L’ultima estate

L’ultima estate

Autore: Cesarina Vighy
Casa editrice: Fazi
Pagine: 190

Ancora prima che un romanzo autobiografico, L’ultima estate è una dura analisi della vecchiaia vissuta in prima persona. È uno di quei libri in cui, durante la lettura, non ci si dimentica mai di chi è l’autrice, di qual è la situazione che l’ha spinta a scrivere (la malattia) e di quanto l’opera intera, chiuso e riposto il libro sullo scaffale, lasci in bocca il sapore di un addio.
La Vighy passa in rassegna la sua vita – non tralascia neanche gli antefatti familiari che precedono la sua nascita – dalla grigia infanzia trascorsa a Venezia ai primi anni di gioventù, fino al trasferimento a Roma (“qui veramente felice”) dove comincia l’attività di bibliotecaria.
“Quando si diventa grandi e poi vecchi e poi addirittura malati, si tende un po’ a confondere fatti e fatterelli dell’infanzia e dell’adolescenza, visti da lontano alonati da una luce dorata, incartati come caramelle colorate”.
È chiaro sin dall’inizio che la Vighy non rientra affatto in questa tendenza e il racconto scorre, accompagnato da una grande quantità di citazioni colte e meno colte (dalla letteratura greca a Woody Allen, dal Gatto con gli stivali a Fantozzi…). Talvolta però sono proprio le continue citazioni, l’umorismo letterato da professoressa di latino e i frequenti periodi fra parentesi, utili solo ad evidenziare ciò che già di per sé sarebbe manifesto, ad appesantire la narrazione, a renderla eccessivamente polverosa, d’altri tempi.
Si arriva poi alle prime avvisaglie di malattia, alla logorante ricerca di una diagnosi certa e dunque al presente: forzatamente silenzioso, di reclusione in un corpo-uovo inadatto al movimento, al linguaggio orale, adagiato per necessità su un giaciglio a tempo pieno. Un presente che pagina dopo pagina però si rivela essere per nulla remissivo nei confronti della malattia, il tutto grazie alla parola scritta, alla mente che ancora sa palleggiare lucidamente i pensieri, sebbene anch’essi siano segregati tra quattro mura.
È da questo momento in poi (circa a tre quarti del romanzo) che si rivela il talento dissacratorio dell’autrice. Dimostra di avere il coraggio di trattare argomenti considerati tabù per eccellenza (la morte, la vecchiaia, il decadimento del corpo), che normalmente si affrontano solo dopo lunghe premesse e parole pesate, con semplice onestà. Talvolta con il cinismo e la spietatezza che normalmente s’abbandonano terminata l’adolescenza (sarà perché adolescenza e vecchiaia condividono lo stesso odio per il proprio corpo?). Come in quest’estratto in cui la Vighy si riferisce alla madre: “una maledetta notte mi chiama per la centesima volta: non cammina, non si regge in piedi, vuole andare in bagno ma io non ce la faccio a sorreggerla anche se è ridotta a un uccellino spennato; allora la trascino sul pavimento sperando che si spacchi la testa sul marmo, come una noce. Alle sue lamentele (lei è pulita, lei non si sporca mai), rispondo strofinandole un suo panno maleodorante sulla faccia”.
L’apice è il penultimo capitolo, Corpo a corpo: qui si descrive la solitaria resa dei conti che si consuma al bagno ogni notte, mentre i più giovani dormono. Si rivendica il diritto di perdere del tempo, di soddisfare gli umani vizi del privato (“grattarsi il fondo dell’orecchio, manovra che richiede anche maggior delicatezza perché mescola un piacere di natura sensuale al gusto per l’avventura, con quel rischio, sempre possibile, di forarsi un timpano”) e di analizzare minuziosamente il proprio corpo, pezzo dopo pezzo sempre più guasto.
C’è una puntata di South Park in cui gli anziani del paese lottano per riottenere la licenza di guida precedentemente sottrattagli dopo una serie di incidenti mortali (ovviamente causati dalla loro “disattenzione”). I giovani decidono allora di contrastarli ma vengono puntualmente battuti sul tempo: i pensionati si svegliano sempre molto prima.
È una battaglia di questo tipo quella che Cesarina Vighy descrive nel suo romanzo, la lotta continua per restare in possesso dei propri diritti, quelli più ovvi: un corpo intatto, la facoltà di muoversi, di guidare un’automobile. Per poi pian piano ritrovarsi ad abbassare il tiro, a ridimensionare le pretese, fino a battersi per i cinque sensi, la parola, il pensiero.
Giulia Ottaviano
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