Estremi rimedi
Danilo Deninotti

Ambientato tra Milano e la provincia cuneese, Estremi Rimedi affronta tre mesi cruciali nella vita della famiglia Calleri.
Davide è un quarantacinquenne che, dopo gli anni passati come creativo nelle agenzie milanesi, ha convinto la moglie a ritornare in provincia. Lavora da casa come freelance e consulente. E ha rimesso in piedi il gruppo che aveva con tre vecchi amici, in vista di un imminente quanto paradossale concorso di band emergenti.
Laura è un’insegnante delle scuole medie, che a quarant’anni si trova a fare i conti con la vita di provincia e con una relazione extraconiugale con un uomo più giovane.
Nicola è il figlio amante dell’hip hop e nel pieno dell’adolescenza.
Caratterizzato da una costruzione narrativa che alterna i piani temporali e che incrocia i punti di vista dei personaggi, Estremi rimedi è un romanzo sui conflitti generazionali, ma è soprattutto la storia di una famiglia sul punto di sgretolarsi, in cui viene espressa tutta la difficoltà di essere padre, madre, marito, moglie, figlio, in cui il mantenimento di un equilibrio dato finora per scontato diventa l’obiettivo a cui tutti, quasi inconsapevolmente, tendono.

Di seguito presentiamo il primo capitolo.

***

Il nome completo così come riportato sulla carta di credito: Calleri Davide. Data di scadenza: 04/12. Poi controllò di aver inserito giusti i quattro gruppi di quattro cifre della sua Visa e ridigitò i tre del codice di controllo scritti in corsivo sul retro. Come per ogni altra situazione che aveva affrontato nella vita, anche quella doveva essere spinta a finire nella direzione giusta. Tirò su gli occhiali con la sola forza del movimento combinato di zigomi, naso e orecchie. E confermò l’acquisto.
La seconda metà del primo pomeriggio stava muovendo tutto in modo lento e ordinato. Davide si accorse di non aver sentito passare una sola macchina da ore, e guardò le nuvole andare piano dritte da ovest a est della sua visuale, mentre i rami alla sinistra dell’abete scendevano e salivano senza strattoni. Dietro le colline che aveva di fronte c’era l’orizzonte, e all’orizzonte, c’era solo l’orizzonte.
Nell’aggiornare la pagina web con la mail aperta, sentì che tutto il cosmo che lo circondava e lo conteneva era positivo e fatto di calma. La conferma dell’acquisto era lì, arrivata in un attimo. Anche l’attesa minima per il refresh era stata ordinata e funzionale. A Davide sembrò di toccarla tutta quella calma. Era come uno sgarro mentale alla dieta che si era appena autoimposto: fuori pasto solo frutta e verdura cruda di stagione. Chiudendo gli occhi sentì in bocca la stessa sensazione del cioccolato fondente, caldo sulla lingua e carico di adrenalina. Il corriere avrebbe effettuato la consegna in tre-cinque giorni, c’era scritto nella mail. Avrebbe aspettato, nutrendosi di quella bonaccia ipercalorica.
La seconda metà del pomeriggio era stata esattamente come tutta la mattina, senza voci che filtravano dal piano superiore, con la corsa a due tra i pensieri che alimentavano il suo inconscio e quelli che gli spiegavano come continuare a fare il lavoro che stava facendo. La seconda metà del pomeriggio finì con il ritorno a casa di Laura e Nicola.
«Ma la maglia che hai su?»
«I soldi della nonna, perché?»
«No, bella, mi piace. Un po’ larga, ma bella.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Le parole maglia che hai su e larga scesero dritte di sotto nello studio di Davide. Un’invasione che fermò il flusso di bit mentali che lo stavano nutrendo, ma che era anche una profanazione del luogo in sé. Il lavoro e quello studio erano stati una delle sue vittorie nette. Aveva fatto come gli atleti. Avere una meta e sapere dov’è. Volerla raggiungere e sapere come fare. Avere un sogno e svegliarsi presto la mattina per iniziare a inseguirlo con tutte le forze. Consci che di sera gli occhi si chiudono con lo scopo ancora lì, delineato preciso, e i disegni degli scenari futuri colorati dietro le palpebre da un cervello che li sfoca piano piano, per cullarti nel sonno.
Davide schiacciò play e si infilò le cuffie collegate con il computer, arrendendosi ai pensieri che gli servivano per fare andare avanti il lavoro.

Laura, nell’attimo che aveva impiegato a girarsi dopo aver appoggiato la borsa sul divano e sottolineato che la maglia di Nicola le piaceva davvero, era rimasta da sola. Laura, che era politicamente il baricentro di quella casa, in quel momento lo era diventata anche geograficamente: Nicola in camera e Davide di sotto, si lasciò cadere sul divano. Pensò che sospirare non sarebbe servito a nulla. E chiuse gli occhi per due minuti, con le dita delle mani intrecciate tra i capelli rossi di henné.
Quel tratto di tempo che stava andando dal tardo pomeriggio all’inizio della sera era una ricetta da seguire alla perfezione. Un amalgama di scene che dovevano essere buone alla prima, perché si stava girando a ridosso della messa in onda, se non praticamente in diretta. E le azioni delle scene erano come le estremità dei fili usati per stendere. Fissate forti, ma sempre al limite di capitolare sotto i colpi di quel principio fisico chiamato tensione. Laura riaprì gli occhi, pronta per iniziare a giocare.

Nicola aveva la testa rivolta verso il muro di fronte alla sua scrivania. Gli capitava sempre più spesso. Succedeva che finiva per fissare il vuoto, ma poi appena se ne rendeva conto riusciva a gestire la situazione. Guidava se stesso come fosse un joystick: immergendosi nel niente grazie a un cervello in grado di comandare entrambi gli emisferi separatamente. Il suo perimetro era concreto, sentiva il lato esterno del corpo presente e lo bloccava rigido e in equilibrio, con comandi logici e analitici che venivano dall’emisfero sinistro. E poi invertiva il funzionamento dell’emisfero destro, annullando a priori tutte le percezioni che sarebbero arrivate. Nicola iniziò a percorrere il tratto di tempo che stava andando dal tardo pomeriggio all’inizio della sera creando un vuoto spaziale perfetto.

«Hai trovato lo spunto?»
Davide, ogni volta che sentiva la porta del suo studio aprirsi, cambiava automaticamente l’uscita audio del computer dalle cuffie alle casse preamplificate.
«Credo di sì» disse. E guardò Laura. Da quando aveva iniziato a fare quella smorfia di sufficienza uguale a quella che faceva sua madre? C’era stato un momento o era stata una decisione precisa iniziare a farla? Poi abbassò il volume: gesto che era sempre valso più che l’effettivo risultato dell’azione. Lo sapevano entrambi.
«Bene.»
«Già.»
La smorfia poteva essere seguita anche da un cenno preciso di no. Come adesso. Mentre la chitarra di J. Macis stava facendo di tutto per annientare la melodia pop che con fatica era arrivata fino al secondo ritornello.
«E quale sarebbe?» gli chiese.
L’idea che aveva trovato era ancora più vecchia di quel pezzo dei primi anni novanta dei Dinosaur Jr. Ma come aveva sempre considerato quella canzone perfetta e attuale, era sicuro che anche il suo spunto lo fosse.
«Una roba da nerd.» Voleva stupirla. Partire dal vago con un sentore di inutilità e fallimento per poi colpire sul semplice. Cappello di spiegazione, scena e slogan finale: come avrebbe poi dovuto fare tra qualche giorno, per presentare quel concept corredato da soggetto e claim finale in video conferenza.
«L’informazione è una differenza che fa la differenza» disse.
«Così diretto?»
Ribattere non serve se l’obiettivo è provocare stupore: «La protagonista dello spot è una goccia di pioggia che cade sul viso di una persona, con la reazione di stupore e attenzione che provoca. Il punto è: una goccia di pioggia che colpisce a terra dietro di noi non contiene informazioni, ma quella che ci atterra sul naso, sì. Claim: l’informazione è una misura d’effetto».
Davide fece sì con la testa e ritornò a fissare lo schermo del computer. Gli piaceva stupirla. E gli piaceva quando l’effetto positivo dello stupore provocato sugli altri ricadeva di riflesso su di lui.
Laura tirò su le sopracciglia di colpo facendo quel suono nasale che è una fusione tra una serie di m e una di u. Aveva anche spalancato gli occhi, che però erano subito andati a guardare un punto fisso sul piano dell’orizzonte, come fanno dal palcoscenico gli attori professionisti.
«Bello.» E lo disse mentre pensava due cose. Uno, che suo marito era stato tutto il giorno a navigare su Internet e due, che quella roba le diceva qualcosa, se la ricordava, veniva dal passato. Come i Dinosaur Jr.
«Nicola?» Davide si scrollò di dosso la sensazione di benessere corporeo provocato da una vittoria della mente.
«Su a sentir musica.»
«Cristo.»
«Be’, almeno lui è al passo coi tempi.» Ma mentre lo disse, Laura si accorse che oggi, in quel tratto di tempo che stava andando dal tardo pomeriggio all’inizio della sera, non aveva l’equipaggiamento mentale giusto per affrontare più di un brevissimo scambio di botta e risposta sui gusti musicali del figlio. Senza contare poi che in una sola volta aveva dato anche un doppio giudizio su quelli del marito. Sentiva come se avesse addosso un giubbetto antiproiettile infilato di fretta, che aveva lasciato il lato alto sinistro del petto leggermente scoperto. Bloccò la risposta di Davide mentre la vedeva già comparire a forma di paragrafo argomentativo nei suoi occhi. Gli baciò le labbra. E sentì soffocare un cristo.

Parlare da solo col proprio cervello. Questa era un’altra cosa pazzesca che Nicola aveva scoperto di saper fare. Doveva per forza essere una specie di tappa della crescita o qualcosa del genere. Ma in casa non c’erano libri di Pedagogia che avevano dentro la risposta giusta. Era andato su Internet, ovvio, ma non ne era ancora venuto a capo. Forse chiavi di ricerca come riuscire a parlare da solo con il proprio cervello o dialogo cervello-io, erano ancora troppo complesse o troppo vaghe per dare dei risultati sensati. Ci avrebbe lavorato su.
In ogni caso il passaggio era stato chiaro. Fino all’anno prima il rapporto tra lui e il suo cervello era stato solo musicale. In macchina, a cena con i suoi, o a casa di parenti vari, lui intratteneva il cervello con la musica e viceversa. A volte partiva il cervello, con un beat dopo stimoli casuali, tipo un colpetto della forchetta contro il piatto. Ma la maggior parte delle volte era lui a comunicare al cervello la prima parola di un verso e il cervello a soddisfarlo con l’intero pezzo. Ora, però, era diverso. Ora c’era un vero scambio dialettico. Riusciva a intessere discussioni fatte di botta e risposta. Oppure anche a ragionare a due voci su sviluppi futuri di certe situazioni andando avanti per minuti interi, aprendo possibilità dopo possibilità. Era una cosa fantastica. E a quell’ora, arrivato effettivamente l’inizio della sera, lì fermo immobile nella sua stanza, cominciò ad affrontare uno dei suoi discorsi preferiti: le differenze tra il rap della East e quello della West Coast.

«Ehi.»
«Ehi.»
Laura rifiutava il cameratismo di quell’espressione. Da sempre. Aveva per l’ehi la stessa avversione che aveva per lo yo, che ogni tanto ancora adesso si dicevano Davide e i suoi amici al posto del sì e del ciao. Ma aveva fatto una concessione a Davide. Poteva usare l’ehi. Lei non approvava, ma poteva usarlo. Anche a tavola. Anche con suo figlio.
«Che hai fatto oggi pomeriggio?» Da quando Nicola era in grado di rispondere a quella domanda con delle vere frasi, Davide si sentiva un idiota nel pronunciarla.
«Suonato.»
Ecco, erano risposte al participio passato come queste che lo facevano impazzire dal ridere. Ma doveva restare di ghiaccio e non fiatare. Come poteva fare a spiegare a suo figlio quindicenne che sì, ok, lo so che ti ho fatto una domanda del cazzo, ma capiscimi, quali sono le domande che un padre può fare a un figlio?
Fai il padre e non il compagnone, era l’unica regola di Laura. Ma per Davide la conseguenza di quando seguiva quella regola, era che le domande che faceva a Nicola finivano per essere dei copia e incolla di quelle che gli aveva fatto il suo di padre. Ed erano domande del cazzo.
Però, un attimo, aveva detto suonato?
«Davvero?» Da quando suo figlio suonava uno strumento?
«Sì, a casa di Glauco.»
«Ma in due? Cosa avete fatto? Roba acustica? Lui cos’ha?» Laura fece quella smorfia, ma Davide non si ricompose. «E tu cosa suoni? No, canti, giusto?»
«Gangsta rap e West Coast, in generale.»
«Cristo.»
«Davide!»
«Avete messo su dei dischi.»
«Abbiamo suonato un po’ di dischi di Glauco.»
«No, non avete suonato. Avete messo su dei dischi.»
«Suonato dei dischi.»
«Suonare è usare degli strumenti, non mettere dei dischi in un lettore.»
«Come vuoi. Noi diciamo così.»
«Non è come voglio. I dischi non si suonano. Sono gli strumenti che si suonano.»
«In inglese si dice play per tutte e due le cose.»
«Diosanto.»
«È così.»
«Lo so che è così!»
«Quindi ho ragione.»
«No, non hai ragione! Perché il concetto è che i musicisti suonano, i dj no.»
Poi, dai due estremi del tavolo, si voltarono entrambi verso Laura, toccandosi i capelli: rasati quelli di Nicola, in fase di crescita irregolare quelli di Davide. Ma Laura fece un no benevolo, osservando moltiplicati per due gli stessi identici occhi che le chiedevano la stessa identica ragione.

L’indice infilato nel libro e la schiena contro i due cuscini del letto: stare in camera con le tende tirate e senza nessuna luce che veniva da fuori la aiutava a concentrarsi su quello che nella sua testa chiamava la futura disposizione dei mobili. Era un’attività rilassante. E quella era la posizione perfetta. Laura faceva sempre la stessa panoramica. Mancava una sola cosa: una libreria ad angolo. Ma bisognava spostare la cassettiera. Ci sarebbe stato equilibrio così. E meno senso di vuoto. Solo che poi l’armadio sarebbe stato troppo centrato. In realtà, non le interessava per niente fare quei cambiamenti. Come per le candele. Le aveva messe sulla cassettiera ma non le aveva mai accese. Quando diavolo le accende le candele la gente?
Sfilò l’indice dalle pagine del libro e riabbassò lo sguardo. Davide sarebbe venuto su mentre lei stava ancora leggendo e si sarebbe messo a leggere anche lui. Poi lei avrebbe spento la lampada del suo comodino e si sarebbe messa a dormire. E Davide avrebbe continuato a leggere e a ridere con le spalle. Mentre Nicola aveva già abbandonato divano e televisione alle dieci meno un quarto.

Rileggere le cose di sera dà la giusta prospettiva. Perché di sera, le cose che aveva scritto durante il giorno gli sembravano sempre stronzate. E nella comunicazione le stronzate funzionano.
Davide era anni che aveva imparato che nella pubblicità, nel marketing e nella comunicazione basta seguire delle regole dialettiche precise. La banalità si chiama semplicità. Copiare pari pari si può e si deve fare, e si dice citare. Hai un’idea sola? Ottimo, tirala per i capelli per adattarla ai diversi media, usa il verbo declinare, e un impegno da cinque minuti diventa una perfetta proposta olistica. Hai giocato con un luogo comune per scrivere un pay off? Hai promesso. Fregarsene delle linee guida e proporre una cosa completamente a caso? Pensiero laterale. Ricerche di mercato, focus group, brainstorming, powerpoint di cinquanta pagine sulle emozioni su cui si deve basare la percezione di un prodotto, briefing, analisi di posizionamento, consumer insight. E creatività. Tutto fumo negli occhi. Ma come poteva non adorarlo?
Davide aprì la pagina word con le idee per una pubblicità che avrebbe potuto partorire qualunque creativo che avesse letto un paio di articoli sparsi di tecnologia interattiva. Un qualsiasi ragazzino in un open space di Milano sarebbe di sicuro stato in grado di scrivere lo stesso concept. Ma c’era una grossa differenza tra lui e quel ragazzino. Lui non doveva tenersi aggiornato sui blog di marketing virale tra un briefing e l’altro in un’agenzia di Milano per dimostrare al direttore creativo quanto ci credeva. Lui non doveva sgomitare con altra carne da macello per sopravvivere a una città che ti svena per l’affitto di una stanza e che ti fa dormire con vista circonvallazione esterna. Lui era a Mondovì, nello studio di casa sua, fuori il nero stellato della sua isolata provincia piemontese targata Cuneo. Si sentiva come nel rosso del bersaglio della finale olimpica del tiro con l’arco. L’aveva raggiunto con una precisione studiata e ora ci viveva in mezzo, allargandolo e facendolo diventare sempre più rosso. E anche se un problema c’era, era deciso a risolverlo. E La Soluzione sarebbe arrivata via corriere in tre-cinque giorni.

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