Le parole e il peso della cenere
di Ivano Porpora

‹‹Chiudi gli occhi›› mi dice Gabriele. ‹‹Chiudi gli occhi›› ripete. ‹‹Chi­udi gli occhi. Ora vai su. Ti sei calmato?››
‹‹Sì. Li posso riaprire?››
Lo sento ridere, dall’altra parte della cornetta. ‹‹Sì, riaprili. E vai.››
‹‹Tu come stai?››
‹‹Come vuoi che stia. Vai.››
‹‹Vado. Ciao.››
Riattacca. Riaprendo gli occhi ho avuto l’impressione di essere in una cabina pressurizzata in fondo al mare, anziché in una cabina della Sip all’angolo tra via Alpignano e via Ravetto. Tutti quei pesci, il cui nome non potrei riconoscere, a girarmi attorno e guardarmi, chiedersi se sia commestibile. Quanti sono i pesci che conosco?
Blanka mi aspetta sulla mia sedia, leggendo un libro di Danilo Kiš. ‹‹Ha un nome che sembra un bacio›› dice. Polifemo, il carlino che mi ha regalato mia sorella – cieco da un occhio, Polifemo: gira sempre in tondo – le russa vicino, appollaiato sulla pantofola destra. In casa c’è freddo: m’ha detto prima, al telefono, che non vuole spendere denaro ulteriore per mettere a posto la caldaia di un appartamento nel quale detesta vivere.
‹‹Toccava a te, la bolletta.››
‹‹È il principio›› mi ha detto, strascicando al solito sulla c.
La lancetta che dovrebbe stare sull’uno, più o meno, sta sullo zero. Mi immagino i termo collassati; mi immagino che gli stessi pensieri, miei o suoi o miei e suoi, si formino, ghiaccino, cadano a terra. Che il pendolo che abbiamo posizionato all’ingresso si fermi, magari in diagonale.
‹‹Sì, ma la casa è mia.››
‹‹È il principio.››
La segreteria lampeggia: dice sì, no, sì, no, sì.
‹‹Perché non hai risposto?››
‹‹È il porco che chiama ogni tanto. Prova a sentire.››
Schiaccio play: dall’altra parte una voce grugnisce, le dice che se l’immagina bionda, che le vorrebbe toccare il culo, poi altro.
Cancello. ‹‹Si è limitato, stavolta.››
‹‹Hmm…››. Ha una mano che tiene il libro, l’altra pizzica il ginoc­chio; il libro è sulle cosce, indossa una tuta felpata, d’un colore indici­bile, con la scritta a brillantini Hey Ci Sey? Il piede zoppo è nascosto sotto la sedia. Mi guarda; poi torna al libro; mi guarda. La saluto, le passo una mano attorno al collo, sorrido, la bacio.
‹‹Non credevo che tornavi›› mi dice. Il suo alito a un centimetro da me.
‹‹Sai che torno ogni volta.›› Il mio alito a un centimetro da lei.
‹‹Lo so. Ma stavolta credevo di no.›› Il suo alito, un centimetro da me. La bacio di nuovo. Le lingue a contatto, le labbra staccate. Profili in controluce, come in una cartolina trascolorata, piegata su se stessa tante volte che i bordi accennano a strapparsi. Saluti da Lamezia Terme. Chissà dov’è Lamezia Terme.
‹‹Dove sei stato?›› mi fa.
Penso al minimarket davanti al quale l’ho chiamata; prima ho chia­mato Gabriele, ho cercato un po’ di sostegno. ‹‹A cercare cibo›› dico; tolgo dallo zaino a spalla, lo stesso che usavo all’università e con cui oggi vado in Municipio, un tubetto di maionese, tre mele, un vaso di sottaceti, due hamburger precotti. Il conto, settemila duecento lire – 1999, bic su carta, collezione privata. Le verso un bicchiere d’acqua; si accorge che la sto guardando, si passa le mani fra i capelli mori, li mette in bocca, si gira altrove, mi guarda.
(come potrei non esistere mentre mi guarda come potrei rarefarmi in una prova d’alta magia disintegrarmi in quello sguardo e ricomparire solo in quelle pupille in musica che cola nera dalle sue orecchie in uno sparo frontale in un foglio di giornale aperto sull’oroscopo in una sedia rovesciata come potrei dissolvermi prosciugato in quello sguardo nero)
‹‹Cosa intendi?››
‹‹Non c’era più nulla da mangiare per te. Io ho preso un panino con la salsiccia.››
‹‹… Ti avevo preparato un paio di tramezzini col surimi.››
‹‹Mi fa cagare il surimi.››
‹‹E così ingrassi ancora, che poi ti devi mettere le bretelle… Vieni qua, Paolo. Hai la bocca sporca di grasso.›› Si prende con le dita la manica della felpa, mi pulisce così; quando provo a protestare dice ‹‹Tanto devo fare un’altra lavatrice prima di sera››.
Mi aspetta leggendo libri slavi in lingua, per non perderne l’uso; o guardando la tv. O, meglio, mi piacerebbe mi aspettasse: e invece sono io che parto, vado a bermi una birra o mangiare una salsiccia – c’è un locale giù all’angolo gestito da un romeno che si fa chiamare Davide, cucina benissimo le salsicce –, e quando mi son pulito la bocca dal grasso e dalla schiuma della birra torno a casa. A volte chiamo Gabri­ele, nel mezzo di una delle fasi (scendere-salsiccia da Davide-pulizia bocca-risalire). Per quel che può mi consola, o mi dice ‹‹Smettila con lei››. In ogni caso non lo ascolto; salgo. Quando apro la porta la trovo che si regge i capelli, l’elastico rosa in bocca; ascolta musica o cucina, male, per entrambi. Tramezzini, in particolare; troppo spesso al su­rimi. Telefona anche: si avvolge intorno al filo, così che il suo corpo si occulta dentro cavi neri già avvoltolati su se stessi che la girano e rigirano. La parola che le sento più spesso, ‹‹Dosta!››. Polifemo ringhia qualcosa o dorme. Un’attesa perpetua, continua; una sorta di tensione, come dopo un terremoto. La mia voce nelle orecchie; i suoi capelli sui miei vestiti, il mio odore fra le lenzuola, il suo. Sa che rientrerò, non fosse altro perché è casa mia. Sa che sto salendo: dalle ampie vetrate del locale riesce a vedere la strada senza esserne vista.
‹‹Ci sono tante auto›› mi ha detto l’altro giorno.
‹‹Sì.››
‹‹Hai pensato mai a quante auto ci sono in giro?››
‹‹No.››
‹‹Mio padre quando ero piccola mi faceva guardare giù dalla finestra della cucina, mi raccontava che le macchine, quando le lasci troppo tempo ferme, …passami la sciarpa…, vanno in giro da sole. Aspet­tano che tu ti addormenti e broom!, si mettono in moto e partono. Io mi immaginavo tutte queste auto per Vela Luka. Anche se abitavamo vicino alla casa di Nedo Farčić, che tornava a casa ogni tanto da Bel­grado; lui, tutte noi pensavamo che non si dormiva mai.››
‹‹Non dormiva.››
‹‹Eh?››
‹‹Non dormiva. Non Non si dormiva.››
‹‹Che palle, Paolo.››
Ci penso su un attimo; dico ‹‹Sarebbe bello. E invece si scarica la batteria››.
(la chiusura delle sue palpebre il sollevarsi delle sue ginocchia il rinnovarsi della sua pelle il suo corpo disteso e corazzato come il dorso d’una collina che avvolge una cittadina rannicchiata il suo respiro non limitato all’aria che digerisce ed espelle il respiro che le allarga il seno il chiudersi e aprirsi delle sue palpebre delle sue labbra)
Blanka senza braccia, quando infila la sola testa nel maglione e resta immersa così; il suo corpo pare un pesce senza squame, coltello senza lama. Il suo corpo zoppo: le hanno strappato tre unghie da un piede, una per ogni volta che ha provato a scappare. Dice che il suo capo si chiamava Drago. Un nome che è un manifesto programmatico. E al­lora sembra un corpo perfetto nel suo caracollare, dotato di seni che non sono suoi, incollati al petto e soffiati in vetro veneziano; piedi troppo lunghi, sproporzioni evidenti inchiodate all’evidenza da un naso aquilino. Poi si alza in piedi e scarica il peso sull’anca opposta: e il resto a me pare falsità.
Sorride. ‹‹Quante storie che mi raccontava mio padre. Aveva questa grande barba…››
‹‹Tuo padre diceva solo cazzate›› le dico. ‹‹Ci credo che hai fatto la fine che hai fatto.››
Si alza e se ne va. Sono un coglione. In parte ho ragione, ma sono un coglione. Sul tagliere c’è un bastoncino di surimi; l’allungo a Polif­emo che lo guarda con l’occhio buono, lo annusa, ci gira intorno, lo annusa di nuovo; lo lascia lì. L’ho conosciuta alla stazione. Caricata in macchina. Ha acceso l’autoradio, non è venuta. Mi ha piantato le dita nella schiena, così, forse più per abitudine. Mi sono innamorato del suo non avere unghie – come i pesci, del resto: i pesci, si sa, non hanno unghie. L’ho conosciuta alla stazione, ho pensato che avrebbe potuto essere mia dallo sguardo che m’ha lasciato a indagare addosso e ripetutamente, come fosse una mosca, quello sguardo, ad appender­si fastidioso ai punti dolenti del corpo. Come a cercare di capire se io, pesce del suo oceano, fossi lì per mangiarmela o per nuotare accanto a lei, o per avvolgerla e stringerla forte, e non mollarla più.
Quando l’ha vista, Polifemo ha abbaiato. Polifemo: questo è il nome che lei gli ha dato. Prima si chiamava Whiskey, con la e, all’irlandese, per via del colore. Ma al nome Whiskey non ha mai risposto. Quando lo chiamo Polifemo, scodinzola, almeno. È un passo avanti.
Si è chiusa in bagno. Metto le cuffie nello spinotto; ascolto Charles Trenet.
Ce soir le vent qui frappe à ma porte
me parle des amours mortes.
Mi viene da piangere: mamma ascoltava sempre Trenet, diceva che le ricordava i giorni belli, i giorni in cui la cenere ancora non aveva peso. Mi accendo una sigaretta; la cenere resta appesa appena alla carta, poi cade. Ha un suo peso anche lei.
Tutto ha un peso.
Que reste-t-il de nos amours
Que reste-t-il de ces beaux jours
Une photo, vieille photo
De ma jeunesse.
La porta del bagno è chiusa. L’acqua scorre inutile nel lavandi­no, sporco di qualche macchia di dentifricio sputato in fretta prima d’andare al lavoro; un tubetto schiacciato dal basso, in alto nello spec­chio riflessa la coda della sua immagine. Lei incollata alla porta. Lei che ascolta i rumori. Lei che non parla, non dice; come la cornice vuota che ha appeso accanto alla porta in attesa che troviamo foto di noi.
‹‹Esci. Non volevo offenderti.››
‹‹L’hai fatto.››
Dice una sola parola, Lhaifatto, lei che spesso non ha altro che le mani per parlare.
L’ho conosciuta alla stazione. Io indossavo un paletot nero foder­ato di un trapuntino giallo brillante, la macchina era quella che avevo prima, una Peugeot 206 con l’autoradio sempre infilata sotto il sedile del passeggero; lei, una camicia fucsia, una parrucca blu e una gonna stretta e corta. Il seno visibile; l’ombra delle due sfere ricadeva a sezi­onarne profondo il petto. Mi ha guardato, visto che la guardavo. È rimasta con il tacco del piede insano contro il muro, s’è accesa una sigaretta: inspirando tremava. S’è avvicinata zoppicando appena; pen­savo si fosse fatta male come si fa male la popolazione adulta, pren­dendo contro un umidificatore, o lo spigolo d’un comodino.
Roba che qualche ora e bestemmia dopo passa.
Quando Romolo l’ha vista m’ha detto ‹‹La conosco, è una putana. La putana zoppa››. Così, con una sola t. Putana. Non gli ho potuto dire niente: è una puttana, lo è davvero. Spero solo che non ci sia an­dato pure lui. È un porco che non si lava.
Sono un porco anche io.
(ti proteggerò. non avere paura. dove sarò io non sarà debolezza. non avere paura)
S’è accesa una sigaretta. Inspirando tremava. Inspirando taceva, es­pirando gettava nel mondo piccole scaglie di fumo, come se al suo interno avesse modellato una creatura croata di tabacco e vento e quel che ne usciva fossero trucioli e foglie. Anche i trucioli hanno un peso. Avrei voluto baciarla mentre fumava, sigarette leggere. Avrei voluto baciarla, non avrei voluto che prima di farlo masticasse chewing-gum alla fragola.
È salita in macchina. Indossava quella parrucca che non le ho visto più.
‹‹Quanto?››
‹‹Venti di bocca, cinquanta di figa.››
‹‹Va bene.››
Nel portafogli avevo cinquantasettemila e settecento lire, un rosario tascabile, un santino di Sant’Antonio che m’ha lasciato mia madre e che reputo opportuno inserire qui.

‹‹Non c’è l’autoradio?››
‹‹Aspetta.››
Mi sono avvicinato a lei; ha creduto altro, m’ha detto ‹‹Vacci pia­no, che qui è pieno di gente››. Quando ho estratto da sotto il sedile l’autoradio speravo sogghignasse, e no: ha guardato altrove, aspettato che la infilassi nel supporto; l’ha accesa.
Dopo ha pensato al modo più rapido per far venire me, salendo e scendendo sopra con colpi secchi e imprecisi; ‹‹Te ne vai?›› le ho detto quando mi ha detto dove farla scendere.
‹‹Sì.››
‹‹Sei qua domani?››
‹‹Sì.››
‹‹Venti di bocca, cinquanta di figa›› mi ha detto il giorno dopo, quan­do ho accostato. Ha finto di non ricordarsi di me – o forse davvero non si ricordava. E così il giorno dopo ancora, che sembrava la trom­ba di Rava, da tanto era triste: ‹‹Venti di bocca, cinquanta di figa››, con lo stesso ritmo di Que reste-t-il de nos amours. Ora la guardo cammin­are a piedi scalzi sul mio pavimento lasciando minuscole impronte di grasso e sudore, o meglio un’impronta e uno strisciare, un’impronta e uno strisciare; lascia tracce nel barattolo di nutella.
La figa, ora, è gratis. Gratis per me per la prima volta; per la prima volta pure per lei.
‹‹Ho sempre avuto un prezzo. Venti di bocca, cinquanta di figa.››
Io avrei voluto dirle anche io. Avrei voluto dirle che anche io ho sempre avuto un prezzo. Venti la bocca, cinquanta la figa.
L’ho portata a bere, poi. Nulla di più facile per provarci che andare in un locale dove si suona, si fuma, si beve. In un’osteria che stava alle spalle di piazza Castello, il padrone coi capelli grigi rasati e l’accento pugliese. Vi porto la lista, no grazie. E, sottovoce, U pan mocc a ci non ten l’dind. E io che ho pensato vorrei proteggerti, farti da scudo. Essere di completa protezione dai pensieri cattivi. Che l’uomo nero quando tornerà non ti trovi. Che l’uomo cattivo quando verrà si dimentichi di te.
Ci siamo diretti verso il fondo. Un bambino pakistano ha comincia­to a girare chiedendo soldi in cambio di fiori. Si è scambiato occhiate con un’altra ragazzina dalla faccia sporca di ditate. È venuto da me, m’ha guardato. Lei m’ha versato due dita di vino.
‹‹Compra un fiore per la bella signora›› m’ha detto.
‹‹Venti di bocca›› ho pensato.
‹‹Potrei amarti›› avrei voluto dirle – impreciso come poche volte nei miei discorsi. Perché sono consapevole che i miei sono discorsi corti, densi e precisi; nessun aggettivo fuori posto, nessuna parola che possa essere scambiata con nessun’altra. E invece in quel guardarla mi sono accorto che l’unica frase ch’avrei potuto dirle senza sentirmi idiota sarebbe stata ‹‹Potrei amarti››. Senza sentirmi minimamente idiota.
‹‹Compra un fiore per la bella signora.››
‹‹… Vuoi un fiore?››
‹‹Sì.››
Gliene ho preso uno, se l’è girato per guardarlo tra le dita; ha tolto un moscerino che si era appollaiato sullo stelo e non se ne andava. Quando ho sgusciato un pistacchio che ci hanno portato per ammaz­zare la fame ha fatto un sobbalzo.
‹‹Che c’è?››
‹‹Mi dà fastidio.››
Ne ho sgusciato un altro – mi piacciono, i pistacchi.
‹‹Puoi… smetterla?››
‹‹La smetto.››
‹‹Butta via quei gusci. Subito.›› Quando ho fatto per prenderli si è girata; ha aspettato che tornassi. Era scossa.
E mentre per recuperare in qualche modo le stavo per parlare di cose, mentre le ho guardato quel minuscolo ricciolo che le scende tut­tora dall’orecchio come in un film muto, mentre ho pensato ‹‹potrei amarti›› senza sentirmi minimamente idiota è partita la musica. Jazz: polvere, pulviscolo dissolto nel locale.
‹‹Sono una cagna›› m’ha detto.
‹‹Sì.›› Le ho sistemato il fiore; le è caduto nel piatto. ‹‹Vuoi ballare?›› le ho detto.
‹‹Non posso. Mi fa… Il piede.››
‹‹Non c’è problema›› le ho detto. ‹‹Balleremo seduti.››
‹‹No.››
Ho preso la sedia, l’ho accostata alla sua, le ho preso la mano. Era difficile per colpa dei braccioli, troppo alti – ci credo che l’osteria ha chiuso. Ma abbiamo ballato.
Poi abbiamo mangiato, quasi in silenzio, e io tenevo gli occhi bassi.
Quando ho alzato lo sguardo Blanka era a casa mia, nel mio letto, l’alzarsi e scendere del suo torace mentre dormiva anorgasmico e len­to.
Ho preso dal secondo cassetto del comodino il taccuino su cui ave­vo scritto COSE FATTE NELLA VITA.
C’era una lista di sei punti (ora sono nove). Ho aggiunto:
Fumare mentre qualcuno dorme accanto a te. (Quando parlo con me stes­so mi do sempre del tu). Le ho sfilato dalla borsa il pacchetto di si­garette, ne ho presa una; mi son messo a guardare, seduto sul letto, il mio riflesso nel vetro. Il perfetto impiegato comunale: un naso che s’incunea, niente barba, le labbra troppo carnose, le guance scavate che mi fanno sembrare più un portiere di serie B che una persona che riesca ad indicare una qualsiasi via. Avevo bisogno di comprare da mangiare.
La mattina (la segreteria telefonica ancora non c’era) mi ha tele­fonato un amico. Credeva fossi partito per Roma, così come gli avevo detto. ‹‹Mi avevi detto che saresti andato a Roma.››
‹‹Ho mai mantenuto una promessa?››
Sapere che mi ero imbarcato con una puttana l’ha imbestialito. Ha detto ‹‹Questa è una delle tue solite stronzate››, detto ‹‹Ci sarà un gior­no in cui non ti seguirò››; chiuso il telefono con rabbia.
Ho pensato che non fosse il giusto momento per chiuderlo in una scatola di ricordi. Ho pensato che forse aveva ragione, ma non per questo stava dicendo la cosa giusta. Ho pensato che Blanka poteva aver fame, che le avrebbe probabilmente fatto piacere bere spremuta d’arancia, mangiare un toast al prosciutto, sedersi sul letto nuda ancora a parlare con me. Quando mi sono girato l’ho invece trovata sveglia.
‹‹Vorrei un toast al prosciutto›› mi ha detto. ‹‹Nei telefilm americani mangiano sempre i toast al prosciutto.››
‹‹Vuoi crudo o cotto?››
‹‹Non lo so. Basta che è prosciutto.››
‹‹Sia.››
‹‹Eh?››
‹‹Basta che sia prosciutto. Non è.››
‹‹Che palle.››
Siamo andati in cucina; mi ha spiegato come voleva la sottiletta – a metà, in modo che non coli nel tostapane –, come voleva il prosciutto – a contatto delle due fette di pane, secondo lo schema logico pan carré, prosciutto, sottiletta, prosciutto, pan carré.
Quando mi sono girato l’ho trovata intenta a guardarmi. Occhi sgra­nati, sguardo affamato.
‹‹Il permesso di soggiorno, ce l’hai?›› le ho detto.
‹‹Sshht. Me ne sto occupando.››
‹‹Vuoi che ci pensi io?››
‹‹Me ne sto già occupando.››
Una sera si è spostata da me, è salita con un trolley con la ruota rotta, e un quadro; ha detto che voleva portare gli altri, ma che dovevo andarli a prendere io. ‹‹Sono grandi.››
Era quasi irriconoscibile, con quegli abiti neutri. ‹‹E i documenti?›› le ho chiesto.
‹‹I documenti sono a posto: ci ha pensato la mia sorella. Puoi andare a prendere le valigie nel taxi?››
‹‹La smetti anche col lavoro?›› le ho chiesto.
‹‹Aspetta. Ci tengo all’altro piede.››
‹‹E Drago?››
‹‹Drago non è più un problema. Puoi andare al taxi?››
‹‹… Va bene.››
Quando sono risalito – ventiduemila e ottocento lire – ha rotto la carta marrone che proteggeva la tela; mi ha chiesto un Martini.
‹‹Mi piace come dipingi›› le ho detto.
Lei non si è girata nemmeno. Ha sorriso e basta. ‹‹Tu impari dagli errori, Paolo?››
Ci ho pensato. ‹‹Mai.››
‹‹Neanche io.››
I corpi mezzi nudi di donne avvolte. Donne ricercate. Donne in­filate in colli di bottiglia da cui seni escono fuori straniti. Donne senza volto, donne senza testa, lacerate, contuse da sessi maschili induriti. Ha sorriso e basta.
‹‹Che t’hanno fatto?›› le ho detto di nuovo.
Ha sorriso e basta.
‹‹Ti piacciono davvero?›› mi ha chiesto poco dopo.
‹‹Sì.›› Non è vero: non li trovavo belli, né belli li trovo ora. Interes­santi sì, ma io di pittura non me ne intendo. Solo che ho capito che aveva bisogno di un sì. Ci sono volte che tra la verità e una bugia bi­sogna preferire il peso della cenere.
‹‹Mi hanno appena offerto di mostrare i miei quadri in giro.››
‹‹Chi, un cliente?›› ho chiesto soprappensiero. Mi ha guardato male, poi, grazie al cielo, ha sorriso. ‹‹No. Uno che pensa che faccio le puli­zie solo perché una volta avevo i guanti di gomma sotto casa mia. Mi ha detto che ho un grande talento pur facendo la colf. Io ho pensato così per un sacco di tempo che la colf era la puttana, e a chi me lo chiedeva dicevo che facevo la colf. Cos’è la colf?››
Sì, certo che sì, ha detto; sa che sarebbe anche un mio sogno dipin­gere e scrivere e unire le due cose, mi prende in giro, ancora avvinaz­zata e un po’ stanca. ‹‹Tu sei buono per fare le carte di identità. Si vede che ci hai quel tipo di cervello.››
‹‹Hai.››
‹‹Eh?››
‹‹Hai. Non ci hai.››
‹‹Che palle…›› Poi: ‹‹Aveva anche una tremenda puzza di pipì, quell’uomo, che sembrava di essere nei bagni dell’autogrill. Ho avuto paura di dovergli fare un pompino. Quando mi ha detto arrivederci ho fatto un sospiro di sollievo…››

La segreteria lampeggia. La solita voce dice ‹‹Sono nudo. Ce l’ho duro come il marmo, cazzo. Come un sasso. Ho una roba che non ti sogni››.
‹‹Ha detto che ce l’ha duro come il marmo›› ho detto mezz’ora dopo a Gabriele, passeggiando per i portici di via Pietro Micca (le orecchie, pezzi di alluminio ghiacciati). Chi era Pietro Micca?
‹‹Si è sforzato con l’immaginazione.››
‹‹E tu che avresti detto?››
‹‹Che ne so. Non sono capace di fare telefonate porno.››
‹‹Non dirmi che non hai mai fatto telefonate porno.››
‹‹Io no. Tu sì?››
‹‹…››
‹‹Sei un porco.››
‹‹Lo so.››
Abbiamo continuato a camminare; saltato un piccolo gradino, at­traversato la strada, guardato una vetrina. Ogni tanto mi spiega come i portici di Bologna siano i più estesi del mondo, mi parla di chilometri, mi porge una Prinz comprata a tremila lire in un bar poco lontano. Dobbiamo evitare un uomo steso sull’asfalto – gli potrei segnare la sagoma col gesso intorno: qualcuno si avvicina, dice ‹‹Ha avuto un malore, chiamate qualcuno››. Noi passiamo oltre; Gabriele continua a parlare. Io manco lo ascolto; penso al mio sogno, al collo di bot­tiglia da cui sbuca un cespuglio folto di peli, o un seno. Del resto ce lo siamo già detti ridendo, io e Gabriele, che abbiamo il grande pregio di non ascoltarci. Camminiamo parlando, nessuno segue l’altro. Un pregio che l’umanità intera dovrebbe riscoprire.
Quando parla gli vedo uscire dalla bocca un fumetto bianco nel quale sbucano parole in codici fiscali. Che freddo. Chi è Pietro Micca?
Gli ho parlato di lei. L’ho fatto in maniera trasversale. Gli ho detto d’incontri che avrei fatto senza spiegargli dove, gli ho detto d’una donna senza dirne il nome; ho taciuto, nel caso si trattasse di tacere. Gli ho detto dei tramezzini: di quelli sì.
‹‹Adesso cosa c’entra il surimi?›› mi ha chiesto a un tratto; ma pen­so abbia capito. Me l’auguro. Spero soprattutto abbia capito come io pensi d’amarla nonostante la conosca pochissimo; spero abbia capito cosa significa per me tornare e bussare alla porta del bagno, sentirne dietro la porta il respiro, sentirne le vibrazioni di paura all’idea che io m’allontani.
‹‹Mi piace come dipingi›› le ho detto. Non è completamente vero: ma quando ami una persona non le devi dire necessariamente la veri­tà. Amare una persona significa per me darle un po’ di solidarietà, che ne so, un po’ di fiducia. A volte, semplicemente, starla ad ascoltare mentre parla d’altro. Quando fa un errore di grammatica Blanka, io non la correggo – o provo a non farlo più.
Questo per me è amore. Pensavo intanto a come sarebbe stato piacevole esserle dentro, dentro come una mano in un guanto o in una marionetta, farle da nuove ossa – a volte sottili come ossi di pollo che se ti s’infilano in gola ti possono uccidere, a volte spesse come femori –, infilato in quel corpo: toccando la pelle da dentro. Pen­savo a come sarebbe stato piacevole osservare da dentro i movimenti di fuori, esserne il centro reciso. Lei intanto avvinazzata dall’idea di poter esporre le sue opere; colpita dall’idea che prima girava come una puttana fra le stazioni con rossetti da poter sbavare, che ora può concedersi il lusso di temere il mio ritorno ritardato.
‹‹Ci sarà un giorno che lo chiamo e glielo dico. Drago, vaffanculo!›› mi ha detto una notte. ‹‹Giuro che ci sarà.››
‹‹Guarda!›› mi ha detto qualche giorno dopo, pagliaccio che ride. Il rossetto allargato.
‹‹Guarda!››, e piangeva – il mascara che le colava dagli occhi alla bocca.
‹‹Guarda, Paolo! Venti di bocca e cinquanta di figa!››
Io pensavo a quello che m’aveva detto e che non posso qui ripor­tare, perché le parole sono come la cenere e hanno un peso. Pensavo che come ogni pagliaccio non faceva ridere; pensavo che faceva tutto meno che ridere.

***

Il mio sogno sarebbe stato volare. Un giorno. Lo dico tuttora che giro con un orribile paletot blu foderato di giallo, ora che in ufficio parlo con un vecchio di settantaquattro anni che si deve rifare la carta d’identità perché, dice, un nàpuli gli ha rubato il portafogli. Lo dico ora che Blanka di là sta preparando tramezzini con tonno e uova sode.
L’unica cosa che del resto sia capace di cucinare: toast e tramezzini. Ci mette anche un po’ di maionese; quando apre il pane, sistematica­mente, Polifemo le si avvicina (a volte prende contro una gamba della sedia) e abbaia. Adora la maionese, Polifemo, e lo capisco. Non ci sta affatto male.
Si è offerta di pagarmi un viaggio con Gabriele. Ha detto che po­tremmo andare in sidecar in giro. Che le piacerebbe le scrivessi almeno una cartolina al giorno: almeno una. Da Lamezia Terme, Follonica, Igea Marina, Lido di Camaiore, Sarajevo. Che le dedicassi un solo pensiero in una giornata. Che le rivelassi una breccia del mio mondo con Gabriele in una giornata.
Lui purtroppo ha da fare: sua madre si è appena suicidata. Temo che per qualche tempo non riuscirà a trovare tempo a sufficienza per me.
Blanka di là ancora, comunque. Sta preparando tramezzini con ton­no, maionese e uova sode. Di nascosto ci mette il surimi, sperando che io non me ne accorga. Canta sufficientemente intonata una can­zone di Sanremo, la radio accesa; quando l’ho conosciuta m’ha detto che non reggeva la stupidità dei dj, il loro interrompere le canzoni durante le canzoni.
Ora canta Tu credi ma non sai che sia la tua ragazza sempre. E mentre lo fa io penso che le carte d’identità, forse, sono il mio mondo.
Penso che sto male, d’un male cane, che mi morde in fondo all’anima. Penso che avrei dovuto salvarla da Drago, all’epoca, o almeno dire Te li do io, i milioni del riscatto.
Che sto bene. Che, in fin dei conti, sto bene.
Che voglio bene a una donna che fa la puttana zoppa, e che il suo corpo è un corpo nudo in piscina la notte. Qualunque cosa ciò voglia dire. Qualunque cosa quel che ho detto voglia dire.
La guardo. Fa finta di non accorgersi di me, i suoi occhi pianeti pi­eni quando mi fissa. Vorrei brindare a lei, l’ho fatto con lui. Chiasmi temporali in ciò che faccio. Parole discutibili, quelle che dico.
Blanka avida. A chiudere gli occhi son capaci tutti. Il suo chiudere gli occhi e annusare nervosa i miei odori; il suo splendere lenta, una stella che sa quando è il momento di esplodere.
Alla fine sono andato con lei, in viaggio. Abbiamo affittato due bici­clette e fatto cinquanta chilometri di strada al giorno – il male che mi faceva il culo, io lo so; lei si è abituata ogni volta a scendere dal por­tiere e chiedere tre pezzi di pane, a comprare la cartolina quotidiana da inviare a un Gabriele che non sono abituato a vedere disarcionato, a strusciare il suo tiepido pelo sul mio sedere ogni volta che desid­erava farmi venire dentro di sé.
(‹‹Tu non verrai.››
‹‹No.››
‹‹Vorrei venissi.››
‹‹Smettila.››)
Quello che ho raccontato fino ad ora. Dovuto sinceramente a una sola serata. A un solo albergo a tre stelle, le nostre biciclette incatenate insieme nel parcheggio, stai attenta che i raggi non si scontrino, come fanno i raggi a scontrarsi, tu stai attenta, luci scure ovunque, solo fari come occhi aperti a tracciare scie quasi silenziose nello specchio. Quasi silenzio. E lei che parla. Lei che mi dice sei il mio quadro senza colori e senza forme. Non sei il mio quadro perché prima dei pennelli. Sei il mio quadro senza luci e prospettive, orme e paesaggi. Non sei il mio quadro perché non hai una firma. Sei il mio quadro perché sei mezzo vivo e mezzo morto. Non sei il mio quadro perché l’unica cosa che non ho mai capito come dipingere.
Io non le ho detto niente. Ho solo guardato lo specchio, a sinistra della camera, vicino alla finestra. Specchio che riflette qualche luce qui e là, sbavature notturne, qualche luce lunare. Mi sono addormentato alcuni minuti dopo. Quasi silenzio, tutt’intorno.
Quando mi sono svegliato lei non c’era. Sono andato in sala e ho visto, nel buio, una bambina. E poi lei, seduta. E in piedi davanti al frigo una ragazza che le somigliava, solo più giovane; e ai suoi piedi, a rovistare nello scomparto del congelatore in cerca d’un gelato, lei adolescente. E poi altre e altre lei, venti di ogni età, fino a una lei nel box, ancora innocente. Leggera: proprio leggera, ancora. Io mi sono guardato allo specchio a tutta parete, e avevo un naso che s’incunea, un principio di barba, le labbra troppo carnose, le guance scavate che mi fanno sembrare più un portiere di serie B che una persona che ri­esca a indicare una qualsiasi via.
‹‹Ti va di andare a dormire?›› mi ha detto lei, guardandomi. Le altre si sono girate a osservarmi.
‹‹Tu vieni con me?››
‹‹Sì, Paolo. Dammi una mano.›› Gliel’ho allungata, piano. Cercando di essere leggero anche io.

Bonheur fané, cheveux au vent
Baisers volés, rêves mouvants
Que reste-t-il de tout cela
Dites-le-moi

Un petit village, un vieux clocher
Un paysage si bien caché
Et dans un nuage le cher visage
De mon passé.

 

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