foglio bianco. Sembrava nervoso e preoccupato e la bambina, da uno dei suoi posti preferiti, sotto il tavolo o in un angolo buio del corridoio, sapeva che era meglio non disturbare.
Mancavano due giorni a Natale e fin dalla mattina era piovuto. Il papà era arrivato dal lavoro stanco e di pessimo umore.
«Ho preso stipendio e tredicesima oggi. Possiamo scordarci il televisore.» La mamma lo guardò in silenzio. «Ricordi l’aumento che doveva arrivare? Be’, possiamo scordarci anche quello» aggiunse. «Lo hanno dato a Ivaldi. Più giovane di me e senza famiglia da mantenere. Non so proprio come faremo.»
La mamma si slacciò il grembiule e lo depose sul tavolo, poi sedette e si prese il viso tra le mani.
La bambina andò in corridoio e sedette sul pavimento davanti al presepe illuminato. L’ortolano. La guardiana delle oche. Il maniscalco. Il falegname.
All’improvviso l’uscio si spalancò e la sorella entrò correndo. Si precipitò in cucina e si gettò tra le braccia della mamma.
«Che succede?» chiese la mamma.
La sorella si asciugò gli occhi con il dorso della mano.
«Vuoi dirmi cosa è successo?»
«Sono andata da Mariella a vedere se voleva giocare con me. Ma lei non mi ha fatta entrare. Dice che la sua mamma non vuole. Dice che deve stare lontana da me.»
«Su, su, calmati» disse la mamma.
Il viso della sorella era arrossato e stravolto.
La bambina stava in piedi sulla soglia della cucina, le mani dietro la schiena.
«Ha detto che lei è una strega e che porta male. Ha detto che noi portiamo sfortuna» disse la sorella, poi affondò il viso nella spalla della mamma e riprese a piangere forte.
Per tutto il tempo il papà era rimasto in piedi vicino al tavolo. Posò lo sguardo sulla bambina, ma subito lo distolse. «Aiutala a vestirsi» disse.
La mamma lo guardò.
«Mettiti il cappotto e gli stivali» disse ancora il papà rivolto alla bambina. «Andiamo a fare una passeggiata.»
La bambina andò di corsa a prendere gli stivaletti rossi e si alzò in punta di piedi per staccare il cappottino dall’attaccapanni. Il pianto della sorella l’aveva intimorita, benché non ne avesse capito la ragione. Ma era contenta di andare a spasso con il papà, anche se era già buio.
La mamma le accomodò la sciarpa e la aiutò a infilare i guanti. La bambina si accorse che le tremavano le mani. Il papà aveva indossato il cappotto e la aspettava sulla porta.
«È solo una bambina» disse la mamma, e anche la sua voce tremava leggermente.
Il papà richiuse la porta.
Mentre scendevano le scale, la bambina fece in tempo a udire l’inizio di un pianto fatto di singhiozzi asciutti disperati, ma stavolta non proveniva dalla sorella.

Aveva smesso di piovere e per strada c’era poca gente. Il papà la teneva per mano e camminava in fretta, così ogni tanto lei doveva riportarsi al passo con una corsetta. Avevano preso la via dei prati, allontanandosi dalle strade illuminate. Poco più in là c’erano terreni incolti. La mamma le aveva spiegato che da quelle parti c’era la ferrovia e che i treni erano pericolosi. La strada asfaltata si era mutata in un sentiero sassoso bordato da rovi e cosparso di macerie ed immondizie di ogni genere. Solo le luci della città lontana impedivano loro di incespicare ad ogni passo. La bambina era stanca e pensava all’orsetto che aveva lasciato in corridoio, rimpiangendo di non averlo portato con sé. Dalla bocca le uscivano nuvolette di vapore che si perdevano nell’aria.
Ad un tratto il papà si fermò e si guardò intorno.
Ripresero a camminare nel buio. Anche il papà aveva il fiato corto. La bambina ne udiva il respiro rotto ed ansimante. Il sentiero costeggiava ora un pendio ripido in fondo al quale, in lontananza, si intravedeva una fioca luce rossa. Il terreno era cambiato, non più terra impregnata di pioggia ma ciottoli aguzzi che si muovevano scricchiolando sotto i loro piedi. Davanti a loro si levava una massa nera e informe e la bambina capì che erano alberi e cespugli.
Il papà si arrestò di colpo e lasciò andare la sua mano.
La bambina sollevò il capo.
Il vento aveva spazzato via le nuvole e un numero sterminato di stelle si affacciava dal cielo senza mandare alcuna luce.

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