L’altra donna
di Antonio Meli

Giulia la conosco un venerdì sera nel solito pub. Qualche sera più tardi mi invita a prendere una birra e fare due chiacchiere. Io capisco bene cosa vuol dire e so già quello che succederà, così ci penso su un’oretta, faccio una doccia fredda e alla fine le dico di sì, va bene, passo a prenderti per le dieci. Prima di cena telefono alla mia ragazza ma lei non risponde, allora mi dico di non fare tardi, le telefonerò una volta tornato a casa. Alle dieci e un quarto mi trovo con Giulia, ci siamo dati appuntamento alle pensiline degli autobus nei pressi dell’università, lei è una studentessa fuori sede. Non è così carina, al buio del locale lo sembrava di più. Comunque siamo qui e allora dove vuoi andare?, chiede lei. A me non va di andare in giro né di allontanarmi troppo, così ci fermiamo in un piccolo squallido bar nei dintorni, una birra due chiacchiere e poi a casa, veloce facile e sbrigativo, mi convinco, alla fine non sto facendo niente di male, vero? Poi però mentre siamo seduti al tavolino fuori dal bar, unici avventori delle dieci e mezza di un inutile martedì sera, il mio telefono squilla e io non rispondo. Perché non rispondo? Ci penso mentre questa Giulia mi parla della sua giornata appena trascorsa e di cosa fa nella vita e della sua ultima relazione – un convegno sulla situazione palestinese organizzato da un’associazione universitaria che si definisce emarginata e per emarginati e alla fine risulta essere chiusa ed elitaria perché in fondo il potere ha lo stesso peso sia tra i ricchi che tra i poveri; qualcosa che ha a che fare con la chimica, o forse biologia, sì, biologia, roba di laboratori e una tesi da consegnare entro fine mese; un tipo senegalese che viveva con lei e un bel giorno o meglio una brutta notte le ha detto senti baby devo partire, vado a Napoli, non so quando tornerò e insomma tanti saluti e chi l’ha più visto, uno dei tanti poveri cristi che vediamo alle fiere e per strada coi loro braccialetti o bonghi o telefoni rubati e forse in Senegal lui ha una moglie e dei figli, dice lei, non l’ha mai detto apertamente ma l’ho capito, quindi meglio non pensarci più – e io intanto penso perché non ho risposto al telefono? Che ci faccio qui con questa ragazza che non trovo nemmeno attraente e che fino a qualche tempo fa scopava con un cazzo nero con cui non posso certamente competere? Così bevo in fretta la mia Bjorne senza dire granché, sperando che lei faccia lo stesso, e invece lei tentenna, si prende il suo tempo, ha voglia di parlare, articola i suoni così lentamente che le parole che le escono di bocca hanno quasi un potere ipnotico, così mi ritrovo lì ad ascoltarla per un’ora buona, e il mio contributo è sempre rasente lo zero. E quindi ci ritroviamo a casa sua. Non so bene come. Sul suo divano logoro. L’ho riportata sotto casa senza spegnere il motore della macchina, ma lei è scesa senza salutarmi, come a impormi di seguirla dentro, così ho parcheggiato ed eccomi qui su questo divano mentre lei gira una sigaretta e lo fa in una maniera talmente lenta che quasi mi gira la testa, e non è la birra, non è il senso di colpa di trovarmi qui, non è lo scoccare della mezzanotte e il pensiero della mia ragazza che aspetta la mia telefonata, una telefonata che non è mai mancata ogni singola fottuta sera di questi quattro mesi, e non sono le gambe di Giulia allungate sulle mie che restano invece immobili e quasi paralizzate, non è il caldo che sento sui vestiti nonostante lei tenga ancora uno scialle sulle spalle, non è niente di tutto questo, è solo che mentre lei gira il suo tabacco nella cartina con le sue dita piccole e un po’ tozze e scure io sento quasi il richiamo di una tensione sessuale talmente strana e non voluta e a cui però sembra impossibile sottrarsi, come se il fatto di essere arrivato fin qui mi imponesse, a questo punto, di scopare questa ragazza verso cui non provo assolutamente nulla, neppure il minimo desiderio sessuale. Eppure non riesco a muovermi, non trovo la forza di alzarmi e andare via, lasciar perdere tutta questa inutile e stupida faccenda, non è qui che voglio essere eppure è qui che rimango, come se mi lasciassi condurre dalla situazione o da questa forza istintiva e primordiale che ipnoticamente ha preso il sopravvento su di me. Come se in qualche modo lo dovessi al mio io sedicenne abbastanza bruttino e sfigato che non ha avuto un’appagante adolescenza sessuale. Poi però all’improvviso mi torna in mente un particolare. La prima volta che io e la mia ragazza siamo usciti. Una serata fresca di fine settembre, tra le innumerevoli birre e il whisky irlandese – che lei non aveva mai bevuto prima e che ha affogato nella sua gola con una velocità che mi ha sbalordito – ad un certo punto ha estratto dalla borsa il suo porta tabacco, le cartine, un filtro, e mentre la mano sinistra reggeva la sigaretta ancora aperta allora lei ha fatto una cosa che non avrei più dimenticato, un piccolo insignificante gesto che si è conficcato in profondità nella mia corteccia cerebrale: in maniera così naturale e spontanea da sembrare quasi automatica e artificiosa eccola avvicinare indice e pollice della mano destra alla bocca socchiusa, da cui ha poi fatto la sua fugace apparizione la lingua che veloce e delicata ha inumidito il labbro inferiore contro cui si sono successivamente sfregati indice e pollice, in quest’ordine, un tocco leggero dell’indice e un tocco ancor più leggero del pollice, che per un attimo hanno formato due piccoli solchi in quel labbro pieno e morbido e concupiscente e anche se tutto è durato solo pochi attimi, prima che le dita tornassero a toccare la cartina trasparente contenente il tabacco, la sensualità di quel gesto, come una divagazione inaspettata nel bel mezzo di un discorso che da breve e marginale parentesi divenga il centro focale dell’attenzione, ha finito per avvolgermi e farmi innamorare di lei. Quel piccolo gesto. Quel movimento sottile che passerebbe inosservato e che invece i miei occhi aspettano desiderosi e avidi e impazienti ogniqualvolta lei è assorta in questo suo lento e necessario rituale di cui io godo, che i miei occhi rapiscono con un senso di meraviglia sempre nuovo e inatteso. Come posso restarmene qui, allora? Su questo divano giallo, in questo alloggio per universitari con un soggiorno abbastanza grande e un tavolo in mezzo e un frigorifero rumoroso proprio accanto a noi, e la spazzatura che non viene buttata da almeno tre giorni e se ne resta lì vicino all’uscita in una busta azzurra, una copia di Storie di ordinaria follia sullo stereo con un segnalibro che divide le pagine più o meno a metà, un piccolo televisore che non funziona su una mensola nell’angolo, e le voci dei vicini provenienti dal balcone che si trova proprio dritto davanti a noi oltre la parete in vetro dell’ingresso, priva di tende, e ci si sente spiati e si spia al tempo stesso, in un rincorrersi di circolare voyeurismo, come posso restarmene qui?, e allora mi alzo lasciando ricadere le gambe di Giulia e scusami ma io adesso devo andare, le dico, meglio così. Ma lei resta seduta e il suo sguardo assume una sfumatura strana, più densa, quasi cupa. È per via di quella ragazza, vero?, mi chiede. Vi ho visti insieme qualche tempo fa, ad un concerto qui in università, tu e una ragazza coi capelli rossi, mi pare, sì, rossi vero?, eravate seduti proprio davanti a me, ma l’atteggiamento del suo corpo era strano, tu la cercavi spesso ma lei ogni tanto sembrava come distante, quasi come se si forzasse di tenersi distante, di respingerti, non so, e io allora penso come diavolo ha fatto a capire tutto con uno sguardo, a definire così bene la nostra situazione così complessa e imprevedibile e che io proprio non riesco a decifrare e lei invece c’è riuscita con uno sguardo, e forse ha ragione, ma sì, certo, è così evidente, lei non fa che evitarmi, rifiutarmi, ecco perché mi trovo qui adesso, ho forse dimenticato cos’è successo l’ultima notte che abbiamo trascorso insieme? Intanto Giulia si è alzata e ha avvicinato sensibilmente il suo corpo minuto e ben proporzionato al mio, che si trova su una soglia da cui non riesco a smuovermi, ma poi mi torna in mente quel concerto, quella sera, Bob Corn che canta Love turns around proprio lì davanti a noi e io mi giro a guardare il suo profilo, le luci soffuse dell’aula universitaria che la illuminano solo in alcuni punti del viso rendendolo quasi surreale, e le sue labbra così rosse e gonfie, gli occhiali dalla montatura nera che non porta quasi mai, il naso che un po’ curvo tende all’ingiù quasi a formare un triangolo, i capelli raccolti che lasciano in mostra quel suo collo dentro cui affonderei i miei morsi e i miei baci anche adesso anche sempre, un maglia nera con dei ricami in pizzo trasparenti che scoprono pochi lembi di pelle e che io trovo così sexy che non riesco a resistere alla sua bellezza, al sorriso che compare come un iceberg lucente tra le labbra appena schiuse in quella sua espressione di attenzione e stupore per ogni cosa che non conosce, per ogni cosa che le sta intorno, e Bob Corn continua a cantare Love turns around e io sono perso di questa ragazza e mi sento felice e mi sento fortunato e lei sembra accorgersi dei miei pensieri e i suoi occhi con un guizzo si girano dalla mia parte soffermandosi sui miei per un attimo e allora il sorriso si allarga e la stretta della sua mano riprende vita mentre io le accarezzo il dorso col pollice e però in questa felicità, perfino in quest’attimo di felicità c’è della tristezza, un’infinita tristezza inesplicabile che dai suoi occhi giunge nei miei e si irradia nelle nostre vite nei nostri sentimenti che fanno fatica a confessarsi e nei suoi dubbi nelle mie incertezze ed eccomi qui su questa torbida soglia, eccomi vacillante, titubante, mentre ormai sento il profumo dei capelli di Giulia intorno alla mia bocca, i suoi seni spinti dal respiro verso il mio petto, e le mie mani sono sul suo culo che vedo riflesso nello specchio dall’altra parte della stanza, e allora lei mi bacia sul collo, è davvero piccola e bassa e le mie mani si muovono sui suoi fianchi abbassandole un po’ i pantaloni neri e scoprendo la linea del culo che emerge così perversamente sodo e allora la sua lingua è nella mia bocca e si dimena e sbraita rapida e vogliosa di me, tutto il suo corpo è voglioso di me, e in questo bacio che non mi piace, in questo bacio che mi fa schifo sento tutta l’attrazione che il mio corpo e il mio cazzo suscitano in lei, ed è una sensazione bella e che non provavo da tanto ma ancora riesco a fermarmi, ancora dico di no, e avrei bisogno di tempo per pensarci su ma poi alla fine a che servirebbe? Allora che senso hanno tutte quelle menate del qui e dell’ora, dell’approfittare di ogni attimo, che differenza fa se adesso infilo la mia eccitazione montante nella sua ostinazione verso cui nutro un sentimento quasi caritatevole? Cosa cambierebbe questa scopata nella relazione che intercorre tra me e una persona che vive a novecento chilometri da qui? Niente, credo, un bel niente. La verità non interessa a nessuno, in fin dei conti. Per lo meno la verità che non abbiamo voglia di sentire. E allora cosa fare di questo momento? Buttarlo via? Salire in macchina e rimpiangere di non aver fatto esperienza di questa ragazza che si sta offrendo e donando alla mia libidine insoddisfatta? Tornare a casa e masturbarmi immaginando di toccare questo culo che invece adesso si trova stretto veramente tra le mie mani? Mentre penso a tutto ciò e in realtà non penso a nulla lei si scosta dalla mia presa e con naturalezza e senza dire niente si gira e a passi tranquilli si dirige in quella che suppongo essere la sua camera. Lasciando la porta aperta. Io me ne resto per un attimo ancora nella mia cangiante immobilità, e cazzo girati esci da questa casa e dimentica per sempre questa serata inutile e questa ragazza inutile sei ancora in tempo non è successo niente e non è così tardi se telefoni alla tua ragazza magari è ancora sveglia e potrete parlare un po’ e sai quanto ti piace la sua voce, ti piace la voce che ha soprattutto prima di addormentarsi, quando sembra calare di un tono e al contempo farsi più melodiosa e invece il mio pensiero ristagna e come guidato da una strana inerzia entro nella camera da letto dove trovo Giulia infilata sotto le coperte e il suo scialle la maglia i pantaloni neri il reggiseno le mutandine a terra e lei è lì che mi guarda ma il suo sguardo è tranquillo, è sicuro, come se davvero fosse tutto ormai inevitabile, e non so perché ma con occhi spenti mi tolgo prima le scarpe e poi i jeans e la camicia e prima che io possa scostare le coperte lei dice spegni la luce e io penso voglio vederti ma non dico nulla come potrei dire qualcosa dal momento che non mi trovo veramente in questa stanza?, e allora spengo la luce e mi ficco nel letto e la sua pelle è umida e ruvida, le passo una mano tra i capelli e sulla schiena ma mi sento come impacciato, come se non avessi mai toccato la nudità di una donna prima d’ora e allora lei spinge la sua mano tra le mie gambe e il mio cazzo è duro e lei mi sfila gli slip e inizia a far scorrere la mano su e giù ma delicatamente e io prendo in mano uno dei suoi seni e me lo porto alla bocca ed è piccolo e rigonfio e lecco il suo capezzolo e lo mordo e succhio ma il buio della stanza e il buio della mia mente vengono improvvisamente riempiti dall’immagine del corpo bianco e morbido di lei che dorme a novecento chilometri da qui, il corpo della mia ragazza a novecento chilometri da questo letto eppure è lei che vedo, la curva dei suoi fianchi, il rosa dei capezzoli, quella sua espressione maliziosa senza malizia, in questo vuoto non sento il mio cuore e il mio respiro né il contatto della pelle di Giulia contro la mia, non sento il suo eccitamento mentre le bacio i seni né sento la sua mano che si muove ora più veloce sul mio cazzo e d’improvviso è come se tra il mio corpo e il resto, tra ogni centimetro del mio corpo e qualsiasi cosa io abbia intorno si creasse questo spazio insormontabile, questa distanza che si estende fino a novecento chilometri da qui, e solo lei può veramente toccarmi adesso, solo lei posso veramente sentire, e allora poggio la mia mano su quella di Giulia e le dico fermati, scusami, mentre lei ancora si agita con forza sul mio cazzo ormai inutile, il mio cazzo ormai moscio, non posso, mi dispiace, le dico, non ci riesco, e lei dice di capire e allora ce ne stiamo così per un po’, fissandoci lungamente al buio, e le do un bacio sulle labbra e provo a sorridere e in realtà non mi dispiace affatto per come sono andate le cose, non mi dispiace di essere arrivato fin qui e non aver combinato niente, non mi dispiace per il mio cazzo moscio e per tutta questa strana situazione, non mi dispiace per lei però è questo che le dico, mi dispiace, e dopo un pezzo che siamo rimasti così lei si gira a pancia in giù e solleva la testa tra le mani e mi chiede a cosa pensi?, e io dico be’ voglio essere onesto con te, è a lei che penso anche se tu mi piaci e vorrei tanto scopare con te adesso però proprio non ci riesco e tu invece a cosa pensi?, le chiedo di rimando e lei fa è troppo complicato da spiegare e io dico be’ almeno provaci e lei chiede conosci qualcuno che si taglia?, e io per un attimo non capisco eppure sono tranquillo e disteso e non faccio fatica a concentrarmi e che vuol dire se conosco qualcuno che si taglia?, be’ una persona autolesionista dice lei, hai mai conosciuto qualcuno che si auto infligge dolore? E all’improvviso mi appare tutto chiaro. All’improvviso mi sento un idiota e quand’eravamo al bar lei mi aveva parlato di questo tipo che le va dietro da un po’ di tempo e con cui ha scopato una sola volta una sera in cui era triste e insomma questo tipo credo che sia un autolesionista, mi aveva detto mentre io bevevo in fretta la mia birra e pensavo all’espressione della mia ragazza che ascoltava il segnale di libero e a come avrà certamente incurvato in maniera appena percettibile il labbro superiore quando dall’altra parte del telefono ha sentito il vuoto anziché la mia voce, e sai io credo che ogni persona autolesionista in realtà desideri essere scoperta, aveva continuato lei, si crea delle ferite che poi nasconde sotto i vestiti ma intimamente non vuole altro che qualcuno indaghi la sua pelle e la sua coscienza e si accorga di questa sua richiesta d’attenzione, e io adesso capisco, qui al buio capisco quello che lei mi sta dicendo ma sento anche il suo bisogno di raccontare, di raccontarsi, così le chiedo soltanto perché mi stai parlando di questo, adesso?, e lei allora si allunga verso il comodino e accende la luce dell’abat-jour e lascia che questa illumini il suo avambraccio destro, rivolto verso di me, ecco perché, dice, non te n’eri accorto? No, io che credo di capire le persone dai dettagli che riesco in qualche modo ad osservare e catturare non avevo capito un bel niente di questa faccenda che mi spiazza di colpo, e allora non so, vorrei farti delle domande ma non so se avrai voglia di rispondere, le dico, puoi chiedermi qualunque cosa, mi dice, e allora quando hai iniziato questa cosa? Qualche anno fa, mi risponde, ma prima lo negavo a chiunque, ai miei amici più cari, alle mie sorelle, lo negavo perfino a me stessa, e questo quando te lo sei fatta?, dico indicando un graffio che percorre il sottile avambraccio per quasi dieci centimetri. Lei fa una pausa, fa vagare lo sguardo sul soffitto ma so bene che avrebbe potuto rispondere senza esitare, so bene che questo fa parte della sua recita, di questa sua messinscena in cui il dolore è così reale, lo scorso venerdì notte, dice poi, in effetti sono passati pochi giorni, e qual era il motivo?, mi azzardo a chiedere, e lei dice che non lo sa, ci gira intorno, così, avevo bisogno di sentire qualcosa, volevo punirmi, volevo punirmi perché il ragazzo che credevo ricambiasse i sentimenti che provo per lui era lì davanti a me e baciava un’altra donna, e io non riuscivo a smettere di guardalo, l’ho fissato a lungo pensando a tutte le stronzate che mi aveva raccontato, pensando a quanto sono stata stupida a fidarmi di lui eppure appena lei si è allontanata per andare in bagno lui è venuto da me e io pendevo dalle sue labbra, io l’ho quasi capito, l’ho quasi perdonato, e questo mi ha fatto male, mi sono fatta del male da sola, oddio come sono patetica, ho pensato, e avevo bisogno di qualcosa che me lo ricordasse, un segno, una sensazione, qualcosa che si imprimesse in me così forte da non farmi dimenticare mai quanto in basso sono capace di arrivare. Pausa. Ma non è così grave come sembra. Finge. Si mostra e si nasconde, mentre si passa una mano tra i capelli ricci e scuri e torna a stendersi sul fianco, guardandomi negli occhi con espressione neutra. Ed è allora che la bacio, che la bacio veramente, intendo, non come avevo fatto in precedenza. E non è pietà, non è un comportamento caritatevole. Ho voglia di baciarla, di sentire la sua lingua cercare spasmodicamente la mia, ho voglia di stringere il suo corpo e non penso alle sue ferite, ai suoi vuoti e alle cicatrici sotto pelle in fondo al cuore, non penso al suo dolore e a quello che c’è dietro, non penso a niente, chiudo gli occhi e la bacio e sento il suo odore ma i ricettori olfattivi della mia psiche mi conducono tra i ricordi in quella notte fredda di gennaio con i vetri appannati in macchina e lei che mi dice sai che il vero odore delle persone è quello che hanno dietro l’orecchio e io allora ho avvicinato il mio viso al suo collo e muovendolo all’insù verso il suo orecchio sinistro ho scostato i suoi capelli rossi e ho respirato avidamente il suo vero odore, quella sua fragranza dolce eppure definita che da quella notte si è infilata nei miei polmoni senza uscirne più, e sempre tenendo gli occhi chiusi nonostante la luce dell’abat-jour si rifletta adesso impudica sul corpo nudo di Giulia e i suoi sentimenti recisi io rimango incollato alla sua bocca mentre la mia mano prima si ferma sul suo seno sinistro, stringendolo quasi con forza, per poi discendere nel calore della sua agitata e dolorosa sessualità e fermarsi tra le sue gambe sul sesso voglioso appena umido e trattengo i suoi sospiri nella mia gola e il suo bacino si muove frenetico e il mio tocco è sempre più deciso e c’è più dolcezza di quello che sembra e c’è una tensione rilassata nel suo gemere convulso e quasi soffocato e alla fine liberatorio e allora mi asciugo la mano sulla coperta senza chiedermi che sapore abbia e finalmente libero le sue labbra dalle mie e apro una fessura tra i miei occhi e i suoi sono rivolti all’indietro mentre sorride e io non sono felice né triste né colpevole, non penso a niente ma dura un attimo, lei dice questo non me l’aspettavo proprio, e continua a sorridere e io non sono sicuro di capire ma il mio cazzo è di nuovo duro e lei se ne accorge e avvicina il suo bacino al mio e c’è un urtarsi e incontrarsi e collidere di sensazioni strane e lei sfrega con impeto il suo orgasmo contro la mia eccitazione ma io non faccio niente e allora lei capisce e si ferma e ci abbracciamo e per un po’ ci addormentiamo così, la sua serenità contro la mia insoddisfazione, la sua voglia placata contro il mio disagio, e mi sveglio e non so quanto tempo sia passato e questo letto mi appare improvvisamente scomodo ed eccessivamente caldo e non riesco a trovare una posizione che possa quietare i miei pensieri così faccio in modo che la mia agitazione svegli Giulia, sul cui volto adesso non leggo più niente, solo stanchezza, forse, e lei allora si alza e va in bagno e io intanto controllo il telefono e sono le quattro del mattino e c’è un suo messaggio che dice Che fine hai fatto?, e io non so che fare e rimango lì nudo in attesa che lei esca dal bagno e quando arriva ha i capelli legati e gli occhiali da vista e indossa un pigiama leggero e sembra meno giovane e allo stesso tempo meno donna di quanto mi sia apparsa prima, e se vuoi puoi rimanere a dormire qui, dice, non è un problema, ma io sospiro e mentre mi rivesto dico è meglio che vada e non vedo reazione alcuna sul suo viso e poi mentre sono seduto sul letto e mi allaccio le scarpe noto nel corridoio di fronte una porta socchiusa e le chiedo se qualcun altro vive con lei in questa casa e lei con voce piatta e assente dice quella era la stanza di Fatih, è andato via nel mezzo della notte e ha lasciato alcune sue cose qui, io spero di vederlo tornare un giorno e da allora non sono ancora riuscita a chiudere quella porta, mi fa sentire un po’ meno sola, qui, sapere che lui potrebbe tornare da un momento all’altro. Io allora capisco, credo di capire molte cose, mentre sono in piedi e lei ancora seduta sul letto e allora mi chino a darle un bacio sulla guancia e lei rimane immobile quindi dico non c’è bisogno che mi accompagni alla porta e così finalmente varco quella soglia e mi lascio Giulia e il suo letto la sua casa i suoi fantasmi le sue cicatrici la sua fica la sua solitudine alle spalle e mi stringo nell’aria fredda di questa notte che sembra non finire mai e che non è mai esistita. In macchina non accendo la radio, ascolto le ruote scorrere su questa strada deserta e i miei pensieri vagare rapidi e sconnessi nella mia mente, così arrivo a casa e tra poco sarà giorno e non ho voglia di pensare a nulla dunque mi stendo sul letto e mi addormento, di un sonno immediato, un sonno tranquillo, un sonno quasi beato. Quando mi sveglio è ormai ora di pranzo e sono innamorato e prima di lavare dalla bocca l’odore della notte appena trascorsa prendo il telefono e compongo il suo numero e dall’altra parte sento la sua voce già viva e piena e serena e ignara mentre la mia ancora assonnata dice scusami ma ieri sera mi sono addormentato prestissimo e lei non sembra nemmeno farci caso e dice ci sentiamo più tardi ora sto preparando le valigie ho il pullman alle sei e io allora mi rendo conto di essermene completamente dimenticato, sono felice che domani torni, le dico con un senso di vuoto che non può passare inosservato. Lo so, risponde lei, lo so. Allora buon viaggio, ti chiamo più tardi. D’accordo. Ti bacio. Addio. A presto. Riagganciamo. Torno a letto e decido di restarci tutta la giornata, tutta la vita, fino a domani.

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