La ricchezza

Autore: Marco Montemarano
Casa editrice: Neri Pozza
Pagine: 271

Leggendo La ricchezza vengono in mente due film usciti in Italia nel 2013, completamente lontani fra loro per stile e storia e anche apparentemente diversi dal romanzo in questione: il tanto criticato La grande bellezza di Sorrentino e lo straordinario Il passato dell’iraniano Farhadi.
La grande bellezza perché il tema centrale del film, come del romanzo di Montemarano, è l’autodistruzione o meglio la dissipazione di se stessi, il non riuscire a fare i conti con il proprio Io e la conseguente rovina del personale (presunto) talento come unica via di sopravvivenza; Il passato perché a un certo punto della storia la pellicola rimarca la necessità di lasciarsi alle spalle un vissuto dal peso insostenibile come prima via da battere per rimanere a galla, che è un altro tema cardine del libro.

Ne La ricchezza (il cui significato del titolo è comprensibile solo verso la fine della storia), il protagonista è il giovane Giovanni, detto Hitchcock, che seguiremo dalla travagliata adolescenza trascorsa in casa Pedrotti fra droghe leggere e sesso, fino ai suoi cinquant’anni, con il comune denominatore del tormento che mina la pace interiore e la coscienza. Ma non meno importanti sono altri tre personaggi legati a strettissimo filo (tanto da marchiare a fuoco tutta la vita non solo sentimentale di Hitchcock), ovvero i figli dell’onorevole Pedrotti: Fabrizio (un giovane carismatico dalle cui labbra pende Giovanni), Mario (emarginato e in costante conflitto col fratello maggiore) e Maddalena (misteriosa e legata sentimentalmente, anche se con modalità clandestine, a Giovanni). Tutti decisivi per la crescita del protagonista e tutti estremamente dipendenti dall’eminenza grigia del romanzo, l’onorevole Pedrotti, la cui sorte risulterà determinante nell’accrescere vertiginosamente i sensi di colpa di Hitchcock e la dissoluzione fisica e psichica dei suoi due figli maschi.

Nel romanzo di Montemarano la memoria è un nido che brucia, un gomitolo messo in un angolo, che confonde e si fa presto incendio lasciando impraticabile qualsiasi tentativo di ricostruzione dei fatti e della verità, dell’oggettività perfino delle proprie esperienze di vita.
L’autore imbastisce con effetto una vicenda che è metafora dei nodi (irrisolti, o difficilmente risolvibili) che il trascorrere implacabile del tempo provoca nel vissuto quotidiano, dove il presente è ostaggio di una memoria che non fornisce mai certezze, e da dove – per utilizzare un’immagine presente nel testo – si ingigantiscono falle che mettono in seria discussione la serenità dei giorni («Non fare domande era il suo modo di punire il mondo in cui viveva. Le domande gli sembravano falle che imbarcavano acqua»). Lo fa adoperando una scrittura nitida ma a tratti anche lirica, ricca di similitudini («Come mi sentivo? Come il personaggio di quel film che dopo essere stato trapassato da una palla di cannone si guarda il buco nella pancia e si stupisce di non sentire dolore perché non sa ancora di essere morto»).
Una scrittura che ben aderisce ai salti spazio-temporali della vicenda (la quale segue vari decenni e diverse ambientazioni: da Vienna a Roma a Berlino) e alle mancanze della memoria («ma è probabile che la memoria mi inganni»), mettendosi al servizio della narrazione, con una marcata e riuscita caratterizzazione dei personaggi, tutti delineati in modo netto e sincero,  permettendo in più all’autore di non raccontare solo una storia forte e ben scritta, ma anche capace di invitare il lettore a riflessioni sul peso implacabile di certi avvenimenti e sul ruolo determinante che i ricordi possono avere sul presente e sul futuro delle persone, sui legami di sangue (il conflitto fra fratelli), sulla disgregazione dell’impianto famigliare e borghese.
La ricchezza sconta solo qualche indecisione nella parte finale e un’impressione di mancata opera di severa revisione del testo (poteva essere più rigorosa), ma dimostra soprattutto il talento dell’autore, che lascia in chi legge la sensazione di poter migliorare ancora e riservare sorprese.

 Giuseppe Rizza

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