La casa era vuota
di Lorenzo Iervolino

La casa era vuota. Non più il tappeto finto persiano comprato in saldo da Etienne in quel negozio perennemente in chiusura. Non il divano di pelle con la spalliera alta e la chaise longue che si litigavano fin quasi a mettersi le mani addosso. Non il quadro di Marilyn che sorride nella vasca da bagno, in salone. Né il mobiletto di pezza colorato con dentro la collezione dei 45 giri di papà Gainsbourg. E neppure il tavolino trasparente dove facevano colazione la domenica mattina, in terrazzo, col vento fresco che sparecchiava di continuo la tavola, ma che non gli evitava di ridere e iniziare bene la giornata, perché in quelle mattine, qualsiasi brezza, qualsiasi piccola tempesta, Giampaolo ed Etienne se la mangiavano con un sorriso.
La casa era vuota. All’improvviso. Giampaolo se n’era accorto un pomeriggio d’inizio inverno, di quelli in cui piove sempre e sembra che esista solo la notte, perché anche quando è giorno il cielo è coperto e tutte le cose che ci circondano sono cosparse di una luce deprimente e inesorabilmente grigia. Quel pomeriggio, era il primo dicembre, una data che non avrebbe più dimenticato, Giampaolo non aveva trovato neppure un pezzo di cartone per asciugarsi le scarpe, o un giornale di quelli sporchi di vernice accatastati nella Stireria/Palestra/Nascondiglio dei panni sporchi di Etienne, che nei suoi progetti, ma mai nella vita reale, sarebbe dovuto essere uno studio. Non c’era un giornale, non c’erano i barattoli di vernice, non c’era l’asse da stiro, né gli attrezzi di Etienne: c’era a stento la porta con il cartello che Etienne lo aveva convinto a pitturare, imbrattando la scatola vuota di una confezione di merendine, su cui avevano scritto Sgabuzzino di fatto.
E così anche in corridoio, in salone, nella cucina abitabile, nei cinquemetriquadri del terrazzo, nella camera da letto che per Giampaolo era ancora la loro camera da letto, anche se Etienne, per tutti e undici i mesi in cui ci si era addormentato, l’aveva sempre chiamata la tua camera da letto.
Giampaolo non era riuscito a credere ai suoi occhi: aveva attraversato stanza per stanza senza dire una parola. Si era trascinato in giro sgocciolando dappertutto, ancora vestito con tanto di giubbotto, k-way e casco in testa, assumendo le sembianze di un agente immobiliare col cliente alla porta a cui ha promesso un appartamento di tre stanze completamente arredato ed invece se lo ritrova senza neppure una mensola: solo mura e pavimento. Così nudo che non si trova neppure la proprietà.
Etienne nei suoi borsoni griffati, e rossi come aragoste, aveva rapito solamente qualche quintale di vestiti e i suoi due poster della piccola Gainsbourg mentre sorride sotto l’ombrellino, appena sbarcata in America. Giampaolo aveva aspettato in terrazzo che Etienne li riempisse uno ad uno, che lasciasse cadere le stampelle sul pavimento a formare un tappeto di foglie di legno che annunciano l’arrivo dell’autunno e, per forza di cose, la fine dell’estate. Il rumore era poi terminato. Ogni suono percettibile era sparito. Così come Etienne. Non aveva fatto in tempo a sentire la porta, Giampaolo. Il suo Etienne si era dissolto nel nulla. Il suo sorriso da pirata. La lana morbida dei suoi ricci afro. Se avesse sentito un solo suono avrebbe tentato di fermarlo, smettendola con quella forzata diffidenza. Stupido orgoglio. Sarebbe rientrato dal terrazzo, avrebbe gridato, rotto quel silenzio che gli sembrava incredibile.
Ora invece ci doveva credere.
La casa era vuota. Deserto. Giampaolo non se ne riusciva a capacitare: come aveva fatto Etienne a far sparire tutto? A trasformare una casa in una scatola vuota, con quella facilità? E mentre queste domande rimbombavano nella sua testa, di notte anche i suoi passi delicati risuonavano altrettanto misteriosamente tra le pareti scarne, passi con i quali Giampaolo, ipnotizzato come un sonnambulo, si avventurava a cercare un bicchiere d’acqua oppure un libro, purché non sembrasse parlare di loro due.
Ma tanto, in casa, non c’era più nessun libro, né bicchieri, né acqua.

«Non scende l’acqua calda… fai qualcosaaa!» la voce di Luca è come le campane suonate nell’orario sbagliato da qualcuno che vuol fare uno scherzo al prete. Riempiono la casa con una cadenza fastidiosa, urlate. Per Giampaolo sono però più simili allo schiaffo sulle guance dopo che si è perso conoscenza per un colpo di sole improvviso. La sabbia appiccicata al colletto della camicia, lo stordimento di ritrovarsi distesi, si dissolvono grazie a quel gesto brusco, violento, necessario. Il vociare stizzito che scuote la porta del bagno è per Giampaolo, ancora una volta, e contro ogni sua volontà, il risveglio da uno svenimento.
La casa era vuota. Finché Luca.
Finché i suoi calzini in corridoio, le colline dei libri sotto le quali seppellire la paura per il prossimo esame. La casa era vuota finché Paco non ha iniziato a graffiare la pelle dei braccioli del divano, quello con la spalliera alta e la chaise longue per usufruire della quale, una vita prima, Giampaolo ed Etienne si sarebbero potuti tranquillamente prendere a pugni.
Giampaolo apre la porta del bagno dopo aver corricchiato per il corridoio scivolando nelle infradito basse da samurai occidentale. Luca è in piedi nella vasca, nudo e bianco e bellissimo con i capelli umidi che gli coprono gli occhi e il naso, ma non il suo disappunto.
«Ciccio, ma qui hai trasformato tutto il bagno nel lago di Bolsena…»
L’acqua scorre nelle venature regolari delle mattonelle celesti del pavimento del bagno, andando a bagnare la pianta dei piedi di Giampaolo che cerca di evitarla spostando il peso del corpo alternativamente sull’interno e sull’esterno della caviglia: senza successo.
«Ma quale lago? Qui non esce una cazzo di goccia calda e ti preoccupi del pavimento! Poi pulisco, porca…»
Luca si sbraccia, quasi schiaffeggiando la tenda di plastica che sventola come la vela di una barchetta risucchiata da una tempesta, e Giampaolo pensa di amarle quelle braccia, forti e delicate al tempo stesso, così lunghe anche per quel corpo di quasi un metro e novanta; poi pulisce… pensa fra sé, ma è il solito infantile capriccio e se fosse accaduto con Etienne, santo cielo!, ci sarebbe stata la guerra: il bagno allagato, le urla all’ora di cena coi vicini che non aspettano altro che un po’ di chiasso, e le bugie, perché anche Etienne non muoveva un dito. Ma Etienne non era Luca e alla fine prendeva lo spazzolone e lo straccio perché era viziato, sì, anche lui, e profondamente, ma sapeva come voleva stare al mondo, e questa sua visione comprendeva l’orgoglio di pulirsi una casa, di risolvere le questioni pratiche da sé: perché ad Etienne piaceva litigare per fare la pace. Luca, invece, è un cucciolo che grida perché gli venga portata una preda da sbranare.
«Chiudi un attimo l’acqua, che controllo la caldaia» conclude Giampaolo, non riuscendo a trattenere un sorriso.
«Ma che ci trovi da ridere? Fai in fretta che mi ammalo.»
«Ah sentilo, poi sarei io il vecchio! Bello, dovresti essere tu a correre perché io non mi ammali» ma queste ultime parole Giampaolo se le dice quasi tra sé e sé. In verità tra sé e la caldaia che si era fermata bloccando la sua magia elettrica, così come ordinatogli dalla dittatura del timer.
La casa era vuota. Finché Luca ha detto Va bene, quasi senza guardare Giampaolo negli occhi, tra un sms e l’altro. Ma per Giampaolo lo stupore era stato più grande della rabbia sottile di quando le cose sperate si concretizzano in forme diverse da come le si è sognate. E lo aveva abbracciato, accettando la sua poca convinzione come una ramificazione della sbadataggine che avvolge i gesti e ne condiziona gli slanci. La stessa che lui anche aveva avuto a quell’età. O almeno questo è quel che confidava al suo silenzio.
Va bene, aveva detto Luca facendo cadere in poche settimane tutti e dieci i «comandamenti» che Giampaolo aveva scolpito nelle tavole di almeno sei dei suoi trentacinque anni, da quando cioè aveva deciso di pagare il mutuo per quella casa: Luca fumava in giro per il corridoio e in stanza e in salone e in cucina; quasi mai in terrazzo. Come gli era stato cortesemente consigliato. Paco mangiucchiava i suoi croccantini un po’ su tutti i pavimenti e anche lui, come fosse d’accordo col suo padrone, quasi mai in terrazzo, dove Giampaolo, accanto alla ciotola blu, aveva appeso un piccolo poster plastificato del gatto Silvestro che ha finalmente tra le grinfie il suo amato/odiato rivale pennuto. Il sabato pomeriggio in salone c’era sempre qualche studentello pugliese o calabrese coi capelli colorati e jeans che gli partivano da sotto le chiappe che organizzava assalti guerriglieri ad inespugnabili fortini etero.
Eccetera e ancora eccetera, fino all’ultimo barlume di regola.
Ma era bastata una piccola borsa da tennis con qualche maglietta già sporca, due paia di scarpe che sembravano avere vita autonoma per quanto era impossibile trattenerle all’ingresso tra le due file di mensole di ferro utopicamente apostrofate da Giampaolo con il nome di scarpiera. Era bastata la sua totale inaffidabilità per gli orari, i peli del gatto fin sopra il microonde, le notti piene della sua pelle liscia, i muscoli giovani e i modi distratti e pretenziosi, perché tutto riprendesse vita, Marilyn tornasse a sorridere nella vasca da bagno appesa in salone, il tavolino di vetro fosse di nuovo in terrazzo ad attendere una nuova domenica, il divano di pelle, non più capace di provocare un qualsivoglia litigio, sovrastasse ancora una volta il tappeto finto persiano comprato in saldo da Etienne in quel negozio perennemente in chiusura, ben infilato sotto al mobiletto di stoffa ripieno dei dischi di papà Gainsbourg.
Era bastato Luca per trasformare il deserto in un ricordo che ora sembrava appartenere ad un’altra vita. Un’altra vita vissuta da un altro, di cui ci si ricorda solo la faccia seria vagamente simile a quella della persona che si è amata, nel momento in cui si volta, sparisce, e con sé, in un unico gesto, riesce a svuotarti di tutto ciò che vi ha circondati per diciassette mesi.

«Com’è andato l’esame?»
«Mm, ri… rim… l’hannormndato qgli stro..nzi!» farfuglia Luca senza smettere di masticare.
«Ci devo credere? Devo chiamare, come si chiama quel punk-chic di Napoli?»
«Perché non dovresti crederci?»
«Ciccio vuoi che ti ricordi com’è andata con Psicologia del lavoro?»
Luca si alza da tavola, attraversa il salone come se fosse rincorso dai cannibali e va ad infilare le dita nel cappotto appeso ad una sedia in cucina: si accende la sigaretta, fa due tirate lì, un paio nel corridoio e poi viene a completare l’opera in salone, a tavola, sulla faccia di Giampaolo:
«Se ti riferisci ad Andrea, ti vorrei ricordare che è di Battipaglia e non di Napoli, ma evidentemente non sei molto attento quando i miei amici ti parlano.»
«Oh-oh-oh, come siamo suscettibili per una provincia sbagliata.»
«Non si tratta di una provincia o delle tue cazzate, è che mi girano e tu non te ne accorgi mai: pensi sempre che abbiamo tutti la tua calma piatta da zombie, ma noialtri siamo vivi, bello mio! Sai cosa vuol dire? Te lo ricordi?»
Luca ha quasi già finito la sigaretta, che divora fino all’arancione. Giampaolo avrebbe incenerito il tavolino, il salone e forse tutta la palazzina se solo Etienne avesse osato a. Ma Luca non è Etienne e riesce sempre a fargli scricchiolare qualcosa in fondo al petto e a strozzargli ogni parola in gola, finché questa non perde completamente il suo significato, il suo fuoco, e tiepida come l’acqua di un lavandino dimenticato attappato, esce fuori intrisa della calma della comprensione:
«Che c’è, Luchino
Luca spegne il mozzicone premendolo con forza nel vetro del posacenere; poi riattraversa il salone, ma con minore foga di quando i cannibali gli davano la caccia: va a svuotarne il contenuto nel comparto apposito del secchio a cassettoni che Giampaolo ha piazzato, con poche speranze di successo, nell’angolo della cucina. Forse per la prima volta da quando vive lì. Alleluia! Torna a tavola, beve mezzo bicchiere di vino:
«Quel coglione di Andrea… il punk-chic, come lo chiami tu, doveva comprare entro ieri i biglietti che io avevo prenotato… e non l’ha fatto.»
«E…?»
«E? Non ci arrivi da solo? E niente Berlino.»
Giampaolo istintivamente va a ricercare l’ora sul display spento dell’i-phone e si accorge che non solo ha già dovuto aspettare le undici e quaranta per cenare ma che adesso avrà davanti a sé solo cinque ore di sonno. E cinque ore di sonno sono sinonimo di frasi appuntite da parte di Conti, un assist alla sua indiscrezione, alla sua invadenza che travalica ogni limite fra datore di lavoro e dipendente.
Ma, lo stesso, decide di provarci.
«Be’, lo sai, Ciccio, io vado dai miei a Lucca: se vuoi e non hai niente da fare, possiamo partire il ventiquattro mattina, farci la vigilia lì e poi tirare a Firenze, visto che qualcuno ancora non c’è mai stato.»
«Non ci riesci mai a dire una cosa carina senza buttarla in competizione, eh?», Luca salta dalla sedia che pare stia bruciando, come bruciano le sue mani che riempiono l’aria di traiettorie impazzite. Giampaolo è colto di sorpresa. Per un attimo sta lì a guardarlo: in piedi, bello, perdutamente immaturo, permaloso e pieno di sé. Com’è diverso da Etienne, pensa. Etienne era un uomo e Luca è un bimbo. Questo pensa Giampaolo. Ma non sa che pensare quando, dietro le spalle di Luca che ha preso a puntargli il dito contro e a sbrodolare rancori che hanno abbondantemente sorpassato la loro data di scadenza naturale, il quadro di Marilyn sembra essere svanito. Non c’è più il suo sorriso disegnato dai puntini di Liechtenstein, né la vasca da bagno da dove la bionda diva controllava il salotto di casa. «Il quadro…?» sussurra Giampaolo accorgendosi in quello stesso momento che ha perso le ultime invettive di Luca e sapendo benissimo che questa dimostrazione di poca attenzione non farà che peggiorare le cose.
E infatti: «Cosa?»
«No, niente.»
«Ti sto parlando dei nostri problemi e tu mi chiedi del quadro.»
«L’hai tolto tu?»
«Sei proprio uno stronzo. Ma cosa me ne frega del tuo quadro del cazzo.»
Luca si gira su se stesso un paio di volte, dice che a Lucca e Firenze c’andasse per i cazzi suoi. Giampaolo sbuffa. E sbuffa perché in fondo sa che la notte sarà lunga e lui ha già sonno. E perché gli interessa davvero di più sapere che fine abbia fatto il quadro, piuttosto che attendere che Luca si calmi, si fumi le sue sigarette, prenda Paco sulle gambe accarezzandolo per ore, finché non sarà disposto a parlare di nuovo. Eppure, se Giampaolo ci pensa bene, ora attorno al tavolo ci sono solo due sedie. Erano quattro, solo un istante fa. Lo potrebbe giurare. Luca si allontana. Giampaolo lo guarda. Come sono finito con questo bambino? si chiede. E sorride, ma dentro, senza farsi accorgere, se no non basterebbero settimane.
Invece lo sa, Giampaolo. Lo sa come c’è finito. Per Etienne fare la pace era un rito, con Luca invece è una lenta scalata di un monte da cui però si vede la valle dell’Eden. E la notte è lunga, dolce come quella pelle, come le prime ore del mattino raggiunte con la stanchezza di un naufrago, ma con la testa svuotata, magazzino in saldo natalizio, di ogni preoccupazione. Neppure quella di Conti, il capufficio, che non lesinerà battute sulle sue occhiaie, e sui motivi delle sue occhiaie. Niente intacca la visione dell’Eden. E Giampaolo sa che un’altra scalata sta per iniziare.

Il mattino dopo Marilyn sorride come se non fosse successo niente. È sempre stata lì, comoda come Roy l’ha punteggiata. Una bellezza che il genere umano dimenticherà a fatica. Le sedie anche sono lì, al posto loro. Quattro. E tutto il resto riempie la casa come se non ci fosse mai stato il dubbio che il contrario potesse accadere.
Va bene aveva detto Luca, tra le lenzuola e tenendogli le palpebre aperte col suo desiderio. Va bene, andiamo dai tuoi. E poi a Firenze. Natale coi tuoi sarà meglio che maledire Andrea tutto il giorno per la storia di Berlino. E poi tua madre è svedese, per lei il mondo non ha preconcetti. Mica come la mia. Giampaolo lo ascoltava con gli occhi. Che non si staccavano dalla bocca di Luca. Su quelle labbra vedeva disegnato il piacere, e non si sarebbe mai stancato di ascoltarlo. Ma a ripensarci, a quelle parole, certo non alle labbra, né alle mani, né a tutto il resto di Luca, ma solo a quelle parole, al loro senso e a quello che di più dicono rispetto alla grammatica, alla fonetica, e cioè al loro tono, a Giampaolo sembra che qualcosa non torni. Andare con lui dai suoi, non dovrebbe solo essere un’anticchia meglio che non maledire quella testa vuota del punk-chic che s’è scordato di comprare i biglietti aerei e ha fatto scadere la prenotazione. Così Giampaolo decide che vale la pena, anche quella sera, di cenare alle undici passate per aspettare Luca. E i suoi orari da studente ghiro.
Dopo che la porta di casa si è aperta e richiusa. Dopo le fusa di Paco, la sigaretta là dove non dovrebbe, Giampaolo la butta lì:
«Insomma, sei ancora convinto per Lucca?»
«Certo, perché non dovrei?»
Luca lo guarda appena, sedendosi e ispezionando gli involtini che lo attendono da un’ora e mezza, sdraiati nel piatto.
«Non so, magari a letto si dice sì a tutto…»
«Così la pensi? Così pensi che io sia?» ora invece lo fissa, Luca.
«No, Ciccio, dicevo soltanto che…»
«Ho capito bene quello che dicevi, caro mio. Sappi che forse dici così perché pensi che io sia come te. Te sei così, non io. È chiaro?», Luca è in piedi, alto come tutto il palazzo, i capelli castani spettinati ma sempre in modo ordinato.
«È chiaro?»
Sì. È chiaro a Giampaolo che a Luca non va di andare e che pure questo scambio normale di vedute lo prende come un pretesto per alzare la voce e far capire al mondo intero che lui non ha legami. Né padroni. Mai. Ma Giampaolo gli dice filato filato quel che pensa. Domani lui parte, da solo o in compagnia non gli fa differenza. Non ha tempo né voglia di giocare. Luca a quelle parole sbatte tutte le porte che trova davanti ai suoi piedi, ruba un cuscino e una coperta da un armadio. Annuncia che dormirà sul divano. Etienne non si sarebbe mai ritirato da una lotta così in fretta, pensa Giampaolo. Forse perché, in fin dei conti, lui ed Etienne hanno sempre lottato vicini, dalla stessa parte.
Con Luca, invece, per un motivo o per l’altro, sono sempre rivali.

La casa era vuota. Non più il tappeto finto persiano comprato in saldo da Etienne in quel negozio perennemente in chiusura. Non il divano di pelle con la spalliera alta e la chaise longue che si litigavano fin quasi a mettersi le mani addosso, che con l’arrivo di Luca era stato ceduto all’egocentrismo distruttivo di Paco. Non il quadro di Marilyn che sorride nella vasca da bagno, in salone. Né il mobiletto di pezza colorato con dentro la collezione dei 45 giri di papà Gainsbourg. E neppure il tavolino trasparente dove con Etienne facevano colazione la domenica mattina, in terrazzo, ma che con Luca era diventato l’ennesimo sostegno di libri, vestiti smessi, cumuli di distrazione.
Forse stavolta Giampaolo è meno sorpreso. La casa era vuota, al suo ritorno da Lucca. Ma quasi se l’aspettava, in un certo senso che non sa capire. Sa che non sono stati i ladri, nessuno ti ruba veramente certe cose. È solo che ora, ricominciare da capo, arredare la propria serenità con quel che rimane: rincorrere il proprio equilibrio sugli scaffali che strabordano d’insoddisfazione, di sogni, che poi sono incubi che hanno solo il lieto fine. Luca aveva riempito di nuovo la sua quotidianità. E ora cosa rimaneva? Com’è possibile che siano sempre gli altri, e non noi, ad avere la capacità di colorare o stracciare il nostro disegno di futuro? Anche per voi è così?
Ricominciare tutto di nuovo, senza neppure i dischi di papà Gainsbourg. Questo è forse il supplizio maggiore, perché Giampaolo, se ci pensa, non si stupisce. Luca è un codardo. Sarà scappato con la coda tra le gambe, trascinandosi via tutto senza neppure voltarsi indietro per controllare che non si rompesse qualcosa. Che so, almeno il quadro di Marilyn.
A guardarle quelle mura così spoglie Giampaolo inizia a sentirsi un po’ perso. Si siede per terra. E dove potrebbe sedersi? Forse avrebbe dovuto cedere. Chiamarlo lui. Andargli incontro, d’altra parte ha dodici anni in più, qualcosa vorrà dire. In quei tre giorni dai suoi, poi, gli è mancato come non credeva sarebbe stato possibile. E forse ha avuto paura. Per questo non si è mosso. Ma non muoversi vuol dire perdere e ora, scomodo su quel pavimento, se ne rende conto. Un’altra volta.
«Ehi, non ti ho sentito rientrare. Allora? Com’è andata? Me l’hai salutata tua madre?»
Luca è comparso all’improvviso, senza fare nessun rumore, abbigliato come se uscisse da una baita di montagna. Eppure a Roma non fa freddo, mai.
«E tu dov’eri?»
Giampaolo, a vederselo, col suo sorriso di chi sono trascorsi appena cinque minuti e non tre giorni di tumulti interiori, a quel punto sì che è stupito.
«Chi s’è mosso? Quando tu eri via è venuto Roberto, un amico di Matera di passaggio a Roma. Stava coi suoi. Abbiamo passato il Natale insieme. Ma tu perché stai per terra?»
Giampaolo, al contrario di quanto avrebbe creduto, non si sente nessuna morsa allo stomaco: Luca ha smosso diavoli e campane per non andare dai suoi e poi trascorre il Natale con la famiglia di uno che lui non ha neanche mai sentito nominare. Ma niente. Lo stomaco è tranquillo. E sedie, divani, poltrone non ce ne sono. Eppure Luca è lì, davanti a lui. E gli si avvicina. Lo bacia prendendogli la testa fra le mani. Dice che ora deve uscire, Luca. Giampaolo gli verrebbe da chiedergli dove pensa di andare a sciare, a Montesacro? Ma è una battuta idiota, sembra la pubblicità di qualcosa che non ricorda più. Il fatto è che la situazione non lo diverte.
Lo rattrista, non sentire niente dentro.
«Mi aspetti qui?» chiede Luca spettinandosi col solito rigore.
«Sì, qui. Per terra.»
Luca ride. Giampaolo no. Luca non se ne accorge. Giampaolo ci avrebbe giurato. Per un attimo gli viene l’impulso di chiedere a Luca com’è possibile che possa aggirarsi per casa, senza vedere che il tappeto finto persiano, il divano con la chaise longue, il quadro, il tavolino, le tende. Come possa andarsene vestito da montagna, dentro quella casa che in quel momento è più desolante di una grotta. Ma la risposta già la sa. Allora non chiede. Perché ha dodici anni di più di Luca. E questo vuol dire qualcosa.
Luca saluta di nuovo.
Esce.
Giampaolo dopo alcuni minuti si alza.
Cammina per casa.
Si dà del tempo.
Per capire.
Per vedere se il problema non sia dei suoi occhi. Dei suoi sentimenti. Di una sua aridità. Ma non cambia niente. Quindi esce in terrazzo. È passato Natale da due giorni. Il ventisette è solo una lunga attesa di capodanno. Se solo ci pensa, al capodanno, gli viene da piangere. Si accorge solo ora di non aver ancora pianto. Giampaolo guarda dal terrazzo. La strada, l’inverno romano con le sue luci ovattate e le voci sparite, improvvisamente. Guarda dal terrazzo e gli sembra di vederlo: le spalle larghe, l’andatura lenta per via del ginocchio, i capelli ricci afro, lana morbida sulla quale sognare.
Etienne.
A capodanno, il primo gennaio per l’esattezza, saranno un anno e un mese che non si vedono e non si sentono più.

 

Questo articolo è stato pubblicato in numero 13. Bookmark the link permanente. Scrivi un commento o lascia un trackback: Trackback URL.

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