Con tutta quella luce
di Ginevra Lamberti

La coda della laguna di Venezia si chiama Sant’Elena ed è un grande prato verde. Lungi dal nascervi speranze, al momento nel suo mezzo vi nasce una tenda Quechua quattro posti, picchettata in modo vago. Come ogni mattina di questo aprile vessato dai monsoni, i primi raggi del sole, quando ci sono, puntano sulla coda della laguna e sulla tenda Quechua.
Usciti dalla tenda picchettata in modo vago sul grande prato verde, ci scaldiamo alla fiamma di un fornellino a gas. Poco lontano c’è una fontana troppo fredda, ma ci pensiamo dopo colazione. Si tratta di una soluzione temporanea, da considerarsi valida fino a che non riaprirà la grande stagione delle camere in affitto. Norman si staglia in controluce nella posizione del sole nascente. Ha scoperto che lo yoga è di grande aiuto al suo umore e alla sua schiena, ma credo che una di queste mattine resterà in posa plastica per sempre. Giancarla, pigiama a fiori e una coperta ghepardata sulle spalle, misura lo spazio a grandi passi alla ricerca di una rete qualunque da cui attingere nutrimento per l’Iphone. Patrizia mischia il caffè nella moka e cerca un senso nei suoi piccoli vortici, perché lei fa così.

Solo otto mesi prima ero ai piedi di una casa torre o, come viene più propriamente chiamato, di un blocchetto terra-cielo. Ero lì con tre persone non conosciute a pensare a quanta poesia può esserci, inaspettata, nelle maglie linguistiche del settore immobiliare. Faceva ancora caldo, e a salire le scale verso il tetto terrazzato ci si illuminavano gli occhi con visioni di piantagioni di basilico in vaso. Stavamo per iniziare un nuovo rapporto di coinquilinato tra persone a caso. Il pensiero che con tutta quella luce le cose non potessero andare male è nato insieme alle prime parole fuori circostanza, uscite a delimitare i confini delle zone di accordo e disaccordo.
Solo otto mesi prima, ai piedi della casa torre, abbiamo conosciuto Ortensia Taranta, che si apprestava a diventare la nostra padrona di casa. Ortensia Taranta è una persona a suo modo gentile, ancorché coltivi interessi e hobby particolari. La sua attività principale, a parte quella di nostra padrona di casa e di impiegata statale, è quella di Piazzatrice. In buona sostanza si tratta di scambiare, barattare e compravendere mobili fatiscenti con altre sue amiche a loro volta Piazzatrici, al fine di scambiarli, barattarli e compravenderli con le persone a cui affittano le case, o con amici di amici e conoscenti di amici di amici.

Il blocchetto terra-cielo in questione si trova ai Giardini della Biennale, ultimo pezzo di terra prima dell’acqua che separa dal Lido. Il quartiere è popolare e fatto a incastri di blocchetti terra-cielo. In origine ci avevano messo ad abitare gli operai dell’Arsenale con famiglie a carico. Sono parallelepipedi di Lego con terrazze sulla cima e corti interne a bucarne l’affiancamento. All’epoca, ognuna di quelle famiglie ha personalizzato i suoi spazi ridotti come poteva. E tutti gli abitanti, affacciandosi alle finestre e guardando giù, potevano (possono) spiare l’estro altrui. I nostri vicini alla destra hanno una piscina limacciosa per tartarughe, e un piccione domestico. Più avanti qualcuno ha creato un orto a castello. A sinistra il blocchetto è disabitato, ma qualcuno in un’altra vita ha pensato di piantare nella corte un fico, che ad oggi è grande e cagionevole e sputa i suoi frutti malati direttamente in casa nostra. Davanti c’è Tapparellina, una signora che di giorno canta vecchie arie italiane nel mentre delle pulizie e di sera ti osserva aprendo una fessura tra le stecche della veneziana.
Come in tutti i quartieri popolari può capitare che le persone abbiano bisogno di arrotondare le entrate mensili, ma non lo so se in tutti i comuni capita che il Comune paghi gli abitanti per fare delle lavatrici. Ovviamente non ne ho le prove, si tratta solo di un’ipotesi, ma fondata su una accurata osservazione del contesto. I palazzi sono legati tra di essi da fili che non credo siano mai stati cambiati, credo anzi che, in modo analogo alle travi di legno su cui si regge la città, siano i fili a tenerli in piedi. Ogni giorno di non pioggia è un giorno buono per stendere il bucato. Sia con la luce che col buio, ondeggiano i panni tesi, e anche grazie a quelli puoi capire quante e che tipo di persone abitino nell’una o nell’altra casa, o se da qualche parte vive un gondoliere scapolo, con la sua maglia a righe bianche e rosse, solitaria su una corda per il resto nuda. Sempre dall’osservazione desumo che ci siano delle tabelle in base alle quali si compie il rito del bucato a pagamento. Ogni famiglia alterna i bianchi, i colorati e i neri di modo che il tono dominante non sia mai uno solo. Ma soprattutto resta inspiegabile la presenza diffusa dei medesimi set di lenzuola e stuoini leopardati.
Norman, che con me avrebbe finito di lì a poco col dividere una stanza doppia, aveva elaborato una teoria al riguardo. Ai piedi del blocchetto terra-cielo, disse che l’unica spiegazione possibile era che quando gli Americani arrivarono a liberare il Sestiere di Castello dal nazifascismo avessero distribuito alla popolazione annichilita copiosi corredi maculati, che gli abitanti conservano tuttora, e in segno di gratitudine espongono in guisa di bandiere sui loro stendibiancheria. Mi è sembrato sensato, e mi è sembrato che le cose non potessero andare male. Norman lavora in un negozio di vetro di murano cinese per più ore di quante ne contenga una giornata, e nel tempo libero studia gli affari privati dei longobardi meridionali.
Anche Patrizia e Giancarla, che di lì a poco sarebbero andate a occupare due stanze singole, hanno dimostrato un interesse di tipo accademico per la sua teoria. Patrizia e Giancarla di mestiere fanno le antropologhe, per quanto i dettagli di questa attività non mi siano ancora chiarissimi. Io, di mio, lavoro in un locale per persone giovani nel cuore del centro storico, è un lavoro senza troppi oneri, se non consideriamo un onere quello di doversi cotonare i capelli ogni mattina.

I turisti fino a qua non arrivano, stremati si fermano al ponte di San Zaccaria, dopo una giornata trascorsa a camminare in percorsi concentrici attorno a Piazza San Marco, con la sensazione di aver circumnavigato l’Africa a piedi (laddove l’assurdità dell’impresa legittima in modo ulteriore la loro sensazione di essere degli eroi di guerra). Stremati si fermano al ponte di San Zaccaria, guardano l’orizzonte e decidono di lasciarsi morire su un vaporetto che li porti il più vicino possibile al loro albergo. Anche di studenti ne arrivano pochi, l’unica sede universitaria presente in zona è alla Celestia, e vi spiegherei volentieri cosa questo voglia dire a livello topografico, ma la Celestia è un buco nero della mia coscienza di cittadina d’adozione, irraggiungibile come la quarta dimensione.

All’atto del trasloco abbiamo appurato che quanto a servizi questo risulta essere un piccolo feudo isolato e autosufficiente. Ovvero ciò che cercavamo: un posto tranquillo e appartato. Non che fosse brutto vivere nella zona studentesca della città, solo a un certo punto decidi di intraprendere la via adulta del male minore, e di barattare la gente che sbatte la testa contro le saracinesche dei negozi sotto casa fino alle quattro del mattino con Ortensia Taranta che si appende al campanello all’ora della colazione.
Ortensia Taranta è una donna matura, non troppo appariscente, ma ben tenuta. Pratica sport ed è in grado di trasportare da sola un frigorifero su un carretto senza dare grossi segni di cedimento. L’esigenza di trasporto straordinario si è presentata nel momento in cui, avviati dopo lungo stato di abbandono gli strumenti di casa, ci si è accorti che il frigo non frigava. Ce ne è stato allora fornito uno di quelli da campeggio, un piccolo frigo utile tutt’al più a mantenere tiepide delle birre in numero di sei. Come accennavo, è una Piazzatrice, e l’altra cosa che fanno le Piazzatrici nel tempo libero, oltre a piazzare cose, è tessere storie losche con i loro tecnici di fiducia. Tutte separate, divorziate o vedove, come nelle barzellette più antiche si profondono in sguardi languidi rivolti all’idraulico, all’elettricista, al caldaista e via procedendo. Il sospetto è che riempiano le loro case da affittare di materiali difettosi al fine di avere scuse credibili per chiamarli.

L’altra cosa ancora che Ortensia Taranta ha amato da subito fare, è il lavaggio del cervello a Giancarla, cooptandola nei suoi raid da arredatrice d’interni underground.
Ricordo con una certa precisione il giorno in cui Giancarla ci ha detto Sapete, trasportando comodini con Ortensia e suo fratello Malamocco ho scoperto una cosa: i precedenti inquilini erano sette-otto albanesi in subaffitto da un egiziano. Non che ci sia niente di male, del resto com’è noto ho un rapporto di una certa confidenza con l’Albania.
E noi le abbiamo detto No Giancarla, non ci è noto, cosa vuol dire che hai un rapporto di una certa confidenza con l’Albania?
Giancarla ci ha detto Non importa, ve lo spiego un’altra volta. Comunque, vi dicevo che la leggenda vuole che un giorno l’egiziano sia scappato lasciando dietro di sé solo conti non pagati. Poco dopo, col favore delle tenebre, i sette-otto subaffittuari avrebbero fatto la stessa cosa, lasciando dietro di sé solo la tavola con i nomi di Allah, quella stessa tavola che custodiamo gelosamente all’ingresso.

In effetti, a volte arrivavano delle lettere di sollecito indirizzate a nomi insoliti ed esotici, ma Ortensia Taranta ci aveva sempre detto di non preoccuparci e che avrebbe pensato a tutto lei. Giancarla, comunque, quella cosa dell’Albania non ce l’ha mai più raccontata.

Ricordo con una certa precisione anche il giorno in cui entrambe sono arrivate cariche di entusiasmo e materiale da discarica. Hanno riversato in corridoio un set di copricuscini a fiori, la porta mancante dell’armadio di camera mia e di Norman, una contestuale maniglia a forma di cuore e una plafoniera a forma di nuvola per il terrazzo. Abbiamo fatto notare che il problema della luce in terrazzo erano i cavi elettrici tagliati. Ortensia Taranta ci ha chiesto se avevamo un amico elettricista da presentarle. Poi è andata, che era in ritardo per il corso di kick boxing.
Norman non parla molto, ma mentre montava a colpi di martello la maniglia a cuore sulla porta dell’armadio, sentivo che la odiava di un odio puro e luminoso.
Patrizia, di suo, da quella sera ha iniziato a studiare il tema natale di Ortensia, a sentire la presenza di presenze, e a vedere talvolta una donna seduta sulla poltrona vittoriana. Ci ha assicurato comunque che a suo avviso non si trattava di un’entità malvagia.

A Venezia, per quanto riguarda i contratti di affitto dei pianterreni, una cosa che spesso si dice a voce, ma raramente si mette per iscritto, è esente acqua alta.
Ricordo con una certa precisione che la mattina in cui mi ha svegliata un acre odore di decomposizione avanzata, oltre che a vomitare, ho pensato fosse il caso di alzarmi in fretta per controllare lo stato di salute di Norman. Quando i miei calzini di spugna si sono impregnati di una cosa bagnata, fredda e vischiosa, ho compreso che le scuse credibili per chiamare i tecnici avevano iniziato a palesarsi, e che Norman era ancora tra noi.
Calzando stivali da pioggia sui pigiami, seduti attorno a un tavolo da pic-nic (l’unico che Ortensia Taranta è riuscita a procurarci), abbiamo abbandonato i secchi e le scope in virtù di un sistema razionale per risolvere la situazione. Dopo alcune ore di consultazione dei fondi di caffè turco, tarocchi marsigliesi, I-ching, e uno studio comparato dell’oroscopo di Internazione con quello di Paolo Fox su Radio Lattemiele, Patrizia, maestra di cerimonia e tramite per eccellenza tra noi e gli Spiriti Magni che animavano la casa torre, ha riposto carte, tazze, monete e computer, ed è andata a compilare un form per l’espatrio in Lapponia.

Il giorno che ricordo con più precisione è quello in cui ho pensato che una cosa a cui può capitare di non pensare, nella vita, è la spontanea radiosità delle persone che di mestiere si occupano ogni giorno di escrementi umani.
Gli omini del guano erano gente simpatica, ormai li conoscevamo bene. Si occupavano dello spurgo dei pozzi neri e da quando era stato appurato che la fossa biologica aveva dei problemi strutturali li avevamo in giro per casa ogni due settimane. Piccoli e muscolosi, erano tutti imparentati in qualche modo con Ruben l’idraulico dagli occhi blu, che invece era alto e muscoloso (e con gli occhi blu). Anche lui passava spesso, da quando era stato appurato che anche le tubature del lavello della cucina avevano dei problemi strutturali. Gli omini del guano si aggiravano per casa ogni due settimane e ogni due settimane dicevano che bella giornata di merda, e si rispondevano da soli per noi sono sempre giornate di merda, ridendo poi per numerosi minuti.
Quel giorno a caso di marzo in cui il tubo degli omini del guano pompava senza turbamenti il suo contenuto all’esterno della casa, e Ruben se ne andava, fiero del suo lavoro ben fatto e dei suoi bellissimi occhi blu, sul pianerottolo si sono presentati degli altri omini non muscolosi, senza occhi blu, e perciò stesso fuori dall’entourage di Ortensia Taranta. Gli omini sconosciuti, con tutta la delicatezza possibile, ci hanno spiegato che erano seriamente intenzionati a chiudere il gas all’istante. Mentre il tubo degli omini del guano pompava senza turbamenti il suo contenuto all’esterno della casa, colti da pietà, ci hanno dato due giorni di tempo per sanare i conti lasciati aperti dai vecchi inquilini fuggitivi.
Dalla cima del tetto terrazzato, Norman guardava il flusso della corrente nella calle. Ha ricordato che di martedì passano a ritirare vetro-plastica-lattine. Con tutta la sua forza ha lanciato un sacchetto di bottiglie vuote e ha detto Va’, e porta il nostro messaggio.

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