La mano di Antonius Block
di Matilde Quarti

Avevano deciso di mettersi a camminare sistematicamente la mattina dopo il compleanno di Tobia, quando tutti se n’erano ormai andati ed erano rimasti solo loro due, a fissare le schegge delle bottiglie di Beck’s incastrate tra l’acciottolato.

Tre ore prima Piero Rattazzo aveva abbassato la serranda, e mezz’ora dopo aveva chiuso anche l’indiano. Tobia e Jacques avevano ammazzato l’ultima birra ciondolando tra i locali e il parco, finché ogni ubriaco rimasto non si era allontanato a passi incerti. Allora era successo; così come si fa la classifica dei culi più belli dell’università, si erano messi ad elencare meticolosamente tutte le cose che non sarebbero riusciti a fare prima della loro morte.

A chiederglielo non avrebbero saputo dire chi avesse cominciato per primo, il pensiero continuava a tornare loro alla mente dalla notte dell’incidente di Flavio. Ci si arrovellavano ciascuno per conto proprio, senza mai raccontarselo ad alta voce, quasi fingendo che quella brusca inserzione del dolore nella loro quotidianità fosse qualcosa che si stavano aspettando. Ma in realtà, che ci si possa schiantare contro il guardrail del Forlanini tornando da una serata drum ‘n’ bass, era un’eventualità che nessuno dei due aveva mai preso in considerazione. Che la macchina si potesse sollevare e ribaltare su se stessa, due volte, era poi qualcosa di completamente estraneo al mondo che avevano fino ad allora sperimentato. Dopo nove giorni Flavio non si era ancora svegliato, il decimo giorno Tobia aveva compiuto ventitré anni.

Ormai completamente soli, seduti sul muretto del parcheggio, Tobia e Jacques si erano concentrati sulla macabra lista. Snocciolavano esperienze a voce bassa, parlando lentamente, con cadenza leggermente irregolare. Prima avevano tirato in ballo cose incredibili, lo skydiving dall’Himalaya, o la scuola per astronauti, con quella specie di giostra per simulare l’effetto centrifuga che compariva sempre nei film. Ma nel giro di pochi minuti, con un’angoscia che cresceva come la nebbia nelle ore subito prima dell’alba, avevano cominciato a soffermarsi su questioni sempre più plausibili. Leggere tutti i libri scritti in italiano, visitare tutti i capoluoghi d’Europa, partecipare a tutte le date di un tour dei Depeche Mode, scopare con una ragazza per ogni stato del mondo. Ogni questione tirava in ballo complesse congiunture di spazio e tempo, che unite sembravano costituire un ostacolo insormontabile, per Tobia e Jacques, alle cinque e mezza di mattina, in via Vetere a Milano. Avevano provato ad accorpare le prove: leggere andando ad un concerto dei Depeche Mode dove avrebbero rimorchiato una ragazza di nazionalità sempre diversa. E se alla ragazza non fossero piaciuti, dopo aver visto dal vivo Dave Gahan? Avevano una tabella di marcia serratissima, non avrebbero avuto il tempo di mettersi a fare i cavalieri e offrire birre a una libanese per convincerla a passare la serata con loro. E in ogni caso, le libanesi potevano bere la birra?

Alla fine uno dei due, ancora non avrebbero saputo stabilire con certezza quale, aveva detto, «Camminare per tutte le strade di Milano».

Erano rimasti interdetti per qualche istante, e strizzando gli occhi avevano disegnato nella mente una mappa della città, come se si trovasse a pochi metri da loro e non riuscissero a metterla bene a fuoco.

«No aspetta. Questo lo possiamo fare.»

 

Jacques aveva girato le chiavi nella serratura di casa che era già giorno fatto. Viveva in un moderno complesso di monolocali affacciati su un corridoio esterno, come ancora si vedevano nelle case di ringhiera. Piani su piani di esistenze divise da muri di cartapesta. Jacques era entrato senza fare rumore, sperando di avere ancora qualche ora di sonno prima che i bambini del piano di sopra cominciassero a trascinare trattori e cingolati sul pavimento. Aveva guardato Giulia rigirarsi sotto il lenzuolo, con i capelli rossi che le coprivano completamente gli occhi. Si era morso il labbro superiore infilandosi nello spazio angusto tra il letto e la cucina, poi l’aveva scossa.

«Amore, devi darmi tre ore al giorno per un po’ di tempo.»

Giulia si era alzata sui gomiti stropicciandosi la guancia destra.

«Vado a camminare con Tobia.»

Giulia aveva annuito, rigettandosi a peso morto sul cuscino.

Jacques, sdraiato accanto a lei, aveva disegnato con una penna bic blu una mappa del quartiere sulla sua spalla. Aveva tracciato una lunga linea, che era via Savona, e tante piccole righe di traverso, a destra e a sinistra. Gli era piaciuto immaginare che le lentiggini di Giulia fossero i lampioni, piantati casualmente, qualcuno su un balcone, qualcuno in mezzo alla strada. Si era immaginato un vecchio pensionato, con la canottiera bianca e una pancia che esondava da un paio di boxer azzurri, che aprendo le persiane per innaffiare i gerani si fosse trovato un lampione, piantato lì in mezzo ai fiori con il suo alone di luce gialla. Poi si era reso conto che il suo quartiere sembrava un millepiedi e che Giulia si sarebbe arrabbiata molto se si fosse svegliata. Ma era sicuro che non potesse vedere il disegno a meno di fare difficilissime contorsioni con il collo, quindi, forse, avrebbe anche potuto non accorgersene mai.

 

La mattina seguente Tobia si era svegliato da solo. Come prima cosa aveva notato che il poster degli X-Men, ricavato quindici anni prima dal paginone interno di un album di figurine, si stava staccando dall’armadio. Uno degli angoli si era ripiegato su se stesso decapitando Tempesta, il che era un peccato, perché Tempesta era sempre stata la sua preferita. Aveva preparato un caffè doppio (nel senso che usava la moka per due persone, ma gli piaceva chiamarlo «doppio», come si fa al bar) e lo aveva bevuto sdraiato sul letto guardando due puntate di Weeds e pescando da un sacchetto di biscotti assortiti. La casa era vuota, suo padre se n’era andato due mesi prima: amministratore di condominio era scappato in Sud America con la cassa per i lavori di ristrutturazione di tre complessi e un’insegnante di danza decisamente più giovane di lui. Tobia se ne vergognava, ne aveva parlato solo una volta, con Jacques e Flavio. Aveva raccontato che il padre era fuggito con una ballerina, ma aveva omesso la faccenda dei soldi e del Sud America. Il Sud America era troppo. Qualche giorno prima Tobia aveva trovato sul comodino di sua madre una scatola di tranquillanti. Non somigliava per niente ai flaconi arancioni e ingombranti che comparivano in televisione, era una scatolina bianca, sottile, con il nome scritto in lettere verdognole leggermente separate una dall’altra. Non ne aveva fatto parola con lei, ma si era sentito incredibilmente triste.

Tobia, quella tarda mattina dopo il suo compleanno, dopo il caffè con i biscotti si era vestito per andare in facoltà. Si era trascinato per tutta la casa e aveva dedicato a ogni piccolo gesto un incredibile ammontare di tempo. Poi, invece di uscire, aveva guardato una terza puntata di Weeds.

 

Verso sera Jacques e Tobia si erano dati appuntamento sul ponte di Via Farini, in fondo al marciapiede sul lato di destra, appena prima della curva per l’Isola. Tobia era arrivato in anticipo di un’ora, nella convinzione di trovarsi al principio di una grandiosa missione che necessitava di una preparazione rigorosa e attenta. Da giorni ormai si era imposto un ferreo regime, per non rischiare di restare intrappolato in ragionamenti che aveva scoperto di non saper gestire, e che prevedeva la costante presenza di altri esseri umani, birra, droga, poco sonno e molti telefilm. Improvvisamente solo, privato di quegli stimoli che lo facevano passare indenne dalla mattina alla notte fonda, Tobia era entrato macchinalmente nel primo bar a portata di sguardo. Aveva bevuto una birra, poi una seconda, e per la restante ora era rimasto seduto sul gradino di un centro estetico thailandese. Con la schiena poggiata alla vetrina oscurata e gli occhi puntati sull’insegna al neon verde dell’Holiday Inn aveva chiamato più volte il numero di cellulare di Flavio. Sapeva che non gli avrebbe risposto nessuno, l’aveva spento lui stesso un attimo dopo aver avvertito la sorella quando erano entrati in ospedale, si ricordava ancora come ci aveva giocherellato aspettando che Jacques riuscisse a ottenere qualche informazione dagli infermieri. A ogni tentativo sentiva la voce dell’operatore telefonico informarlo che il numero non era al momento raggiungibile, di provare a richiamare più tardi. Un confuso astio contro i messaggi pre-registrati, che non possono ricoprire con una frase fatta tutta la rosa delle possibilità umane, lo portava a continuare a premere il tasto di chiamata. Poi era arrivato Jacques.

Tobia gli aveva allungato la bottiglia da finire e Jacques aveva raccontato una storia divertente su delle scritte che aveva disegnato la notte prima sul corpo della sua fidanzata.

«Stamattina era in ritardo e non si è fatta la doccia» aveva detto, e avevano riso tutti e due.

Con una piantina di Milano dispiegata sul braccio, Jacques aveva fatto vedere a Tobia le prime tre ore di percorso: camminando con passo spedito sarebbero riusciti ad arrivare in Piazza Firenze, percorrendo tutte le vie interne a una sorta di pentagono immaginario di cui occupavano uno degli angoli. Ma invece di muoversi Jacques e Tobia erano rimasti qualche minuto con la testa appoggiata alla grata metallica del ponte, assorti a guardare i binari che si dipanavano sotto di loro confluendo verso la stazione e, ancora oltre, il deserto disarmonico di grattacieli e gru.

Poi si erano girati verso il Cimitero Monumentale.

«Andiamo?» aveva chiesto uno dei due.

«Andiamo» aveva risposto l’altro.

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