L’incantevole Creamine (biografia non autorizzata di una ragazza dai capelli viola)
di Raffaella Bedini

Capitolo V
La porta dell’inferno – Delicate ni sukishite
Ferma, davanti a quella porta sapevo con precisione a cosa stavo andando incontro. Non era un mistero, mia madre mi aveva istruita bene: «Adesso non fare la preziosa, c’è tutto il tuo futuro in gioco». Ma dietro a quel futuro che aspettava me c’erano invece i sogni di una donna frustrata, il lavoro di uno staff di sarti, truccatori, parrucchieri, insegnanti di canto, di recitazione, di posa, di ballo, addetti del marketing e PR, insomma dietro al mio nome c’erano decine e decine di persone e investimenti cospicui che aspettavano con ansia il mio debutto in tv. Dietro di me c’era il peso delle scelte compiute da altri e a me ne spettava solo una, quella più grande di tutte, la scelta che nessuna ragazzina di sedici anni dovrebbe sentirsi costretta a fare. Ferma, davanti a quella porta, sapevo bene a cosa stavo andando incontro, dietro a quella porta c’era l’inizio della mia carriera e la fine della mia adolescenza.

Continuavo a fissare il legno massiccio che metteva fine a un lungo corridoio adornato di successi e personaggi famosi: cantanti, attrici, modelle, idol, tutte almeno una volta nella loro carriera avevano percorso quegli stessi metri con le stesse speranze e le stesse indecisioni. Forse anche loro avevano tentennato davanti all’austerità di quella porta; forse anche loro almeno una volta avevano provato paura. Ma ora, dall’alto, quei poster patinati mi fissavano con sufficienza; i loro occhi mi giudicavano, mi scrutavano, seguivano ogni mio piccolo passo con disprezzo:

«Chi ti credi di essere?»
«Non sarai mai una di noi!»
«Sei solo un bluff!»
«Non aprirai mai quella porta!»
«Non aprirai mai quella porta!»
«Non aprirai mai quella porta!»
«Non aprirai mai quella porta!»
«Non aprirai mai quella porta!»
«Non aprirai mai quella porta!»
«NON APRIRE QUELLA PORTA!»

Le loro voci si aggrovigliavano nella mia mente e nel mio stomaco, feroci e distorte. Avrei voluto farle stare zitte, invece loro si intromettevano inopportune. Avrei voluto il silenzio totale, il silenzio tombale, il silenzio che mette in silenzio anche i pensieri più sordi e atoni, ma loro, quelle voci famose, se la ridevano alle mie spalle. Io rimanevo lì, ferma immobile come una stupida, con il costume di scena cucitomi addosso, con il trucco da bambola e l’acconciatura impeccabile che mi avrebbe caratterizzata per il resto della mia vita. Eccomi lì, il nuovo talento della Parthenon Production. Eccomi lì, il nuovo idolo di teenager adulanti: Creamy Mami, il nuovo prodotto fresco e ammiccante da sbattere sul mercato; il nuovo dolce profumato e proibito per Otaku e pedofili occhialuti che nascondono le loro perversioni in anonimato dietro le riviste di oscurate Akihabara[1]… viscidi reietti di una società che non sa socializzare, dove tutto è tollerato se non crea disturbo o pubblico imbarazzo… omuncoli che puzzano di ormoni e sudore e bava secca. Ma tutti sanno che questo mercato chiede sempre carne fresca e io ero lì pronta a farmi sbranare. Eccomi lì, agnello sacrificale sull’altare della fama, vergine di carta, ragazzina labbra rosse, bambina che scalpita dietro una maschera di fard e cerone. Mancava solo quest’ultimo incontro e poi il taxi ci avrebbe portato sul set e io sarei diventata per tutti l’Incantevole Creamy.

Eccomi lì a non riuscire a fare nemmeno un passo.
Dall’altra parte della porta la voce di Tachibana-san[2] riceveva telefonate per definire le riprese della serie tv che mi vedeva protagonista, e il mio primo concerto. Nominava gli altri attori e diceva di convocare tutti immediatamente perché sarei arrivata da lì a poco. Non mi piacevano i miei colleghi, per lo più giovani talenti armati con i coltelli dell’invidia. C’erano: un’odiosa bambina dai capelli verdi di nome Yu, una nanetta arrogante e viziata con la voce gracchiante e le smorfie smorfiose; Toshio, un ragazzino sfigatello che interpretava il mio amore segreto (ma che in realtà non si interessava molto al genere femminile); Midori, un tontolone obeso e sudato, e per finire una coppia di pupazzi animatronix rimpiazzati da gatti viventi per le scene più realistiche. Il clima di tensione tra tutti noi era tangibile fin dalle prime prove, persino i gatti sembravano avere la puzza sotto il naso. Yu, «la bambinanetta» dai capelli verdi, era particolarmente agguerrita nei miei confronti; convinta che il motivo di non essere diventata Creamy fossi io, e spalleggiata dalla madre onnipresente che viveva il ruolo da co-protagonista della figlia come un fallimento, coglieva ogni occasione per creare zizzania e mettermi in difficoltà con trucchetti infantili: una volta erano le scarpe a scomparire, una volta era il costume strappato o i trucchi rovinati. Ogni prova era una scusa per sottolineare sarcasticamente una mia battuta sbagliata, una coreografia non riuscita, una nota stonata. E gli altri? Solo un mucchio di vipere più brave a recitare la parte dell’attore incontestabile che a recitare effettivamente. A quelle condizioni, con un cast non affiatato, tra litigi e battibecchi e una costante perdita di giornate di lavoro e di denaro, Tachibana-san era arrivato a dubitare della reale riuscita della serie e di conseguenza a mettere in discussione il mio debutto. Rischiavo di perdere tutto. Rischiavamo di perdere tutto, io e mia madre. Quando hai investito tutto sul futuro di tua figlia, non ci sono scuse, non c’è margine d’errore, si può solo andare avanti, a qualsiasi costo.
Ferma davanti a quella porta la mia mano non riusciva a girare il pomello, la mia mano era improvvisamente pesante, impietrita, rattrappita e nonostante cercassi di compiere quel semplice gesto i muscoli e le dita e i tendini e i polsi e quella volontà che mi aveva spinta fin lì mi avevano abbandonata. Ero rimasta vuota. Ero una statua, un manichino, un cartoccio di cartapesta, ero lì ma non ero io. Di quella ragazzina, che sognava a occhi aperti di emulare il suo idolo, l’attrice bambina dai capelli rosa Minki Momo[3], non era rimasto più nulla. L’enorme successo di Momo-chan spinse in quegli anni miriadi di bambine a prendere lezioni di recitazione o canto o ballo o qualsiasi altra forma d’arte le potesse proiettare verso il mondo incantato della televisione. Ma dopo di lei saremmo tutte diventate solo dei brutti cloni dai capelli colorati. Ero lì che mi ripetevo le parole di mia madre ancora e ancora… «Adesso non fare la preziosa»… «C’è tutto il tuo futuro in gioco»… «Il tuo futuro in gioco»… «Il tuo futuro»… «Il tuo»… il tuo… il tuo… il tuo, di chi?… Ma io avrei solo voluto girare i tacchi delle mie scarpette rosse e correre via. Avrei voluto fermare quella giostra impazzita di aspettative, avrei voluto rasarmi a zero la cotonatura violacea e inchinarmi e dire «Scusate, mi sono sbagliata non se ne fa più niente». Avrei voluto…

Avrei voluto che quel giovedì di due settimane prima, mia madre non mi avesse lasciata sola dietro quella medesima porta.

***

C’era rumore quel giovedì, c’erano note che risuonavano ad alta voce da dietro quella porta, era la melodia della canzone che avevano preparato per me. Era suonata al massimo volume e gli accordi arrivavano distorti e correvano impazziti lungo il corridoio. Delicate ni sukishite (dimmi che mi ami teneramente) era la mia canzone e io quel giorno avrei dovuto provare tutto il numero del mio debutto davanti al presidente della Parthenon Production.
Parthenon Production… a pronunciare ora quel nome suona tutto come un inganno… come avevo fatto a non vedere oltre la facciata…

Quando entrai nell’ufficio, il signor Tachibana mi attendeva seduto alla sua scrivania, come sempre leccato nell’aspetto e nei modi, troppo giovane per quel ruolo, troppo «affascinante» con quel ciuffo troppo gonfio e quel sospetto completo bianco più adatto a uno yakuza che a un presidente… non a caso anni dopo la compagnia fu indagata per fondi di dubbia provenienza e costretta a chiudere, le star sotto contratto persero tutti gli ingaggi e vennero presto dimenticate. La tragica scomparsa dell’Ayase occupò le prime pagine dei giornali per un po’, poi anche il suo nome si dissolse nel nulla. Eravamo amiche io e Megumi[4], della rivalità inventata dai tabloid ne ridevamo spesso e spesso ci divertivamo a giocare la parte delle acerrime nemiche davanti alle telecamere. Il giorno della sua scomparsa, successiva all’arresto di Tachibana, fu devastante, mi sembrò che tutto mi stesse crollando addosso, un tassello dopo l’altro, come un fragile castello di carte «matte». Eravamo amiche ma raramente mi parlava della sua relazione con Tachibana, il più delle volte sviava l’argomento o si limitava a ripetere dicerie di corridoio, avvicinava la bocca al mio orecchio come se stesse per rivelarmi un grande segreto ma, niente, ogni volta si limitava e ripetere i titoli di giornali scandalistici di quart’ordine. Poi rideva prendendosi gioco di me. Se ne andò in silenzio Megumi, una mattina di aprile, quando i ciliegi iniziano a sfiorire e malinconicamente volano via. Malgrado tutto, l’accusa di finanziamenti illeciti e il fallimento della Parthenon Production segnò anche la fine di un’era.

Quel giovedì il presidente se ne stava come al solito seduto dietro la sua scrivania, in silenzio, con un sorrisetto di plastica e gli occhiali specchiati. Al mio primo passo potevo già sentire i suoi occhi su ogni centimetro del mio costume, dal body scollato, a quei volant che poco coprivano davanti o dietro.

«Vediamo cosa sai fare» disse penetrandomi con gli occhi mentre col dito premeva il tasto play del registratore.

Avanzavo verso la scrivania, intonando le parole della canzone:
«Spesso sai chi lo cerca non sa che c’è, grande amore intorno a sé e non lo vede ahimè, io lo so che l’amore per me è già qua ma forse lui non sa che è me che amerà…»

Avanzavo lenta ripetendo alla perfezione ogni gesto, ogni ammiccamento, ogni occhiolino, ogni sorrisetto. Avanzai lenta fino a sfiorare il bordo della scrivania, fino a trovarmi a poca distanza da lui. Volevo che mi vedesse, volevo che mi vedesse bene, volevo che sentisse il profumo che emanavo, volevo lasciarlo a bocca aperta, volevo… sì volevo che si eccitasse, volevo che mi volesse a tutti i costi, volevo che facesse di me qualcuno. Ero disposta a tutto. E mentre le mie labbra al rossetto pronunciavano le parole sottolineate dai gesti del mio corpo, pensavo: «Non c’è nulla di male», «Non c’è nulla di male, lui ha quello che voglio…». A sedici anni non è facile. A sedici anni si vuole essere popolari. A sedici anni si vuole essere le più carine, le più ammirate, le più invidiate. Ma si vuole anche uscire con le amiche, avere un fidanzato, poter fare i capricci, essere un po’ stupide, piangere, ridere, mandare tutti a quel paese. Dopo mesi e mesi di provini e lezioni sulla costruzione del mio personaggio nel mio mondo di sedicenne c’erano solo adulti e attenzioni fraintese, sorrisi e regali che ti lasciano quella sensazione di sbagliato e insano e pericoloso addosso. A sedici anni si crede ingenuamente di essere già grandi.

A quel punto sapevo che il presidente era famoso nell’ambiente per essere, diciamo «vicino» alle sue protette. Ma sapevo anche che quella vicinanza era la porta per il successo, d’altronde non era un segreto tra gli uffici della Parthenon Production, le voci erano piuttosto insistenti su come «quella gallina strozzata della Ayase avesse fatto carriera»…

Improvvisamente l’indice di Tachibana fermò la musica.

Il suo completo su misura bianco si alzò in piedi: «Brava ma sei un po’ rigida…»
La sua mano si sporse in avanti e afferrò la mia spalla…
«Vediamo se ti sciogli un po’.»
I suoi passi si avvicinarono a me, la sua mano era scivolata sul fianco e mi stringeva famelica. Sentivo il mio viso diventare caldo e nonostante tutte le raccomandazioni che mi ero fatta in testa, nonostante la consapevolezza che tutto quello che stava succedendo me lo ero cercata, nonostante tutto, sentivo che tutto era sbagliato. Nonostante quell’aspetto innegabilmente piacevole, non c’era nulla di piacevole nel tocco delle sue mani che salivano verso il petto. Non c’era nulla di delicato nel sentire il suo respiro sul mio collo, il suo fiato bagnato che si avvicinava al mio viso, alla mia bocca. E mentre il suo corpo si stringeva sempre più stretto, io non sapevo cosa fare. Non sapevo cosa fare perché non l’avevo mai fatto. Non sapevo cosa fare perché tutti quei dannati pensieri da ragazzina spregiudicata e determinata erano andati a farsi benedire; e ora c’era solo una sensazione di budella roventi che si contorcevano per lo schifo, per lo squallore di sentire le sue dita che si facevano spazio tra le mie gambe, dentro al body; budella viscide come serpenti annodati tra loro, si contraggono senz’aria. È una strana sensazione quella di sentire mani estranee che invadono i propri spazi più intimi, è di profonda vergogna e umiliazione e disagio e imbarazzo e soggezione e degradazione e bruciore. È tutto il vuoto di una stanza in silenzio dove ogni pulsazione rimbomba in testa a ritmo accelerato. È il freddo di dita sconosciute che contaminano il corpo e lo gelano. E io altro non riuscivo a fare che fissare l’orologio alla parete sperando che il tempo decidesse di girare all’indietro.
La sua voce mi diceva cosa dovevo fare, come secondo lui avrei dovuto reagire, come avrei dovuto dimostrargli di apprezzare le sue attenzioni, le sue indicazioni per diventare «un po’ più sciolta». Lui in fondo lo faceva per me, per la mia carriera, per prepararmi a questo mondo dove nulla si dà per nulla e un bel visino di certo non basta per farsi strada.

Scappai via, non potevo farlo, non riuscivo a farlo, non volevo farlo. Lo allontanai con tutte le forze che avevo e corsi lungo il corridoio tra le ghigne di derisione dei poster famosi. Scappai via senza pensare, conscia ma allo stesso tempo inconsapevole delle conseguenze. Sapevo solo che volevo andare a casa, nascondermi sotto le coperte e nascondermi da tutto il mondo rimasto fuori. Avrei voluto dormire un lungo sonno, per giorni, settimane, mesi; avrei voluto svegliarmi già famosa, con un’agenda fitta di apparizioni in programmi radiofonici e concerti, con le mie foto in copertina e fan in cerca di un autografo. Avrei voluto un mondo naif, dove i sogni magicamente diventano realtà e la fama si ottiene con il talento e i manager lavorano per venderti, non per svenderti. Ma in questo mondo non si fa nulla per nulla.

Quando sei a un passo dal tuo debutto in tv, quando alle tue spalle c’è il lavoro di uno staff di sarti, truccatori, parrucchieri, insegnanti di canto, di recitazione, di posa, di ballo, addetti del marketing e PR; quando a casa ci sono i sogni falliti di una casalinga frustrata, non puoi nasconderti.

Quel giovedì fu archiviato come il «capriccio di una bambina».

***

Continuavo a fissare il legno massiccio della porta che metteva fine a un lungo corridoio adornato di successi e personaggi famosi: cantanti, attrici, modelle, idol, tutte almeno una volta nella loro carriera avevano percorso quegli stessi metri con le stesse speranze e le stesse indecisioni. Non c’era più spazio per le indecisioni. Alzai gli occhi tra le mille star appese alle pareti, non ridevano più, i loro sorrisi erano plastici e fasulli, i loro occhi non brillavano, potevo quasi vederli tremare dietro il vetro incorniciato. La loro luce si stava spegnendo, presto sarebbero stati oscurati da una stella più grande e luminosa. Bastava solo oltrepassare quella porta. Non c’era più spazio per capricci, sogni infantili, timidezze naif. Il mondo non era più bianco o nero ma un’intera gamma di sfumature e compromessi e inganni legittimati.

Ci sono scelte che nessuna ragazzina di sedici anni dovrebbe sentirsi costretta a fare; ma a volte, nella vita, si può solo andare avanti, come in un lungo corridoio senza vie d’uscita.

L’ottone della maniglia luccicava promettente e simbolico, orpello di un futuro fatto di superficialità e apparenza, anche Creamy era solo apparenza. Creamy non ero io. Creamy era solo un personaggio, una maschera. La persona che si accingeva ad aprire quella porta era Creamy, non ero io. Smisi di fissare la maniglia «C’è tutto il tuo futuro in gioco»… entrai in quell’ufficio all’ultimo piano della Parthenon Production. Tachibana si alzò in piedi e si tolse gli occhiali specchiati. Richiusi la porta alle mie spalle.

Era nata una stella.

 


[1] Akihabara, quartiere di Tokyo specializzato in elettronica, anime/manga e prodotti per adulti.

[2] Tachibana Shingo è il cognome giapponese di Jingle Pentagramma.

[3] Serie anime uscita in Italia con il titolo «Il magico mondo di Gigì».

[4] Ayase Megumi è il nome originale di Due Note Ayase.

Illustrazione di Sara Flori

Sara Flori vive e lavora nella provincia di Siena. Diplomata all’Istituto d’Arte di Siena, nel 2010 si specializza in illustrazione alla Scuola Internazionale di Comics di Firenze. Si occupa di illustrazione per bambini, advertising e pittura. Esordisce come illustratrice nel 2011 con la pubblicazione di Où est passé Sid Silenzio?, edito da Éditions Éveil et Découvertes in Francia. Ha collaborato con diverse realtà, al momento collabora soprattutto con illustrazioni a scopo pubblicitario. Ha esposto le sue opere in varie collettive, esibendosi anche in performance di live painting. È attratta e si lascia ispirare da qualsiasi forma d’arte che evochi atmosfere sognanti, fiabesche e misteriose.

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