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Venti angeli
di Fabio Natale

Il giorno dei bombardamenti a Roma, Benito si svegliò ed ebbe paura. Il mondo attorno era nero e il suo respiro era l’unica cosa. Aveva fatto un sogno che era già sfuggito e la paura che restava era qualcosa di autentico, senza origine. Ma accanto dormiva la madre. Quando gli occhi si abituarono al buio, Benito ne distinse i contorni del viso, la bocca socchiusa, i capelli spessi coricati sulla guancia, il suo odore forte, il respiro lento, affidabile. Restò così qualche minuto, con gli occhi aperti, e intanto la stanza prendeva forma. Poi si alzò. La notte era immobile sbirciata dagli scuri. Silenziosa. C’erano i grilli. Sembrava che anche Roma dormisse e non si sarebbe mai svegliata.

Il giorno dei bombardamenti, Adele si svegliò dentro gli occhi di Benito. Era lì accanto al letto, fermo, lo sguardo fisso su di lei.
«Che succede?» disse, e fu brava a camuffare una certa inquietudine dentro una voce affettuosa.
«Mi sono svegliato.»
Adele abbassò le lenzuola fino alla vita e si mise a sedere. «Hai fatto un brutto sogno?» disse, e la sua voce era morbida, come se il brutto sogno, in fondo, fosse un regalo per lei, un modo di permetterle di consolarlo. Lui annuì forte, una volta soltanto, e lei ebbe una gran voglia di prendergli la faccia tra le mani e divorarla. «Potevi svegliarmi» disse. «Sei il mio ometto.»
Più tardi, Adele e Benito fecero colazione in cucina. Lui teneva stretti due tozzi di pane, uno per parte. Voleva sempre due pezzi di cibo, uno per la sinistra e uno per la destra, così da non fare torto a nessuna delle due mani. Li inzuppava in un bicchiere di latte. Adele sorseggiava il suo orzo in piedi, appoggiata ai fornelli. Era la sua cucina quella, il suo mondo, e lei lo dominava. «Fai presto, che andiamo a trovare papà» disse. Benito alzò gli occhi dalla colazione. Aveva i baffi di latte, e un pezzo di pane gocciolava sul piatto. Fu in quell’istante che gli tornò alla mente perché si era svegliato di colpo, impaurito, cosa aveva sognato. Lui era steso nel letto, al suo posto, ma la madre non c’era; era sveglio, dalla porta entrava una figura altissima, confusa nel buio, avanzava lentamente e lui non riusciva a muoversi. Quando gli arrivava di fronte la riconosceva in un lampo: aveva le corna, la barba e le ali, ed era il diavolo.
«Mamma» disse Benito.

Adele e Benito presero la circolare rossa a San Paolo. Sedettero vicino al finestrino, Adele teneva il bambino sulle gambe e gli cingeva la vita. Roma si era animata all’improvviso, come una magia, le strade erano piene e i grilli non si sentivano più. Era un lunedì caldissimo quello, senza un filo di vento. A porta San Paolo diverse famiglie prendevano il treno per Ostia.
«Gli compriamo le margherite a papà?» disse Adele.
«Sì.»
Lei dondolò suo figlio con le gambe e gli appoggiò il mento su una spalla. Anche sul tram c’era gente, e i sedili di legno erano quasi tutti occupati. Accanto a loro se ne stava un vecchio in canottiera, la pancia che traboccava sopra i calzoni di cotone, i capelli unti e nerissimi nonostante l’età. Si voltò verso Adele e aveva gli occhi spenti. Lei strinse la presa sulla vita del figlio e distolse lo sguardo. Su viale Aventino la gente era in fila per le sigarette. La coda sbucava dal portoncino del tabaccaio e arrivava in mezzo ai binari. Il tram rallentò fino quasi a fermarsi, e per passare dovette suonare. Circo Massimo appariva già sulla sinistra. Aveva i colori dell’estate. La gente lo affollava, coricata a prendere il sole, e i ragazzini si rincorrevano senza camicia. Benito si voltò per continuare a guardare, mentre il tram lasciava viale Aventino e costeggiava il parco del Celio su via San Gregorio, per sbucare infine davanti al Colosseo.
Le dieci, a Roma, il 19 Luglio 1943. Per il Verano erano quattordici fermate in tutto e Benito le contò una ad una.

La circolare fermò a piazzale del Verano, di fronte all’obelisco. Benito e la madre gli passarono accanto, mano nella mano, e si lasciarono alle spalle la basilica di San Lorenzo, con il suo campanile altissimo. Si fermarono da una delle fioraie su quel pezzetto di strada che li separava dall’ingresso del cimitero. Il chiosco profumava l’aria di un odore stantio, e un bambino non molto più grande di Benito faceva avanti e indietro dalla fontana. Teneva in braccio un grosso recipiente per l’acqua. La fioraia guardò perplessa Adele che fissava il bambino: «Porta l’acqua, signo’» spiegò.
«Quanti anni ha?» chiese Adele.
«Quattro anni.»
«Che bravo» disse Adele. «Sei bravissimo» ripeté al bambino quando fu di ritorno con l’acqua. Lui sorrise spavaldo e guardò sua madre.
«Movite che manca ancora ‘sto vaso» fece lei, indicando col piede un bidone per terra, pieno di crisantemi. Il bambino ripartì ubbidiente. Adele e il figlio lasciarono il banco dei fiori qualche minuto più tardi, con un mazzo di margherite. Benito le aveva scelte una per una.
«Sono proprio belle» disse Adele. Benito sentì montare una gioia calda da qualche parte là sotto. Le aveva scelte lui, tutte quante.
«Papà sarà contentissimo» continuò la madre.
Si avvicinarono all’ingresso del cimitero, sormontato dai pini e i cipressi. Quattro statue di pietra li osservavano impassibili. Benito si fermò a guardarle, serio. Erano come giganti. Quando varcarono l’arco, allora furono dentro. La città dei morti. A sinistra compariva la statua di una bambina nel tentativo di svegliare una donna defunta.
La lapide di Emiliano era in fondo, dopo il Pincetto, che già si vedeva sulla sinistra, dopo il Quadriportico, dopo il tempietto di Santa Maria della Misericordia e il Famedio, lungo il viale principale. Adele se lo immaginò nel suo loculo, in pace, di un colorito quasi trasparente, ancora bello e giovane, composto nel vestito da morto che si era fatto cucire prima di partire per la Grecia. Strinse più forte la mano del figlio. Lui neanche se lo ricordava suo padre. Erano stati assieme soltanto qualche giorno, quando Emiliano era stato rimpatriato ed era ricoverato all’ospedale militare del Celio, prima di andarsene. Allora Benito aveva un anno. Adele si fermò un momento. «Guarda, Benni» disse. Un uomo di pietra era coricato su una tomba, avvolto in una bandiera rossa, bianca e verde. Al centro era stampata una croce bianca su uno scudo rosso, sormontata da una corona. Tra le dita, il monumento stringeva alcuni fiori veri. «È Mameli» disse Adele. «Mettiamo anche noi una margherita?» Il bambino prese un fiore dal mazzetto di sua madre e si avvicinò alla statua. Esitò davanti all’uomo di pietra, poi depositò la margherita dentro la mano fredda e si voltò. Adele vide i suoi occhi seri e fece cenno di tornare da lei. «Sei stato bravissimo» disse, e Benito si illuminò. «Adesso andiamo da papà.» Intere epoche si susseguivano tomba dopo tomba. Artisti, soldati, mogli, bambini. Adele avrebbe voluto sapere di più. Avrebbe voluto interrogare quei nomi sottili, quelle pietre fredde, quei corpi nascosti nella terra, e capire perché, che cosa si ottiene alla fine di tutto. Strinse gli occhi e li riaprì. Poi prese la mano di suo figlio e affrettò il passo. I cipressi li accompagnavano durante il tragitto, alti e tutti uguali, assieme alle cicale e ai gatti vagabondi. Non c’era molta gente in giro per il cimitero. Benito continuava a guardarsi attorno. Il Verano nascondeva migliaia di dettagli, viottoli bui, terrazze assolate, fiori, sassi colorati, un gufo di pietra. Vide un prato con l’erba ingiallita dal caldo, punteggiato di piccole croci in cemento. Il sole era gonfio e i moscerini danzavano controluce come una polvere dorata. Quando arrivarono al centro del Quadriportico si fermarono. Benito sentì uno strano rumore nella testa e trattenne il respiro. Veniva da lontano, come una vibrazione, come uno sciame di calabroni. Sua madre osservava in alto, aveva una faccia severa. Benito respirò di nuovo e guardò anche lui verso l’alto. I pini svettavano sopra gli archi del porticato con le loro chiome a forma di fungo, e nuvole bianche rigavano un cielo pulito. Dall’orizzonte venivano fuori dei puntini neri. Benito strinse la presa sulla mano della madre. Il ronzio dall’alto era sempre più forte, monotono, e i puntini erano due, poi cinque, poi troppi, divoravano il cielo. Allora suonarono i segnali d’allarme, e prima di riuscire a capire le bombe già scendevano su Termini e lo Scalo. Adele prese in braccio il figlio e cominciò a correre. Benito vide il mazzo di margherite cadere per terra, e sparpagliarsi in un mucchietto informe, bianco e giallo, e in un attimo le bombe erano già arrivate sul Verano. Sembrava che venissero da tutte le parti, da dentro la gola, e Adele barcollava, stringeva il bambino, correva, venne giù una colonna di marmo e Adele avrebbe voluto urlare, ma ogni rumore era inghiottito dal rombare degli aerei, dagli scoppi delle bombe, il ticchettio delle mitraglie, e in quel momento tutti i cristiani erano muti. Il rifugio antiaereo alla stazione Termini era troppo lontano, come quello sotto il cavalcavia di Porta Maggiore, e Adele non poteva che correre verso piazzale del Verano, l’uscita, il mondo dei vivi, e più si avvicinava agli archi dell’ingresso, più le bombe erano vicine. Il campanile della basilica si stagliava lontano come un traguardo irraggiungibile. Adele adesso non sentiva più niente, la strada sembrava scapparle sotto i piedi, rischiò di inciampare in un cadavere con la faccia per terra e cominciò a fare caso ai morti. Un uomo a pochi metri dal piazzale era accartocciato sul bordo della strada, con gli occhi sfondati e il torace appiattito. Un’ondata di caldo la investì all’improvviso e quasi le strappò via la faccia, ma Adele continuò a correre. Oramai era fuori.
Piazzale del Verano era l’inferno. I binari del tram erano rivolti verso l’alto, tuffati nel vuoto in un giro della morte incompiuto, e i fili dell’alta tensione friggevano per aria attorcigliati, e da ogni parte erano sparsi fiori, macerie, sangue e brandelli di carne, i sampietrini venivano sparati ovunque, come proiettili, sfondavano i muri tagliavano i rami si portavano via pezzi di uomo, il tetto della basilica crollò su sé stesso. Adele si guardò le mani e non ci trovò più suo figlio.

Benito si rialzò subito.
«Mamma» disse, «mamma!» gridò ancora, ma dalla bocca sembrava non venire fuori niente. Lei correva avanti, spariva sotto gli archi dell’ingresso. Il mondo attorno vorticava impazzito, una scheggia di pietra lo colpì sotto l’orlo dei pantaloncini, di striscio. Benito era solo. Rimase a guardare. Un angelo di pietra volava in alto, con le ali spiegate. Riempiva tutto il cielo.

All’improvviso si sentì strappare da terra. Attorno era ancora l’inferno e un uomo lo teneva stretto tra le braccia. Benito lasciò fare.

Adele vagava per la piazza e aveva in testa solo il nome del figlio. Un vecchio scavava tra le macerie con le unghie rotte e sanguinanti, la polvere e il fumo soffocavano tutto, le bombe continuavano a cadere, ma non era importante. Si ritrovò a sbattere contro un carretto rovesciato, le ruote giravano a vuoto e due cavalli morti erano ancora attaccati. Adele non sapeva più dove andava, un angolo era uguale a un altro, i piedi non erano più neanche i suoi. Raggiunse il chiosco dei fiori, ma la donna non c’era più, e neanche il bambino, i fiori erano seminati sull’asfalto come un tappeto di morte.
«Benito» sussurrò.

L’uomo arrancava con il bambino addosso. Si trascinava dietro la gamba zoppa, la terra tremava ma lui restava in piedi. Arrivarono su piazzale del Verano. Pezzi di cadaveri si mischiavano a pezzi di fiori, pezzi di muri, le botteghe dei marmisti erano sfasciate, i palazzi sventrati, i lamenti delle persone si squagliavano nelle esplosioni.
L’uomo proseguì verso via De Lollis. Le bombe non potevano toccarlo, le sue mani erano tenaglie.
Benito guardò in alto.
Il cielo era scomparso.

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