Cosa resterà di questi anni ’90
Flavio Santi

La vita non è sabbia, è ancora più sottile, ti sfugge via come… come acqua. Sì. Come acqua.
Non sono uno che ama i ricordi, e poi quanti se ne possono avere a trentasette anni? ma oggi sono un fiume in piena, non mi era mai capitato.Sono qua, sdraiato sul letto della mia stanza a cercare di digerire il kebab di ieri sera e a non pensare a certe cose. E intanto in un angolo del mio cervello una vocina mi ripete ipnoticamente: Monica Vitti non sarebbe diventata l’attrice che è se avesse conservato il suo vero nome, Maria Luisa Ceciarelli. Che oscenità. Così poteva al massimo aspirare ai mercati generali, all’ortofrutta. «A Ceciarè… A sora Ceciarè… ’Namo Ceciarè…»
Avessi avuto un bel cognome ringhiante come Oppressore o Terribile… invece con questo qua, Mangialardo, che figura ci facevo ogni volta che avevo un colloquio di lavoro. Già un miracolo che ero riuscito a rinviare di quasi tre anni quel momento. Tre anni dal primo e unico esame che provai a passare, dico, quel famoso diritto privato con scena muta. Grandioso. Poi anche quei tre anni passarono, senza portare niente di esaltante, fu come un buco nell’acqua, alla fine dell’università ho un ricordo sbiadito, scartavetrato, e mi ritrovai di colpo una primavera a dover compiere ventisei anni. Da quasi un anno non seguivo più le lezioni. Finché andavo a Milano alla biblioteca di dipartimento la cosa non mi pesava, ero in mezzo a nullafacenti come me, ma quando me ne stavo a casa tutto il pomeriggio nella mia stanza, circondato da gente come mia madre e mio padre che lavoravano e mi mantenevano, sentivo che c’era qualcosa che non andava. A casa dovevo fingere di studiare e fare quelle cose che fa uno che studia: stare in camera tutto il pomeriggio, uscire solo per una rapida merenda, e poi la sera per cena. La sceneggiata durò ancora qualche mese, poi mollai. Allora non esisteva neppure il Cepu, sennò mi prendevo un tutor e avrei potuto resistere ancora un annetto a occhio e croce. Mai avuto grosse aspirazioni. Neanche grandi. È una mia fissa, ma ci tengo a distinguere tra grosso e grande. Grosso ha a che fare con i soldi, grande è quando sei povero ma per uno di quei paradossi che fanno così bella la nostra società hanno stima di te. (Sulla stima poi ci sarebbe un lungo discorso da fare, perché di solito chi è stimato non va avanti di un solo millimetro, la stima è la cosa peggiore che possa capitare se si vuole fare carriera: uno, infatti, se ha il successo non ha la stima, e viceversa). Non a caso si dice pezzo grosso, non grande.
Quindi, una volta chiarito l’equivoco, che non ero adatto allo studio, in mancanza di meglio cominciai a leggere le inserzioni sui giornali. Non avendo particolari ambizioni pensavo che qualsiasi lavoro mi sarebbe andato bene. Illuso. Mi scoprii più schizzinoso del previsto.
Ci misi più di due mesi prima di trovare qualcosa che credevo adatto a me. Che sofferenza. Il lavoro. Angoscia. Soffoco. Come mi sarebbe piaciuto addormentarmi e dormire fino al momento che mia madre mi avrebbe svegliato, dicendomi: «Titti, dai, svegliati, c’è il lavoro giusto per te». In mancanza di tutto questo dovevo arrangiarmi. Le valutazioni sull’idoneità o meno a un lavoro le facevo in maniera molto vaga, non avendo mai lavorato. Ma sapevo che muratore, tornitore, bitumatore, lastricatore, tutti i lavori che finivano in -ore, richiedevano qualcosa che proprio con -ore faceva rima e che preferivo lasciare al suo posto, sotto le ascelle: il sudore. Io il lavoro lo immaginavo senza l’apporto del sudore. Insomma un lavoro da fare seduto e non in piedi, un lavoro dove si parlasse con la gente, un lavoro pulito che non sporca. Era estate, il culmine dell’estate, agosto, e cercare qualcosa, qualsiasi cosa che non trovi, d’estate è una delle torture più logoranti, il giorno chiaro che contrasta col tuo umore nero, tutti sperano che le giornate durino il più a lungo possibile, mentre tu non vedi l’ora di andare a letto. Un tormento. E poi l’inchiostro dei giornali che si appiccicava alle dita, lasciando minuscoli tatuaggi, forse misteriosi I Ching. Avessi saputo interpretarli mi avrebbero indirizzato sulla retta via? Chissà… nel soggiorno un angolo del divano venne presto invaso da pile di giornali: era riservato alle mie ricerche e non l’abbandonai finché il mio occhio non si posò su un avviso, finalmente il primo che mi convincesse almeno un po’: Cercasi cassiere presso grande supermercato di Milano zona Porta Vigentina. Anche primo impiego. Telefonare 0234567. Forse avevo trovato qualcosa di adatto a me, che se non altro ne valesse la pena. Ecco la parola magica: «valere la pena». La accendiamo? Ma sì, accendiamola. Dovevo provarlo, ma già il fatto di averlo trovato era un progresso. Ed era quello che volevo: un lavoro pulito, da stare seduti e parlare con le persone. Comunque era da provare. Per la prima volta da mesi andai a letto sereno.
La notte passò come una lavatrice senza centrifuga. Prima di addormentarmi pensai a quella volta che a dieci anni mi ero chiesto cosa avrei fatto a diciassette, diciotto anni, e poi a venti, trenta, e non avevo risposte, solo la sensazione di avere un buco nello stomaco. Per quanti sforzi facessi, non riuscivo neanche a immaginarmi fisicamente: c’è gente che a vent’anni perde i capelli, to’, avrei potuto almeno pensare a una cosa del genere. Invece niente. Buio. Vuoto. Nada de nada. Adesso vent’anni li avevo passati, e di molto, i capelli li avevo ancora tutti interi, dico, ma per il resto ancora quel buco nello stomaco come a dieci anni…

***

L’indomani telefono. Mi comunicano la data del colloquio. È alcuni giorni dopo. Bene. Sono emozionato. La vita mi scorre davanti. Non parto per il fronte, non devo andare a morire, eppure la vita, questa stronza, non può fare a meno di scorrermi davanti. Il primo schiaffo di mio padre, le scuole elementari e le minacce che per gioco io e Massimiliano facevamo ai bambini più piccoli di noi, ma solo per gioco, i baci sulle guance alle compagne di scuola, la prima cotta, le seghe sui postalmarket, i cazzoni disegnati sui diari.
Arriva il giorno fatidico. Per il primo colloquio di lavoro della mia vita mi vesto sobriamente: camicia bianca a maniche lunghe, nonostante il caldo è più seria, pantaloni di flanella, scarpe di similpelle scamosciata senza calzini. Non so cosa aspettarmi. Intanto sono io che devo chiedermi cosa posso fare: sorridere né tanto né poco. Più che altro annuire. Salgo sul treno, faccio la tratta prevista, prendo la metro, arrivo, sbuco da sottoterra, tutti gesti che facevo andando all’università. Mi viene un po’ di malinconia. Sto diventando adulto?, mi chiedo allarmato fissando un uomo di mezza età che mi viene incontro. Se mi aspettavo una risposta da lui, ho sbagliato di grosso, priorità sbagliata. Mi devo concentrare sul supermercato, che è vicino al Parco Ravizza, a due passi dalla Bocconi.
Trovo già un po’ di gente ad aspettare: sono in ritardo? eppure per sicurezza ho preso il primo treno del mattino… no, non sono in ritardo, mi assicurano. E se fingessero per farmi fuori? Ma adesso ho altro a cui pensare: sarà l’agitazione, sarà il freschetto mattutino, comunque mi scappa. Sento la punta del pisello battere nella speranza di farsi aprire. Trattenerla sarebbe peggio, potrei arrivare sciolto nel sudore e negli spasmi. Mi allontano. Mi inoltro nel Parco Ravizza. Cercasi albero libero, possibilmente lontano da occhi indiscreti, fusto largo, chioma ampia, un leccio o un faggio. Trovo qualcosa di simile, non ha esattamente il pedigree richiesto, ma va bene lo stesso. Sono una tanica al limite della capienza. Lo estraggo gonfio di piscia e do inizio alle danze. Clop… clop… lo zampillo del fontanone di Trevi… clop… clop… la cascata delle Marmore, quella che si studia alle medie, «formata dal fiume Velino che si getta nella Nera precipitando per 165 m. Viene utilizzata per la produzione di energia elettrica». Siamo fatti per il 70% di acqua, adesso si sente. In momenti del genere lo sguardo si alza grato al cielo, come per ringraziare il Padrone del Gran Supermercato, quello vero, che possiede tutte le filiali e controlla lo smercio di ogni cosa, ringraziarlo di averci dotati di quel pratico ugello. Ma quando riabbasso lo sguardo, cambio di colpo idea sulla sua praticità: il getto era troppo vicino, gli schizzi, rimbalzando sulle radici scoperte, hanno macchiato la flanella dei pantaloni con tanti, tantissimi puntini. Ho dei pantaloni con macchie di piscio piuttosto evidenti e fra qualche minuto inizieranno a chiamare. Cosa ho fatto per meritare tutto questo? Calmo. Restare calmo. Ricordi? Sorridere né tanto né poco, più che altro annuire. L’odore acre dell’urina sale dal basso: si sente che mi sono pisciato addosso. La flanella è chiara, i puntini sono visibili, ce ne sono di ogni dimensione, sembrano ceci, per fortuna è una bella giornata di sole, il caldo li farà evaporare ma sarà un lavoro lento e prima che finisca qualcuno li avrà comunque notati. Anzi mi stanno già addosso con gli occhi, non mi fissano all’altezza del viso, mi puntano i piedi, soprattutto una biondina che sghignazza con la compagna lentigginosa.
Poi cominciano le danze. I colloqui si tengono in una stanzina all’interno del supermercato, dietro il bancone del salumiere: c’è chi resta fuori, fa un bel calduccio, chi si allontana per un caffè, e chi decide di stare ad ascoltare gli avversari, sì il colloquio è a porte aperte, qualche faccia stupita, ma poi si capisce: c’è un vento nuovo, il vento di Tangentopoli, più trasparenza negli affari, più fatti e meno lusinghe, siamo tutti sorvegliati, anche se poi chi vuole sentire lo mettono su una panca così lontana da quel tavolo e quelle sedie, centro delle decisioni, che può fare tutto, anche le cose più indecenti, mollare scoregge proibitive, ruttare, tutto tranne quello per cui si era scomodato, cioè ascoltare il colloquio.
Non sono il primo. Meglio. L’unico vantaggio di un cognome così è che di solito non sei mai il primo.

***

Ma viene presto anche il mio turno.
L’incaricato della selezione assomiglia a Peter Ustinov nel film su Nerone, stessa insignificante corona di peli neri intorno all’ovale del viso, stesso sguardo da doposbronza non ancora smaltita. Si vede che non ha voglia. Cerca di non sbuffare ma gli scappa. Mi fissa perplesso. Scuote la testa. Non ci siamo, starà pensando. Mi chiede il nome. Glielo dico.
«Mangialardo, Mangialardo… Perché dovrei pigliare proprio te?»
Cerca di mettermi in imbarazzo. Fossi capitato l’anno prima avrei trovato il posto già assegnato, i socialisti del sindaco Pillitteri non scherzavano, ma adesso era in corso il repulisti di Di Pietro, Milano tremava, la Lega Nord non andava per il sottile, minacciando una rivoluzione con tanto di campanacci e fiaccolate. Un mese prima Raul Gardini si era sparato alla tempia destra e il rumore della sua calibro 7,65 rimbombava ancora per i palazzi della Milano da bere.
Dovevo sfruttare quella combinazione fortunata.
«Dammi un solo buon motivo e io ti assumo.»
Non è che gli sto simpatico: quella domanda la fa a tutti. Le doti del cassiere dovrebbero essere velocità, spigliatezza, buon umore e un po’ di furbizia. Prima di rispondere mi volto indietro per guardare i miei concorrenti, fatti accomodare a parecchi metri di distanza su una panca: sono una dozzina, ma non vedo su nessuno di loro un benché minimo segno di quelle doti. Dovrei farcela. Non capisco se gli aspiranti sono in tutto quella dozzina, o ci hanno scaglionati, una dozzina al giorno. In ogni caso gli ripeto la filastrocca del cassiere: «Un cassiere deve possedere velocità, spigliatezza, buon umore e un po’ di furbizia». Usare possedere per avere fa sempre impressione, è indice di serietà e buona preparazione.
Sembra divertirsi. Però, quando mi ci metto sono proprio bravo…
La sparo grossa. Grossissima. «Sa, ci tengo molto a questo lavoro. Mi serve. Ho una famiglia da mantenere, siamo in cinque fratelli, tutti più piccoli di me e senza lavoro, mio padre è malato e mia madre fa le pulizie quando può.» Si fa serio. Annuisce alle mie balle.
«Sarebbe una boccata d’aria, soprattutto adesso che l’Italia sta cambiando…» continuo io.
Certo, l’Italia sta cambiando, ma il mio sistema è infallibilmente italiano: essere schifosamente umili con i potenti. Mos italicus. L’avevo anche studiato in diritto. Certo, quella era la mia interpretazione. Paga sempre. Soprattutto adesso con Tangentopoli e la caccia alle streghe, confortare i potenti paga ancora di più: proprio nel momento in cui ci si sente autorizzati ad attaccarli, mostrargli quel rispetto che sentono di stare perdendo, li inorgoglisce. Da quel giorno ho imparato che spergiurare è un sistema infallibile. Gli esseri umani non meritano trattamento migliore.
«Testina, mi piaci…» Si sta addirittura commuovendo. Sento che dietro la piccola folla di concorrenti rumoreggia, il tipico brusio di disapprovazione. Ci sarà anche qualcuno che scuote la testa, me lo immagino. Penseranno: «Ecco il solito raccomandato», e invece no, sbagliano, semplicemente ho usato una delle doti del cassiere, la velocità unita a una certa furbizia. Peggio per loro se non hanno imparato niente dalla vita, neanche a stare a galla come stronzi.
Così ottenni quel posto. Il mio primo posto di lavoro. Dietro una cassa, con un camice bianco (il bianco trasmette un’idea di igiene e ordine, così mi spiegarono), a battere prezzi e scontrini, a dare il resto. Per uno che voleva essere un cazzone, era un buon risultato. Sputateci.

***

Faccia da Ustinov scoprii poi essere, com’era abbastanza ovvio, il direttore del supermercato. Altrimenti detto ragionier Farina, naturalmente cavaliere del lavoro, come da pergamena incorniciata e appesa nello studio dietro il bancone del salumiere, era il tipico leghista primi anni ’90: sfinito da quarant’anni di DC, dalle smorfie e i passetti di danza di gente come De Mita, Rumor, Goria, Fanfani, votati per puro quieto vivere, non poté credere ai propri occhi quando vide nascere un partito che parlava come la gente normale, cioè un pessimo italiano rancoroso, un partito della rabbia, di chi non ne poteva più. L’aveva abbracciato con il trasporto fideistico degli amori senili. E anche un po’ feticistico. «Come tornare a scopare dopo quarant’anni di astinenza forzata, uè!» e per lui che, scapolo, era sempre andato a puttane doveva essere un nobile pensiero. Veniva dalla Val Brembana, da Bracca, ed era fiero di poter dire «Uè, noi eravamo ancora nelle caverne quando voi laggiù in pianura vi inculavate già e vi piaceva neh? Siamo gente sana noi delle Alpi Orobie, casa, famiglia e danè!»
«Pizzicami, pizzicami… non ci credo ancora» diceva a Silvano, detto Ano, il commesso scemo, ogni supermercato ne ha uno, non ho mai capito se per legge o per altre questioni legate a equilibri psichici, visto che Ano faceva anche da parafulmine e si beccava gli sfoghi e le incazzature di tutti quanti, clienti compresi. Comunque appena lo vedeva attaccava con quella storia, che gli sembrava un sogno, che pregava Ano di provare a pizzicarlo per vedere se si svegliava ecc. Se allora Bossi avesse detto «Rivoluzione!», rivoluzione sarebbe stata.
«Testina, la serietà è un optional, e non dei più richiesti, credimi.»
Di fronte al mio silenzio continuava: «Chiedimi perché ti ho preso». Pretendeva che glielo chiedessi.
«Perché mi ha preso?»
«Somigli a mio genero.»
«Grazie.»
Si irrigidiva. «Uè, l’è mia un cumpliment, testina. È che l’idea di avere il mio genero sotto le mie grinfie, uè, mi arrapa, e io faccio, come se ciama?, aiutosi, te capì?»
«Autoipnosi…» Ecco a cosa era servito il greco del liceo. A correggere un montanaro di Bracca.
«Sì, chel lì. Mi dico che tu sei il mio genero, che lavori per me, mi dai sempre ragione, che sei la mia scimmietta. Però giù le mani da mia figlia, te capì?»
Portava i pantaloni tipo acqua alta a Venezia, che lasciavano intravedere la fine dei calzini rigorosamente bianchi arrotolati e l’inizio dello stinco peloso. Dava del tu a tutti, come un imperatore romano ai suoi servi. Dava del tu a tutti i clienti, quando si affacciava dallo studio dietro il bancone del salumiere.

Subentravo a un tale di nome Gianni che andava in pensione, un uomo non molto sveglio ma mite e pacifico, che vidi una sola volta, quando venne a salutare il padrone. «Non sono certo qua per comprare il prosciutto» mi disse presentandosi. «Oh no, qua è troppo caro», il che la diceva lunga sul tipo di clientela che dovevo servire: ricche borghesi mogli di imprenditori, amanti di dirigenti bancari, cameriere esigenti, più aristocratiche dei loro padroni.
Comunque non è difficile far funzionare un registratore di cassa. Pensavo peggio. Avevo anche un collega, Casimiro, detto Miro, più o meno la mia età, non gliela chiesi mai e lui non se la sentì mai di dirmela. Non parlava molto. Era magro come la Linea, l’omino della Lagostina. Se un collega coglione poteva anche starmi bene (in futuro ne avrei avuti tanti), invece che non ci fosse neanche una cassiera, nessuna femmina, un po’ mi rodeva, soprattutto perché di solito le cassiere sono carine, e chissà avrei potuto anche tirarci fuori una storia.
Così senza distrazioni a volte mi assopivo alla cassa, c’erano momenti, che potevano durare anche ore, in cui non entrava nessuno, poi una vocina interiore, come una voce di bambina, mi svegliava: «Tiziano!»
Ma poi c’erano loro, i bostoniani. I bocconiani erano detti così, i bostoniani, dalla città di Boston, per quel loro stile molto Nord America, raffinato ma freddo. Allora la Bocconi la facevano solo i ricchi, non come adesso che grazie a borse di studio anche qualcuno meno fortunato può entrarci. Certo è sempre un povero contro novantanove ricchi, ma meglio di allora che erano cento ricchi su cento, e avere a che fare con cento ricchi era peggio che morire immersi nella sabbia del Sahara con la testa schiacciata da un elefante in corsa. Venivano perlopiù a metà mattina e a metà pomeriggio, per la famose sieste tra una lezione e l’altra. Entravano in gruppi rumorosi, e il rumore aumentava quando vedevano un ragazzo come loro, cioè io, alla cassa: ci tenevano a sottolineare le differenze sociali, come a dire «Tu povero plebeo, essere inferiore, insetto, negro, ebreo, stai qua a lavorare ed è il massimo che puoi fare, a noi che ce la spassiamo ci aspetta un futuro in technicolor da fantamiliardari senza neanche tanta fatica». E infatti passando per gli scaffali, indecisi sulla merendina da comprare, non parlavano, urlavano, in modo che anch’io in fondo al locale potessi sentirli, urlavano in un misto molto snob di italiano e inglese: «Il prossimo week vado a Courma, qualche day lontano dagli stress….», «Non mi parlare di stress, caro, questo esame mi mangia vivo…», «Vacanze, cari, ci vogliono un po’ di vacanze, ce le meritiamo…», «Io sono ancora indeciso tra Sharm e Ibiza». Avevano questo modo di chiamarsi, «caro», che era molto da busoni, se poi ci si metteva anche la erre moscia era la fine: ragazze, ce n’erano poche, e così il quadro era completo. Io dalla mia postazione che potevo fare? Nonostante mi vedessero tutti i santi giorni non mi salutavano mai, né entrando né uscendo. La cosa era ancora più scandalosa uscendo, perché mi passavano davanti, io gli battevo il prezzo e loro mi davano i soldi. Finito. Né «grazie» né «ciao» né «buon giorno» né, ancora meno compromettente, «arrivederci», che poi era la verità, ci si vedeva l’indomani. Neanche quando mi davano un cinquantone per pagare un sacchetto di patatine San Carlo da duecento lire, lo facevano per umiliarmi, dicevano «Sorry, ho solo pezzi così», lasciando intendere che il loro portafoglio doveva traboccarne ogni giorno di più, il mio stipendio mensile loro se lo facevano passare per le mani ogni giorno, era la paghetta settimanale.

***

Dovevo vendicarmi.
All’inizio, ogni tanto, battevo dei prezzi gonfiati, raddoppiati, triplicati, una volta anche centuplicati, non se ne accorgevano, non facevano la spesa, non sapevano i prezzi, non ci facevano caso, e anche se se ne fossero accorti avrebbero trovato molto volgare scendere a contrattare il prezzo. Per dei futuri economisti la cosa era inquietante. Sono passati più di dieci anni, adesso si saranno sistemati, magari alla Cirio o alla Parmalat. Mio padre non ha tutti i torti quando dice che le finanze in Italia andrebbero messe nelle mani delle casalinghe, delle massaie o dei piccoli bottegai, non di questi superlaureati con la supercazzola, che non hanno cervello.
Smisi quasi subito, perché così facevo arricchire il ragioniere Farina. Allora era molto sbomballata nel flipper della mia mente questa battutona: non sarebbe stata farina del mio sacco (capito? farina-Farina… me la tenevo per me, sperare di far ridere gli altri – ma poi chi? il mio collega Miro? per piacere… – con una stronzata del genere era come illudersi di far cagare un superstitico cronico solleticandogli le chiappe).
Comunque dovevo vendicarmi. E per bene.
Avevamo un angolo panificio: ai bostoniani non poteva fregare di meno di filoncini, panini all’olio, rosette, pane pugliese, ma c’erano i bomboloni. I bomboloni, i bei, grassi bomboloni ripieni di crema gialla, con quella bella gobba imbiancata di zucchero a velo. Quei bomboloni sembravano tanti grassi prelati ben pasciuti. Venivano infilati in sacchetti di carta bianca, io ci infilavo la mano dentro, come per accertarmi della loro reale esistenza o che fosse uno anziché due, li trafiggevo sempre sorridente, battendo veloce con l’altra mano lo scontrino. Ed ecco come mi preparavo. Uno stuzzicadenti. Usavo un normalissimo stuzzicadenti che trovavo sugli scaffali, i mitici Samurai. Verso le dieci, dieci e mezzo, dipendeva dal flusso dei clienti e se ero solo o c’era anche Miro, avevo il mio «conclave» in bagno (andavo a «svernare», come diceva il ragioniere Farina): con l’aiuto dello stuzzicadenti la materia molle si modellava benissimo sulle unghie. Sembrava pongo. Il pongo. Un altro mito dell’infanzia sverginato, smagnetizzato. Fu proprio maneggiando il pongo insieme alla compagna d’asilo vicina di banco che ci piaceva tanto che intrecciammo per la prima volta le nostre manine alle sue, e se ne fossimo stati capaci quella sarebbe stata la volta della prima eiaculazione precoce. E sempre maneggiando il pongo sperimentammo, poveri cuccioli di uomo ancora innocenti, la prima dipendenza, prefigurando con decenni di anticipo chi le morse del tabagismo, chi quelle dell’alcol, chi quelle di genitori o mogli isterici, o molto più semplicemente dipendenze televisive, sessuali, meteoropatiche. Sistemavo la materia molle sulle unghie della mano sinistra, la destra la tenevo libera, mi serviva per battere sulla cassa. Funzionò? Ma insomma loro erano belli e bravi, un pezzetto di merda in pancia non avrebbe certo ostacolato la brillante carriera che li aspettava. Verso le undici, undici e un quarto arrivavano i primi bostoniani. Ricordo una settimana dove non ci fu giorno che non battessi scontrini di bomboloni e infilassi mani nei sacchetti: certo, era una vendetta muta, senza possibilità di riscontro, non è che potevo andare nei loro lussuosi appartamenti di corso Buenos Aires o Foro Bonaparte e pretendere di entrare nel cesso proprio quando vomitavano o nelle loro camerette quando si scoprivano un febbrone a 39, l’intestino depredato dai coli fecali. O scoppiava uno scandalo, tanto l’Italia di quei tempi era sempre in vena di scandali, malaffari, oppure io non ne avrei mai saputo nulla. E se i bostoniani, appena usciti dal supermercato, se ne accorgevano e buttavano via il dolce? Non credo, perché erano sempre gli stessi che prendevano i bomboloni: no, non se ne accorgevano. Ho messo della merda nel sangue di un’intera generazione di economisti, direttori di istituti di credito, banchieri, broker, consulenti. Adesso la mia merda circola nel sistema arterioso di un rampante riccastro di Milano, di qualche sottosegretario alle Finanze. Lo sfascio dell’Italia, la manovra sbagliata dell’euro sono forse anche colpa mia. La mia merda, che fa avanti e indietro come un bravo pendolare per la safena e la giugulare, forse ha infettato il cervello di qualche pezzo grosso, anche perché rispetto a quella degli altri non credo abbia particolari virtù, che so una maggiore digeribilità o una più facile assimilazione, dovrebbe avere più o meno lo stesso grado di acidità e di tossicità. Da bambini mi ricordo si diceva che chi la mangiava moriva all’istante. Altro mito da sfatare, e questa volta lo faccio con piacere: una volta riempimmo di merda di piccione la bocca di Lele, un povero handicappato che stava in classe con noi, lui se la mangiò tutta, gli dicemmo che era cioccolata bianca, e non è morto, lo vedo ancora oggi, certo è messo male, in carrozzella, ma è vivo. Non conta questo: vivere o morire?

Poi un giorno, mentre ero in trepida attesa di qualche segnale, erano ormai mesi che battevo scontrini e infilavo mani nei sacchetti, Faccia da Ustinov mi si piantò davanti. Aveva qualcosa di infernale in faccia e me lo confermò di lì a qualche secondo: voleva spiegazioni su una confezione di Samurai trovata aperta. Gli stuzzicadenti. Quindi era vero quello che mi dicevano Ano e Miro. E io che avevo sempre creduto che scherzassero. Lui passava davvero a controllare ogni singolo prodotto esposto nel suo supermarket, verificava se era sigillato per bene, naturalmente non gli interessavano le date di scadenza, anzi quelle se riusciva le modificava, ci faceva mettere sopra un nuovo bollino falso, era l’incolumità del prodotto a preoccuparlo.
«Fino a prova contraria il responsabile della merce sei tu, bel fulèt.»
Per me era una novità, doveva essersela inventata lì sul momento. Pensai solo: «Cristo».
«Uè, noi in Val Brembana siamo no abituati ai ladri.» Ecco gli strascichi di Mani pulite: accusare chiunque con il solo sospetto. Questa era l’unica lezione che la Lega aveva trasmesso ai suoi discepoli.
Pensai di nuovo: «Cristo». Ero come un distributore inceppato, continuavo a buttar fuori sempre la stessa cosa, sempre la stessa parola: Cristo, Cristo, Cristo…
«Uè, chi vuoi prendere in giro, bel fulèt? Qua sulla scatola», e mi agitava a pochissimi centimetri dagli occhi una confezione, «c’è scritto contiene duecento stuzzicadenti. Uè, li ho contati, saranno sì e no cento. E gli altri cento, bel fulèt?»
Era andata così: in quei mesi, preso dalla foga delle vendetta, avevo sempre usato la stessa confezione di Samurai, invece di diversificare. Naturalmente, non essendo la manna dal cielo, pian piano si era svuotata.

Ah, dimenticavo: mi hanno licenziato.

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