Nuove frontiere, la scrittrice apolide e altri viaggiatori: intervista a Valeria Luiselli

Che poi la libreria Koob non è mica così lontana. Voglio dire, è vero, devi prendere gli stessi mezzi che prenderesti per andare allo Stadio Olimpico – la metro fino a Flaminio, poi il tram fino a piazza Mancini –, ma ci sono due differenze fondamentali: la prima è che non sei circondato da migliaia di tifosi come per le partite di campionato, quindi aspetterai il tram per un minuto e non per un’ora; la seconda è che una volta sceso al capolinea ti basterà girare l’angolo per arrivare a destinazione.

La libreria è accogliente e ben organizzata: ha un angolo bar, una sala presentazioni, un calendario ricco d’eventi. Quello che c’è intorno invece mette un po’ d’angoscia. I quartieri della Roma bene sono a due passi, ma contrastano nettamente con lo spettacolo offerto da piazza Mancini: capannelli di extracomunitari che bevono Peroni da 66 sul marciapiede e poi scalciano le bottiglie contro i muri; una coppia di zingari che rovista nei cassonetti e seleziona i rifiuti senza preoccuparsi di rimettere dentro gli scarti; un settantenne barcollante che bestemmia in romanesco e si lancia di testa contro ogni saracinesca che incontra.

Prima di andare in libreria sono entrato in un bar e ho chiesto del bagno. L’uomo al bancone mi ha guardato male, ha risposto che era occupato, così ho ordinato un tè freddo. L’ho bevuto molto lentamente, perché la presentazione di Carte false di Valeria Luiselli (La Nuova frontiera, 2013) sarebbe iniziata solo mezz’ora più tardi. Nel frattempo è rientrata la cassiera che stava fumando fuori. Aveva un tatuaggio sul braccio destro, una parola in sanscrito, o in un’altra lingua che non so riconoscere, che scendeva dalla spalla fino al gomito. Un altro molto più piccolo, il volto di Hello Kitty, appena sopra l’arcata sopraccigliare, accanto alla tempia. Mi ha dato il resto ed è rimasta a fissarmi. Mi sono reso conto di conoscerla e lei l’avrà capito dalla mia espressione, perché subito mi ha detto: «Ero fuori a fumare, non mi avevi vista?». Le ho chiesto se potevo usare il bagno. Lei mi ha risposto di sì e il barista ha sceso le scale per chiamare il cliente che lo stava occupando. Mi sono girato verso la cassiera che ha agitato il suo caschetto biondo per farmi cenno di no. Il barista da giù ha urlato: «Cinque minuti, ora esce». La cassiera ha scosso di nuovo la testa e mi ha detto: «È meglio se vai.»

Quando Valeria Luiselli, suo marito Álvaro Enrigue e Francesco Pacifico mi passano davanti, sono seduto su un divano e sto finendo di leggere le ultime pagine di Carte false. I primi due non mi salutano perché non mi conoscono. Pacifico ricambia il mio saluto inarcando il sopracciglio perché non ha idea di chi diavolo sia. È la terza volta che gli succede, di non riconoscermi, il motivo è che quando ingrasso qualcosa cambia nella mia fisionomia. Significa che i petti di pollo e le partite di calcetto ancora non hanno fatto effetto. Álvaro Enrigue è uno scrittore piuttosto affermato in Messico e in Spagna, i suoi libri sono pubblicati da Anagrama – la stessa casa editrice di Bolaño, e per lungo tempo di Marías e Vila-Matas –, ma qui non è stato ancora tradotto.

Tra la gente in sala non vedo nessuna delle facce che incrocio di solito alle presentazioni a San Lorenzo o al Pigneto. I più o meno giovani scrittori italiani, aspiranti scrittori, lavoratori precari dell’editoria vanno solo alle presentazioni dei libri scritti dai loro simili. O alle presentazioni degli scrittori statunitensi di Minimum Fax. Oppure è la distanza che li ha spaventati, o il caldo, o magari stanno iniziando a sparire, non lo so, sono mesi che non vado a una presentazione, e questo è un buon momento per sparire, licenziarsi da un lavoro che non ti fa arrivare a fine mese, smettere di fare finta che.

Mi siedo in prima fila, riconosco la traduttrice di Carte false, Elisa Tramontin, gli altri volti non mi dicono nulla, li classifico, forse sbagliandomi, come borghesi, ma borghesi veri, non classe media da macello, quelli, per intenderci, che non si dovranno preoccupare per il futuro delle prossime tre generazioni. Forse questa idea sbagliata me la dà la signora bionda che alla fine della presentazione parla con la Luiselli e le dice che ora che i suoi figli sono un po’ più grandi anche lei inizierà a scrivere. Poi chiama uno dei bambini, che ha portato con sé in libreria, e gli fa: «La signora scrittrice ha una bambina della tua età che vive a New York. Noi ci andiamo spesso a New York, vero Amilcare? E abbiamo già tanti amichetti lì, vero?»

Ho letto i due libri di Valeria Luiselli, Carte false e Volti nella folla (La Nuova frontiera, 2012) a Siviglia nel 2011, in poco più di ventiquattro ore, nel giorno di chiusura del bar di tapas dove lavoravo, approfittando della pioggia torrenziale che impediva di uscire.

Il primo si apre e si chiude a Venezia, con un racconto autobiografico: inizia con l’autrice che si reca al cimitero di San Michele per visitare la tomba di Brodskij e finisce con lei all’anagrafe che cerca di ottenere la residenza veneziana. Nel mezzo c’è un ritratto sentimentale dell’artista da giovane composto da un catalogo, solo apparentemente disomogeneo, di parole e luoghi.

Volti nella folla, invece, è un romanzo in cui si incrociano due vicende, entrambe ambientate a New York, ma in epoche diverse. Di una è protagonista una scrittrice messicana dei giorni nostri, che alterna il racconto di un passato sregolato tra amanti improbabili e il tentativo di pubblicare una falsa traduzione di Gilberto Owen al presente in cui è moglie di uno sceneggiatore e madre di due bambini. Il narratore dell’altra storia è invece lo stesso Gilberto Owen, che si aggira tra le strade della Grande Mela in compagnia di altri due famosi poeti, Federico García Lorca e Louis Zukofsky.

La presentazione viene introdotta dal direttore editoriale de La Nuova frontiera, Lorenzo Ribaldi, e subito condotta su binari informali da Francesco Pacifico. Valeria Luiselli, che è ancora più magra e più bella che in fotografia, muove le mani senza sosta. Pacifico le fa le domande in italiano, lei risponde in spagnolo, ma a volte, senza rendersene conto, passa all’italiano, che parla benissimo, dimostrando che le sue insicurezze al riguardo sono ingiustificate.

L’autrice racconta di essere nata in Messico, ma di aver abbandonato il suo paese già dalla prima infanzia, vivendo in luoghi diversi, dal Sudafrica all’India, a causa del lavoro dei suoi genitori. Carte False, spiega, nasce dall’esigenza di riavvicinarsi alla lingua materna, lo spagnolo, e di scrivere della sua città natale, Città del Messico. Ma presto diventa un testo sull’impossibilità di scrivere di Città del Messico. Francesco Pacifico si dice meravigliato della capacità della Luiselli di affascinare il lettore con un libro che sembra non avere un filo conduttore se non il punto di vista della narratrice sulla realtà. Carte false gli ricorda i saggi di Montaigne, aggiunge. L’autrice concorda con l’ascendenza letteraria e sottolinea che il saggio come strumento per descrivere sé stessi comincia già con Petrarca. La presentazione prosegue con la lettura di alcuni brani, con un simpatico battibecco sul livello di autobiografismo del libro – nonostante in Messico e USA il libro sia classificato come ensayo personal/personal essay, Pacifico sostiene che tale livello non si avvicina nemmeno lontanamente a quello preteso da un libro d’esordio di un autore italiano –, con un’interessante divagazione sull’eccessiva esibizione dell’intimità, che a volte sfocia nel pornografico, di autori come Philipp Lopate, Dave Eggers o Franzen.

Sarà che l’aspettavo da due anni, ma l’ora e mezzo della presentazione trascorre velocissima. Mi avvicino a Valeria per farmi autografare i suoi libri, poi la intervisto.

1) In che nazioni hai vissuto e che studi hai fatto?

Sono nata a Città del Messico nell’83 e nell’85 la mia famiglia si è trasferita a Madison, negli Stati Uniti. Siamo tornati per un brevissimo periodo in Messico, ma quasi subito siamo ripartiti per il Costa Rica, dove ci siamo fermati tre anni. Poi abbiamo vissuto in Corea del Sud per altri tre anni e mezzo e per quattro in Sudafrica. Mio padre era un diplomatico, è stato il primo ambasciatore messicano in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid, e mia madre lavorava per delle ONG, per questo ci spostavamo così spesso. Avevo quindici anni quando siamo tornati di nuovo in Messico, ma non sono riuscita ad ambientarmi benissimo così dopo un po’ ho chiesto un borsa di studio e ho avuto l’opportunità di frequentare un’ottima scuola in India. Ho trascorso un altro periodo in Messico, ho studiato filosofia e poi ho fatto un dottorato in letterature comparate alla Columbia University di New York, dove vivo tuttora.

2) Come hai iniziato a interessarti alla scrittura e alla letteratura in generale?

Ricordo la scrittura come un’attività che ho svolto fin da quand’ero molto piccola, indipendentemente dal mio interesse per i libri. Quando arrivai in Corea del Sud sapevo scrivere, ma non conoscevo l’inglese – studiavo in una scuola internazionale anglofona – e una delle prime cose che feci fu scrivere un presunto libro in inglese, che in realtà era fatto di una serie di fogli sui quali appuntavo e mettevo in relazione le parole che si pronunciavano in classe. Scrivere questo “libro” quotidianamente era il mio modo di stare in un nuovo ambiente, era un gioco che mi faceva sentire in uno spazio sicuro.

Per quel che concerne la lettura, fino all’adolescenza avevo letto solo in inglese. Poi ho iniziato a leggere Juan Rulfo, Cortázar e tutta una generazione di latinoamericani, che mi hanno segnato come scrittrice. Sono stati la porta attraverso la quale non solo ho avuto accesso a una letteratura e a una lingua, ma ho scoperto un mondo.

Le mie prime letture formative sono state invece traduzioni in inglese di autori come Robert Walser e Kafka. Più tardi sono passata a Hemingway, Fitzgerald, Orwell e a quel punto, quando avevo venti, ventun’anni, ho cominciato a sentire un’inquietudine tremenda verso quello che facevano queste persone. Quindi la scintilla è scoccata con gli anglosassoni, ma la tradizione latinoamericana ha sempre avuto un grande peso.

3) Come hai pubblicato il tuo primo libro?

L’ho scritto senza immaginare che l’avrei pubblicato. Avevo dei contatti editoriali tramite «Letras Libres», una rivista per la quale lavoravo, e una casa editrice giovane, Sexto Piso, ha deciso di scommettere su Carte false. È stata una scommessa ardita, perché non è comune che un libro d’esordio sia una raccolta di saggi, ma per fortuna è andata molto bene.

4) Quello che hai scritto finora ha una forte componente autobiografica. C’è una scelta formale, poetica, alla base di questo o dipende solo dal fatto che preferisci descrivere quello che conosci meglio?

Io direi che Carte false è un libro molto autobiografico, un libro dove le esperienze di vita, le esperienze di lettura e l’esplorazione degli spazi sono messe tutte sullo stesso piano. Il romanzo invece non lo è. Quella della narratrice è una voce vicina alla mia e c’è la materia prima di alcune esperienze che sono state romanzate, ma lo scopo non era quello di interrogarmi sulla mia vita e indagare la mia psiche. Può essere inteso come autobiografico in un senso più astratto, come romanzo che esplora il mio rapporto con la finzione.

5) Perché Carte false inizia e si conclude a Venezia?

Non era una cosa premeditata. Avrei voluto che fosse un libro su Città del Messico, l’ho scritto con lo scopo di legarmi alla mia città natale, di appartenere a uno spazio, ma paradossalmente il processo di scrittura mi ha costretta ad andare a Venezia, di cui ora ho la residenza per una serie di casualità, e poi a diventare abitante di New York. È strano come gli eventi della tua vita accadano in maniera letteraria se ti dedichi a scrivere letteratura. I libri finiscono col modificare la tua vita a un livello palpabile, reale.

6) Quali sono gli scrittori latinoamericani tuoi coetanei che ammiri di più?

Sono molto interessata all’opera della messicana Guadalupe Nettel. Senza dubbio ammiro una scrittrice che ha pubblicato da poco in Italia, Lina Meruane. Ho letto tutti i libri di Alejandro Zambra e ora leggiamo l’uno i manoscritti dell’altra e ci scambiamo consigli. Mi interessa anche un altro giovane cileno, Diego Zúñiga. E apprezzo molto la poesia del messicano Daniel Saldaña, che fra poco pubblicherà un romanzo. Potrei fare moltissimi altri nomi, ma sarebbe comunque una lista incompleta, ci si dimentica sempre di qualcuno, gli elenchi sono sempre ingiusti.

7) Credi che Roberto Bolaño eserciti un’influenza forte sulla letteratura latinoamericana attuale?

Ho letto I detective selvaggi e parte di 2666. E alcuni saggi, però i saggi non mi sono piaciuti. Credo che abbia un’influenza minore di quello che la critica internazionale pensa. I critici stranieri considerano molti di noi come piccoli Bolaño, ma spesso si sbagliano. È una figura importante, senza dubbio un ottimo scrittore, ma per chi conosce la nostra tradizione, è solo uno degli scrittori di questa linea, che recupera alcuni elementi dei suoi predecessori e gioca con altri, però di sicuro non ha iniziato nulla di nuovo. In ogni caso, secondo me, l’obiettivo più alto che ha raggiunto è aver scritto il secondo miglior romanzo su Città del Messico dopo La regione più trasparente di Carlos Fuentes. Per comprendere la vitalità e la libertà narrativa di Bolaño bisogna leggere i suoi predecessori, mentre la critica pensa che sia il grande spartiacque della nostra letteratura.

8) Qual è l’ultimo libro italiano che hai letto e qual è il tuo scrittore italiano preferito?

L’ultimo è un libro di Natalia Ginzburg, una delle mie scrittrici preferite, ma non l’unica. Mi piace moltissimo Italo Svevo. Invece Pavese non tanto, o meglio, non così tanto come pensavo che mi sarebbe piaciuto. Di autori più recenti ne ho letti davvero pochi.

9) Quali sono i tuoi progetti futuri?

Sto scrivendo un romanzo ambientato in Sudafrica e sto per finire un racconto lungo che è una satira sul mondo dell’arte contemporanea. Questo romanzo nei miei piani dovrebbe essere più autobiografico, ma sospetto che mano a mano che andrò avanti questo elemento si perderà.

 ***

Quando torno a piazza Mancini, la cassiera del bar è sulla porta e sta fumando. Mi chiama e mi chiede se possiamo parlare. Sono stranamente calmo mentre la ascolto. Come se me lo aspettassi. Tornerò lì molto spesso, due volte alla settimana almeno. Ma questa è un’altra storia.

Mentre sono sul tram, con la fronte incollata al finestrino, penso al tessuto del tailleur che indossava la signora bionda della libreria, quella che va spesso a New York. Penso che anche mia madre, quand’ero adolescente, comprava tailleur del genere. Ora non più, continua a usare quelli vecchi, che però sono perfettamente conservati. Penso a mia sorella, che ha quindici anni, e per fortuna in questo periodo si accontenta di mettere gli shorts e le camicie che mia madre le compra al mercato.

Guardo la cassiera che fuma l’ennesima sigaretta e mi dico che mio figlio non avrà mai degli amichetti a New York, che sarà già fortunato se potrà venire a giocare ai giardini che stanno qua dietro e non saremo costretti a spostarci più in periferia. Mi dico anche, però, che un giorno troverò il modo di farlo viaggiare.

Marco Gigliotti

marcgigliotti@tiscali.it

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