I giorni
di Martin Hofer

Siamo qui. Contiamo i giorni. Aspettiamo che la neve si ritiri, che la terra ritorni. Papà, la mamma, Miriam, il nuovo ospite, e io.
Chiusi nell’albergo, peliamo patate, giochiamo a dadi, guardiamo fuori dalla finestra, in attesa che la terra ritorni.
Contiamo i giorni, noi, affinché questi scorrano più veloci. Li sospingiamo oltre la porta con le poche forze rimaste.
Papà dice che è soltanto questione di giorni, gli stessi che continuiamo a contare, uno dopo l’altro. Presto la strada sarà sgombra e qualcuno potrà constatare che anche quest’anno siamo sopravvissuti alla tormenta. Presto.
Non ci guardiamo molto negli occhi, noi. Scrutiamo di continuo le nostre unghie bluastre, seduti in cerchio, le nocche spaccate dal freddo, ed è come se la vita ci soffiasse fuori in una nuvola di vapore, poco alla volta.
Mamma dice di pregare. Ogni tanto raduna me e mia sorella nella hall e inginocchiati ci mettiamo tutti e tre a pregare più forte che possiamo.
«Signore, fa’ che la neve si sciolga e che la natura possa tornare a fare il suo corso secondo il tuo volere misericordioso. Amen» dice mia madre.
«Signore proteggi la mia famiglia» dice Miriam, «mio padre mia madre e mio fratello Amen.»
«Amen» dico io, e non aggiungo altro. Mamma pensa che non sono bravo con le parole, ma le mie preghiere restano mute in gola.
Signore, proteggici dai lupi. Fa’ che non ci sbranino, tienili lontani da me e i miei famigliari.
La notte mi sembra di sentirli, là fuori. Ci studiano da lontano, affilano i giorni.
Una volta l’ho detto a Miriam e lei è scoppiata a ridere. Dice che sono pazzo, un pazzo fifone. Lo ha detto in fretta, con la voce che le tremava un poco.
Poi è corsa in cucina e ha iniziato a tagliare un mucchio di cipolle che non servivano a niente. L’ho osservata di nascosto, scrollava appena le spalle.
«Maledette cipolle – sussurrava – maledette cipolle.»
 
Passo il tempo fra i corridoi dell’albergo. Giro a vuoto, immagino di esplorare. Faccio finta di non esserci nato e cresciuto, qua.
Questo posto l’ha costruito il nonno del nonno di mio nonno. Me lo raccontava sempre mio padre. Era una di quelle storie polverose dove un uomo arcigno e profondamente devoto viaggia in cerca di fortuna con i figli stipati su un carretto, e quando pensa di essere perduto una volta per tutte, di essere stato abbandonato da Dio, trova una radura in mezzo al bosco, illuminata da una raggio di sole. Così inizia a tagliare legna e costruire, scavare, tagliare e costruire, e non smette fino a che non si ritrova al cospetto di un albergo con otto stanze, cucina e servizi in fondo al corridoio.
A mio padre piace raccontare storie di fatica, sudore e fede incondizionata.
Forse un giorno saremo noi i protagonisti di una delle sue parabole: quella volta che rimanemmo bloccati in albergo a causa della tormenta. Ricorderà la preoccupazione di mamma, i boschi smorti azzannati dal vento, il cibo sempre più scarso e il freddo sempre più acuto.
Certamente troverà qualche segno, una provvidenza comodamente spendibile e inequivocabile. Sentieri scavati nella neve durante la notte, fiori cresciuti nel ghiaccio, evidenze di Dio nel solco del dramma.
Ci rideremo un po’ su, e poi renderemo lode al Signore riuniti per mano.
Nel frattempo giro per i corridoi, perlustro stanze inselvatichite dall’umidità. Una volta alla televisione hanno detto che un materasso può quadruplicare il suo peso, nel corso degli anni.
Una stratificazione incessante di pelle esausta, forfora, sudori e respiri condensati. Uno sopra l’altro, disposti in ordine di morte, testimonianze epidermiche di ospiti di passaggio, sonni frugali, invecchiamenti microscopici.
Tocco i materassi e provo a indovinare quante persone si sono distese sopra. Cerco di avvertire la differenza fra l’imbottitura e il peso specifico di ciò che si abbandona senza consapevolezza. Il peso dei giorni che zavorra il corpo.
Ho passato buona parte della mia vita a raccogliere prove. Entravo nelle stanze appena liberate dagli ospiti, in cerca di tracce. Spazzole, agende, pacchetti di fazzoletti, beauty case, accendini, indumenti usati, dentifrici, liste di cose da fare appuntate su un foglio e poi cancellate a matita.
Raccolgo tutto in una scatola. Archivio, catalogo. Se mio padre lo venisse a sapere mi gonfierebbe di botte. Ma nessuno è mai passato a reclamare indietro i suoi effetti. Nessuno torna. Siamo solo un punto su una linea che collega altri due punti. Nessuno torna mai. Siamo una transizione. L’attesa dovuta che precede un incontro molto lontano da qui.
 
Il nuovo ospite non parla tanto con noi. È arrivato il giorno prima che iniziasse la tormenta, ha detto che si sarebbe trattenuto soltanto un paio di giorni, giusto il tempo che smettesse di nevicare. Ha scritto il suo nome sul registro e ha pagato in contanti tirando fuori i soldi da una valigetta.
Il nuovo ospite parla con uno strano accento e odora di scarpa vecchia. Guarda spesso fuori dalla finestra, come se fosse in grado di placare la tormenta con la sola forza del pensiero.
Mio padre gli ha portato una pila di vecchi giornali, che ogni tanto sfoglia senza interesse. Gira le pagine con pigrizia e poi torna a fissare il bosco.
Non mi ha mai rivolto la parola. La prima volta che ci siamo incontrati ha stirato un sorriso e ha estratto dalla tasca una mentina. L’ho presa e lui mi ha poggiato una mano sulla testa, come ho visto fare una volta al Papa con i bambini di un Paese povero (quando nevica forte e non possiamo scendere in paese la mamma ci obbliga a guardare la Santa Messa in televisione).
L’ospite non lascia mai la valigetta incustodita. La tiene sempre vicino a sé, un occhio allacciato alla maniglia di cuoio e l’altro libero di sorvegliare i boschi.
Mio padre l’ha invitato spesso a unirsi a noi per cena. Crede che una sventura comune sia in grado di allentare i ruoli e i vincoli sociali che da secoli abitano il regolare rapporto fra cliente e albergatore, ma sbaglia.
L’ospite resiste, declina ogni proposta con un cenno del capo. Preferisce guardare fuori e sfogliare riviste ingiallite, accomodato a un tavolo d’angolo.
Noi, a consumare le nostre razionate e inscatolate cene della domenica. Lui, solitario e periferico, per niente turbato dalla situazione.
La mattina, quando Miriam gli serve il caffè, l’ospite manda a chiamare mio padre. Lo interroga a proposito del bollettino meteorologico e di quanto pensa che ci sia ancora da aspettare. Ascolta, privo di espressione, lo fissa con quei suoi occhi bulbosi, scipiti, con lo sguardo del professore che esamina uno studente ordinato e poco brillante. Subito dopo torna al suo caffè, e a i suoi giornali.
Non sembra avere fretta. Una quieta rassegnazione lo domina e lo culla nel respiro dei giorni. Via uno, avanti l’altro. Con la pazienza della bestia spacciata, l’ospite attende in disparte.
 
Ho intuito che le cose non si stavano mettendo bene quando la mamma ha cominciato a chiamare il cibo «provviste». Una mattina si è messa a fare la conta delle scatolette, a dividere gli alimenti ancora buoni da quelli che manifestavano i primi accenni di avaria. Scarabocchiava tabelle su un foglio, razionava, razionalizzava pranzi e cene sulla base di specifiche tabelle nutritive, scomponeva le settimane in giorni, e i giorni in pasti, i pasti in necessità, le necessità in sopravvivenza.
Cinque persone, diciotto scatolette di tonno. Cinque persone, tre pasti per la prime due settimane. Cinque persone, cinque bocche vuote. Un pasto in meno nel caso in cui le settimane diventassero più di due. Calcoli, previsioni, sottrazioni.
Mia madre trasformata in un solerte contabile che tiene sotto chiave la dispensa, e noi quattro bocche tristi che barcolliamo per l’albergo, in attesa di ricevere la nostra minuta dose di vigilata sopravvivenza.
 
«Cos’ha nella borsa?»
L’ospite ha sollevato appena la testa dalla tazza di latte, per studiarmi di striscio.
Eravamo soli nella sala da pranzo. Papà mi aveva detto di portargli la colazione e di rimanere nei paraggi in caso avesse avuto bisogno di altro.
«Soldi» ha risposto mentre afferrava una fetta biscottata.
«Sono tanti?»
«Sì, tanti.»
«E sono suoi?» ho domandato.
«Ragazzo, devi sapere una cosa…»
L’uomo ha tuffato una fetta biscottata nel latte. Quando ha fatto per riportarla alla bocca la parte intinta si è spezzata ed è ripiombata nella tazza. Per un attimo ha valutato la possibilità di recuperare la massa galleggiante, poi ha fatto una smorfia e ha poggiato il cucchiaio sulla tovaglia.
«I soldi che possiedi, non sono mai tuoi. Sono sempre di altri» ha concluso.
«E i suoi di chi sono?»
L’ospite ha liquidato la domanda con un gesto della mano. Si è alzato e si è diretto verso la finestra, la borsa stretta sotto l’ascella.
Il suo sguardo pareva forare la tormenta e proseguire altrove.
«Quella borsa… sta portando i soldi ai proprietari?»
Senza distogliere lo sguardo dalla finestra, l’ospite si è lasciato sfuggire un risolino debole.
«No… no… non ce n’è bisogno. Verranno loro da me.»
Ha continuato a ridacchiare fra i denti e a scuotere la testa e a guardare fuori dalla finestra, così mi sono messo a sparecchiare in tutta fretta, impilando i piatti della colazione uno sopra l’altro.
Nella tazza stagnavano ancora minuscoli brandelli della fetta biscottata, galleggianti in superficie come moscerini sputati dalla palude.
 
«Senti anche tu?» sussurra Miriam scuotendomi un braccio addormentato.
«Cosa?»
Lei si ritrae. Mi guarda come se fossi stato io a svegliarla di soprassalto.
«Cosa c’è?» le chiedo ancora.
Miriam si gira dall’altra parte, rivolge la testa alla parete e tira su le coperte fino al mento.
La chiamo. Non risponde. Così lascio perdere, sono abituato alle sue sceneggiate. Faccio per riprendere sonno.
«Quella cosa dei lupi… dicevi sul serio?» dice quando sono già nel dormiveglia.
Non aggiunge altro. Allora tiro via le coperte e siedo sul bordo del suo letto.
«Ma no… lo dicevo per spaventarti. E tu ci sei cascata in pieno. Chi è il fifone eh?»
Cerco di mantenere un tono convincente, mentre parlo le carezzo i capelli. La punzecchio sotto le ascelle con il dito, lei lo scaccia con una manata. Continuo a carezzarle i capelli. Miriam smette di tremare e dopo un po’ sento il suo respiro inabissarsi e ricadere docile sul materasso. Continuo a carezzarla.
 
E poi un giorno l’ospite se n’è andato. Semplicemente sparito. Ha lasciato alcune banconote sul bancone della reception, ha preso le sue cose e si è chiuso la porta alle spalle, senza avvertire nessuno. È stato facile capire. Mio padre non si è nemmeno premurato di uscire a cercarlo. Abbiamo continuato a soffiarci sulle mani, a staccarci frammenti anneriti dalle labbra screpolate, le nostre esistenze sporgenti per niente scalfite. Forse la mamma si è perfino inginocchiata e di nascosto ha ringraziato il Signore per aver allontanato quella bocca mefitica dalla sua dispensa.
Siamo andati avanti. Cos’altro potremmo fare?
Concentriamo l’attenzione su piccoli gesti e li ripetiamo fino alla nausea. Svoltoliamo le stesse azioni, giorno dopo giorno, e poi la notte le riavvolgiamo, per il mattino successivo.
Mio padre che continua a occuparsi della caldaia, mamma della cucina e della dispensa, Miriam scarabocchia strani disegni sul diario, io che perlustro ciò che già conosco.
Sono entrato nella camera dell’ospite per cercare qualche oggetto da aggiungere alla mia collezione. Non ho trovato niente. Sembrava una camera liberata da secoli.
Il letto perfettamente rifatto, gli armadi vuoti, le mensole sopra il lavandino sgombre. Come non fosse mai esistito.
Così ci limitiamo a perfezionare i gesti, ad affinarli, impiegando, se possibile, lo stesso tempo che abbiamo impiegato ieri. Sovrapporre i giorni fin quasi a farli coincidere, fin quasi a non farli esistere. Fino a renderli un’invenzione, un inciampo della memoria.
 
Non è un preciso rumore a farmi spalancare gli occhi. È piuttosto un lamento liquido che sento ondeggiare sopra la mia testa già da prima di svegliarmi in preda al panico.
Ci metto un po’ a realizzare dove mi trovo. Il letto è infradiciato di sudore. Resto in ascolto. Niente. Soltanto il respiro sommesso di Miriam che dorme nell’altro letto.
Poi di nuovo il lamento. Un mugolio corale, un sospiro ringhiato che arriva da fuori.
I lupi.
Provo a rimanere immobile, ogni singolo movimento mi terrorizza. Immagino il branco che entra in camera e che mi sbrana non appena muovo un muscolo.
Poi penso a Miriam, addormentata, inconsapevole. Penso a quello che le ho detto per rassicurarla. Perciò mi faccio coraggio, calcio via le lenzuola ed esco dal letto. Indosso il giaccone più pesante che ho e scendo le scale senza far rumore. Nella hall tutte le luci sono spente. Mi fa venire in mente prima, quando qualche cliente tornava all’alba senza le chiavi, ubriaco fradicio. Se nessuno si svegliava andavo io ad aprire.
Dopo mi sedevo al bancone e rimanevo per un po’ a far niente, in attesa che il sonno si ripresentasse. La hall era esattamente così. Vuota, buia. Però prima c’era qualcosa che aveva a che fare con riposi meritati e giornate faticose, dormite pasciute, assenza di pensieri. Adesso no.
Apro l’armadietto di mio padre. L’anta cigola appena. Attendo qualche secondo ma non succede niente, così afferro il fucile e i pallettoni ed esco fuori, lottando con la neve che resiste allo stipite.
Il freddo è insopportabile. Mi schiaffeggia la faccia e le altre parti scoperte.
Affondo di qualche passo nella neve prima di caricare il fucile. Continuo a sentire il lamento, ma stavolta capisco che si tratta soltanto del vento. Per sicurezza decido di fare un giro nei dintorni.
Continuo ad affondare nella neve, diretto verso il bosco. La neve arriva fino alle caviglie. È morbida e spumosa. Mi avvio verso il bosco, adesso non appare tanto spaventoso. Mi rendo conto che non metto piede fuori dall’albergo da qualche settimana, e in fondo è bello camminare all’aria aperta con un fucile in mano.
Ancora non è alba. Il cielo si srotola in una distesa albuminosa che rivela i contorni ma non i dettagli. Continuo a camminare, forte di quella promessa di luce, cammino fino a quando mi accorgo di aver smarrito la strada. Mi guardo intorno, giro su me stesso, per terra riesco a scorgere qualche traccia mezza inghiottita che provo a ripercorrere al contrario.
Corro e cado a ripetizione, affondo nella neve e inciampo nella canna del fucile.
A quanto pare non saranno i lupi a finirmi, sarà sufficiente la mia stupidità.
Mi rialzo per l’ennesima volta, sfinito, mi isso sulle ginocchia fradice e tento di camminare il più in fretta possibile. È allora che lo scorgo in lontananza.
Mi avvicino. Tendo il fucile nella sua direzione e muovo i passi con cautela, sforzandomi di non perdere il contatto visivo.
L’uomo è seduto per terra, rigido, la valigetta stretta in mano. Una smorfia di leggero disappunto è congelata sul suo volto. Sembra deluso. Sembra molto più reale di quando sfogliava giornali in sala da pranzo. Con la mano libera provo a sfilargli la valigetta, ma la presa è salda, indiscutibile, eterna. Lascio perdere.
Non possono certo essere i soldi a interessarmi, almeno non nella situazione in cui sono. Mi accontento solo di una prova. Frugo in tasca e la trovo.
Infilo la scatola di mentine nel giaccone e rimango ancora un attimo di fronte all’ospite. Vista da qui la morte sembra qualcosa di sopravvalutato.
Ormai il mattino è giunto. Posso ritrovare la strada per l’albergo, accogliere un nuovo giorno. Mi incammino, sfiorando con le dita la scatola di mentine custodita dentro il giaccone. Li aggiungerò alla mia collezione, poi mi infilerò a letto e dormirò per qualche ora, o circa un secolo.
 
Siamo qui, accampati fra le pieghe dei giorni. Ci guardiamo negli occhi senza più riconoscerci. Non un padre, una madre, non un fratello o un figlio. Soltanto corpi contigui in attesa. Fiati umani che si scontrano e si mescolano, si disperdono e poi scompaiono.
Fuori c’è il vento che lavora gli angoli. Annulla i contorni e ridefinisce le regole del nostro vivere magro. Dentro, noi. In ascolto. Sensibili al silenzio sforzato dai nervi, ai cardini che cigolano e resistono una volta ancora, non si sa per quanto.
L’insistenza dei giorni, che picchiano contro la porta. Urlano e bestemmiano, reclamano scampo nel rifugio che giorni non ha più. Siamo senza tempo, ormai, noi, seduti al di sopra del resto. Non basterebbero cento soli a sciogliere tutta questa neve.
E allora non resta che attendere, con lo sguardo dei morti e la fame dei superstiti.
I giorni passeranno, e noi con loro.

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