Campo lungo
di Veronica Galletta

Piange. Si appoggia con le mani alla panca di legno, e piange.
L’uomo vestito di viola lo ha appena chiamato per nome. A lui, a mio nonno, che, sono sicura, non sa manco che posto sia questo qua. Vorrei dirglielo, vorrei puntualizzare. Ehi, scusi, guardi che mio nonno, quello che lei chiama per nome ma non ha mai conosciuto, non c’è mai entrato in questo posto qua.
Ma lei piange, e con le sue lacrime lava via la mia pretesa di precisione, il mio desiderio di verità. Allora guardo l’uomo vestito di viola, ma non dico nulla, penso solamente stai zitto, lei piange, cerca di rispettarla, spero non ti abbiano dato una lira per questo brutto spettacolo.
Siamo i suoi parenti, siamo tutti seduti davanti, siamo in prima fila. L’uomo vestito di viola tiene la sua scena, e la sua scena ha le sue regole. Ci si siede, ci si alza, ci si siede di nuovo. Ogni tanto si dice amen, e così sia, sempre sia lodato. Lo sappiamo bene tutti, ma oggi non è così facile. Da dietro, dalle altre file, è tutto più semplice. Un movimento di una gonna, una borsetta che si sposta, e allora su! in piedi. Un passo indietro, il retro di un cappotto sistemato, indietro! seduti.
Ma ora ci siamo noi, qui, primattori, e non siamo preparati. Una famiglia di agnostici, di atei, un paio di riservati, qualche distratto e qualche anticlericale militante. Perché siamo in chiesa proprio non lo so. È morto al cronicario, avranno fatto tutto quelli dell’amministrazione, mi dico. Sì, deve essere andata così.
L’uomo vestito di viola non ammette deroghe, la rappresentazione comincia. Così ci alziamo, ci sediamo, ci alziamo di nuovo. Ma siamo goffi, impacciati, scomposti, continuiamo a sbagliare, senza ritmo né ordine. Siamo un’orchestra stonata.
L’uomo vestito di viola ci guarda, se Marcello potesse vedervi, dice, cosa penserebbe di voi. Se Marcello potesse vederci, ci chiederebbe cosa ci facciamo qui con te, bello, vorrei dirgli. Ma mia madre piange, si appoggia con le mani alla panca di legno, e piange, e le sue lacrime lavano via ogni mio desiderio di precisione, e pretesa di verità. Così abbasso la testa, e mi guardo i piedi, contando il tempo che scorre.

***

Mia nonna morì il ventotto agosto duemilacinque, nella casa di riposo dove era ospitata da qualche mese. Quella mattina si era alzata presto, e si era subito lavata e vestita. Aspettava sua figlia, che le aveva promesso che sarebbe passata nel pomeriggio.
All’ora di pranzo un’infermiera aveva bussato alla sua porta, e l’aveva trovata seduta, la poltrona rivolta verso la finestra. Indossava il suo vestito chiaro, e la collana di perle abbinata agli orecchini.
Era morta. Aveva ottantasei anni.
La settimana prima, durante l’ultima visita di sua figlia, era stata bizzosa e scontrosa. L’aveva anche rimproverata, perché, a suo dire, indossava la stessa gonna della visita precedente. Una sciatteria imperdonabile. Neanche a dirlo, aveva ragione, la gonna era la stessa.
Di mia nonna non ricordo molto, l’ho vista poche volte. Solo una volta passò a casa nostra qualche giorno, per le vacanze di Natale. Di quei giorni ricordo un appunto, una cosa che aveva scritto sul suo diario, e che io avevo sbirciato di nascosto. Oggi è il primo gennaio, quest’anno compio settantasette anni. I miei propositi per l’anno nuovo sono: conservare i soldi, conservare l’allegria. Dubito che siano andati a buon fine, forse il secondo, di certo non il primo.
Di mia nonna non ho molto, solo un paio di orecchini d’oro con la perla di corallo. Li trovo molto belli, e per questo li ho messi spesso, fino a quando non se n’è rotto uno. Si è spezzato dietro, vicino alla clip. Così l’ho portato dal gioielliere, raccomandandomi che me lo sistemasse con cura, visto il suo valore. Mi ha chiamata dopo qualche giorno, per dirmi che l’oro in verità era solo un bagno, e il metallo un metallaccio, che non si poteva sistemare. Non valevano niente, quegli orecchini. Ho chiuso il telefono, e mi è venuto da ridere.
Di mia nonna non so molto, e tutto per sentito dire, ma il racconto della sua vita sfacciata ha oltrepassato i confini e superato le generazioni. Per esempio, ho sentito dire che da giovane era bellissima. Si sposò con mio nonno che aveva diciotto anni e lui dieci di più, il diciannove maggio millenovecentoquarantadue.
Era rimasta incinta quasi subito, e aveva fatto cinque figli, a distanza di circa due anni uno dall’altro. Una femmina, un maschio, una femmina, un maschio, una femmina. Cinque.
Quando la più grande aveva sedici anni e la più piccola sei, il sette gennaio millenovecentocinquantatré, se ne era andata. Era scappata con un uomo, un venditore ambulante di biancheria. Quell’anno avrebbe compiuto trentaquattro anni. L’ultima femmina, la più piccola, era mia madre.
Di lei si cominciarono ad avere notizie a intermittenza, avvolte nel mistero. Si diceva si fosse trasferita in una città relativamente vicina, abbastanza grande da garantirle l’anonimato, a poco più di un’ora di viaggio. I primi anni andava e veniva.
Veniva a trovare i figli, distribuiti fra la casa del marito, la casa della sorella minore e la strada. Si fermava qualche giorno, vagheggiava di ricongiunzioni, distribuiva giocattoli, promesse e caramelle. Poi spariva di nuovo, lasciandosi alle spalle i figli in lacrime e una scia di rancori e recriminazioni.
Di mia nonna non ho capito molto, ma di certo so che combinava un gran casino.
Ad un certo momento, un tempo imprecisato nei nebulosi racconti di famiglia, si era trasferita a Roma, perdendo il nome di battesimo, e diventando per tutti «la romana». A Roma restò incinta di nuovo e fece un altro figlio, un’ultima femmina. A Roma restò a vivere per diversi anni.
Mia nonna io non l’ho conosciuta molto, e un po’ mi dispiace. Si diceva lavorasse come guardarobiera in un teatro. Oppure no, faceva la dama di compagnia per una signora molto altolocata. Di certo spendeva tutto quello che guadagnava, biancheria e gioielli, che ciclicamente depositava e andava a riprendere al banco dei pegni.
Quel famoso Natale che rimase da noi per qualche giorno, oltre al diario le sbirciai anche nella valigia, e rimasi impressionata dalle mutande. Delle enormi mutande di una signora anziana decisamente in carne, delle enormi mutande rifilate di prezioso pizzo bianco virginale, o nero ammiccante, che lasciarono interdetta l’adolescente punk che ero.
Di mia nonna non ho fotografie. Sua sorella, che si occupava di porzioni dei suoi figli a brandelli, l’aveva ritagliata da tutte le immagini di famiglia, tracciando con le forbici una sorta di fiore cieco. Un lavoro metodico e preciso. Per lei, che viveva il dramma di un matrimonio d’amore ma senza figli, sua sorella era proprio una disgraziata. Fu lei a chiamarla per prima «la romana», e ogni volta che la nominava buttava indietro la testa, a significare sufficienza. Per lei la sorella non meritava più manco una vera incazzatura. Aveva lasciato un uomo, mio nonno, che le aveva garantito l’agiatezza economica e una certa posizione sociale, per scappare con un individuo brutto, rozzo, sgarbato, il quale però, replicava, la faceva ridere.
Mio nonno non ho mai capito cosa pensasse di tutta questa manfrina, era un uomo di poche parole. So solo che quando il venditore ambulante morì, lei prese il treno e scese in Sicilia. Dopo trenta o forse quarant’anni andarono a cena fuori, senza dire niente a nessuno. O meglio, senza dire niente a nessuno il giorno prima.
La mattina dopo fioccarono le telefonate ai figli. Ogni telefonata, una versione. Ogni versione, una presa di posizione del figlio all’altro capo del filo, che modificava senza appello la storia.
Nella sceneggiatura che fu consegnata alla mia famiglia, tramite mia madre, mio nonno le aveva portato un mazzo di fiori, aperto la porta del ristorante e fatto il baciamano, dicendole: «Sei sempre bellissima». Sul preludio le versioni erano concordi. Per il resto, lui raccontò poco, com’era nel suo stile. Bofonchiò solo qualcosa, con la voce impastata dalle decine di sigarette che consumava ogni giorno, qualcosa sull’impossibilità di riprendersela. Lo scandalo era ancora troppo fresco, la città chissà cosa avrebbe pensato. Lei da parte sua replicò, serafica, che lo aveva lasciato quarant’anni prima per non fargli da serva, e non sarebbe tornata di certo con lui dopo tanti anni, per fargli da badante. E poi lo aveva trovato proprio invecchiato, aveva concluso dispiaciuta e civetta, prima di chiudere la conversazione.
Non si rividero più fino al funerale di lui, quando mia nonna si presentò a sorpresa. Nella piazza bianca di luce davanti alla chiesa, fece un’apparizione in stile grande diva, tutta vestita di nero, con il capo coperto da una pesante veletta di pizzo triangolare, che le nascondeva quasi tutto il viso. Sorretta da due cugini, puntò dritta verso di me, chiamandomi a gran voce con il nome di mia madre. Voleva dire, l’annamagnani della Sicilia Orientale, che assomigliavo così tanto a mia madre, che lei per il fato avverso aveva dovuto abbandonare così piccola, che non poteva rassegnarsi all’idea del tempo passato, e che io fossi io, non più bambina ma ormai ragazza, e non mia madre, ormai donna, non so se rendo.
Io mi ricordo che pensai, in quella stessa piazza bianca di luce, che di quella famiglia di matti ne avevo piene le scatole. Ne avevo piene le scatole di lei e di tutti i parenti suoi, e per sfortuna anche miei. Rimasti intrappolati al sette gennaio millenovecentocinquantatré, quando lei fuggì portandosi dietro valigie piene di orecchini di scarsa qualità e enormi mutande di pizzo. Ne avevo piene le scatole di persone adulte, anziane per la precisione, che si incendiavano in discussioni su caramelle, regali o carezze avute o negate mezzo secolo prima.
Io mi ricordo che mi ripromisi, in quella stessa piazza bianca di luce, davanti alla sua veletta triangolare di pizzo nero, di condurre una vita sentimentale e coniugale quanto più noiosa e piatta possibile.
Dopo il funerale di mio nonno ci furono fughe, e ritorni, e ancora fughe e ancora ritorni. Un po’ come l’oro che portava e riprendeva dal Banco dei Pegni, faceva avanti e indietro lungo i percorsi della sua vita, senza mai trovare pace. L’inclinazione per la tragedia, il pathos greco che si portava nel sangue, la condussero a una serie di altri passi, alcuni anche eclatanti, come quando si presentò di notte alla porta di una delle sue figlie, pregandola di perdonarla, piangendo di farla entrare. Non una notte qualunque, è chiaro, ma la notte di Natale. Non ho mai saputo come fosse andata a finire quella notte, o forse l’ho solo dimenticato. Non so se le abbiano aperto la porta, alla fine, o l’abbiano lasciata là fuori, al freddo, come un paio di orecchini di scarso valore.
La passione per l’acquisto non l’avrebbe mai abbandonata. Quando mia madre andò a svuotare la sua casa, prima di mandarla alla casa di riposo, trovò decine di cuscini, asciugamani, tovaglie, tende, copriletti. Niente mutande di pizzo, però. Tutta roba sintetica, dai colori squillanti, di pessima qualità, acquistata con le televendite. Lontana dalla qualità delle sete, dei cotoni, dei lini che aveva accarezzato e amato da giovane. Un amaro contrappasso.
Ma sui vestiti no, su quelli non cedette fino alla fine. Così aspettava la visita di mia madre, l’unica figlia che andava a trovarla, vestita e truccata di tutto punto. Così la riprendeva, se per caso lei, sempre elegante, ma ancora di più per andare a trovare la sua madre sconosciuta, non teneva bene il conto dei giorni, e si presentava con la stessa gonna della visita precedente.
Mia nonna io non l’ho conosciuta molto ed era una grande egoista, e forse non avrebbe dovuto sposarsi, di certo non avrebbe dovuto fare cinque figli, anzi sei, ma restare ragazza, con i capelli raccolti in una crocchia morbida, seduta su un prato di grano, con una camicetta a righe sottili e una cinturina a sottolinearle la vita, come un ritratto di un pittore dell’Ottocento. Ritratta di spalle, mentre pensa ai fatti suoi. Di spalle, di spalle a tutto, così avrebbe dovuto vivere.
Mia nonna non l’ho conosciuta molto, eppure un po’ mi manca.

***

Mi volto verso mia madre. Le lacrime si sono asciugate, e lei osserva seria l’uomo vestito di viola, strizzando un po’ gli occhi, come se vedesse sfocato. Come se l’uomo fosse molto lontano. Poi si gira verso di me come a dire ma chi è questo qui.
Nel campo lungo della distanza, l’uomo vestito di viola finisce per occupare solo un angolo della scena. Un angolino piccolo, un po’ meno angolo degli altri, di quelli che volendo puoi anche eliminare, e proseguire con una bella parete curva. Non è né alto né basso, né magro né grasso. Sta da solo, di fronte alla cassa di legno chiaro dalla quale vedo spuntare la testa bianca di mio nonno, i suoi capelli folti e spessi, gli occhiali neri e squadrati, e l’inconfondibile puzzo di sigaretta.
Nel campo lungo della distanza ci siamo io e mia sorella, stravolte, dopo un viaggio in treno attraverso l’Italia. Circondate da una comprensione affettuosa per il nostro aspetto spaventevole e pallido, evidenziato da un sole impietoso e caldo. Ancora immerse nella calca sudata e chimica della festa dalla quale una telefonata carica di come? non sento! ci aveva catapultate lì, di botto.
Nel campo lungo della distanza c’è la chioma normanna e cerulea di mio fratello, così lontana dal corvino senza appello della vera famiglia siciliana, almeno per le beghine in fila per i baci e i fatti coraggio, che quindi lo saltano, serie e metodiche come cavallette, la prima, la seconda, la terza, fino a quando la festa sudata e chimica riaffiora, e cominciamo a ridere, io e mia sorella.
Nel campo lungo della distanza c’è mia nonna sul sagrato della chiesa, che con la sua veletta di pizzo nero e la sua memoria labile oscura il sole impietoso e caldo.
Nel campo lungo della distanza l’uomo vestito di viola è sempre là, nel suo angolo ora un po’ curvo, né magro né grasso, né alto né basso, e ci guarda, eccome se ci guarda. Ma non importa, anzi forse è giusto così, perché anche questa è la famiglia, e allora andiamo in pace, amen.

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