Una storia di amore
di Enrico Piscitelli

Le città viste dall’alto/ mi ricordano i viaggi nello spazio/ l’attimo in cui/ le macchine i palazzi/ le nostre giustificazioni/ cessano di essere quello che sono/ e diventano macchie/ e poi punti/ e poi niente/ assolutamente niente.
[“Vedute dallo spazio”, in Stanze, Massimo Volume]All’improvviso comprare avere possedere due girasole era diventata, per me, questione della massima importanza. Trovare un fioraio, trovarlo aperto, trovarci dentro due girasole – che fossero girasole e non margherite giganti o gerbere o calendule – acquistarli, era, sì – all’improvviso – il mio principale motivo di vita.
È che l’uomo vergine è decisamente pignolo. E preciso. Quindi girasole: assolutamente. Questo perché, giorni prima – quattordici per l’esattezza – mentre lei [donna bilancia] aspettava solo che io la baciassi, io non l’avevo affatto baciata e le avevo, invece, detto: Hai presente la merda di una mucca radioattiva, in un campo di girasole? Hai presente?
E, vista una strana espressione acquatica nel suo sguardo, avevo aggiunto: No? Allora mettiamola così: io sono il campo di rovi e tu il campo di girasole; non possiamo nemmeno confinare. I rovi s’insinuerebbero dentro i petali gialli e così e colà.
A quel punto, messo il giubbotto, ero uscito da lì, da casa sua – un monolocale grande soppalcato, con angolo cucina, bagno senza bidet e stanzino armadio-studiolo e letto matrimoniale a occupare per intero il soppalco, con ovunque stampe di girasole (la tovaglia, un quadretto appeso alla parete ecc.), calamite a forma di girasole (ancora…) e di cuori e di topi, e un arazzo brutto e di cotone con la riproduzione del Bacio di Gustav Klimt – ero uscito di lì, da casa sua, senza voltarmi. Ciao, solo dissi, so che hai capito.
Perché l’uomo vergine è indipendente. Ha un grosso desiderio di essere dominato, ma io son anche ascendente leone, per cui vivo un grosso conflitto – ché il leone vuole il predominio sul mondo intero.
Ora: io, tutto questo, lo so da allora. Perché una delle poche cose che le lasciai dire, quel giorno di rovi e di spine, fu che a lei piaceva, tanto, l’astrologia. E dopo aver fatto quel discorso sulla mucca radioattiva e le gigantesche feci della stessa [mucca], cominciai a documentarmi: la vergine, l’ariete, il sagittario e i pesci e i gemelli. E il toro. Ma – soprattutto – la bilancia. La bilancia ch’è bella e tiene alle apparenze e non ti darebbe mai un bacio in pubblico, a meno di non esser certa di farlo in un modo perfetto. La donna bilancia che cammina mettendo un piede avanti all’altro, come una femmina vera, e non come quel maschiaccio della cancro.
Ed era a tutto questo che pensavo, mentre giravo per il paese nel tentativo di entrare in possesso di una coppia – già: una coppia– di girasole: allo zodiaco tutto, e all’uomo – io – vergine e alle affinità con le donne di altri astri e pianeti – con inclinazioni simili o difformi dallo standard astrologico, e da catalogare per segno e ascendenti – ma soprattutto all’affinità con la donna bilancia, che non è granché, e sui tomi d’astrologia ci sta proprio scritto, che è una coppia improbabile, che non son fatti per stare insieme.interno giorno. bagno.Lei sta facendo la doccia. Io entro. Faccia [di lei] sorpresa. Tenta un urlo. Ha i capelli corti, molto corti. Bionda. Seni enormi. Le metto una mano sulla bocca. La giro. I movimenti bruschi fanno cadere i flaconi di detergente vario, che erano poggiati in cima al box-doccia. Tolgo la mano dalla sua bocca. Il vapore appanna la stanza. Si vede il mio culo che urta il vetro, a tratti, mentre si muove a strattoni.

L’uomo vergine, del resto, tende a lamentarsi – sempre e comunque – di un’infanzia senz’affetti, e questo è il motivo per cui s’isola spesso, dal mondo, e passeggia – odioso – per la città, ostentando una faccia severa e di rimprovero verso i costumi molli e sciatti di chiunque altro non sia l’uomo vergine stesso. Un lungo serpente costrittore che si morde la coda, insomma: niente affetto, faccia come il culo, ancor meno affetto.
E così, dopo alcuni giorni – sei giorni, per esser precisi – a passeggiare su e giù, a guardar tutti male, mi era cresciuta e montata questa convinzione di aver sbagliato tutto, di essere, in realtà, io stesso un girasole, un pochino intirizzito dall’inverno, coi petali un po’ scesi, ma pur sempre girasole e non rovo. E glielo dissi. Di nuovo nel monolocale grande e soppalcato, pieno di questi piccoli magneti attaccati su tutto il metallo esistente e dotato della giusta carica elettrica, travi [incrociate] in ferro del soppalco comprese – le stesse calamite dell’altra volta: dei cuori, grandi, piccoli, infranti; due topi che si tengono per mano, e girasole, girasole ovunque.
E funzionò, per quei minuti. Prima io ritrattai tutto: tutto quello che riguardava le mucche radioattive e i rovi e i campi confinanti. Poi ci fu un bacio lungo e bello, mentre le accarezzavo la schiena, attento a non far scivolare le mie mani in luoghi che non fossero puri e giusti e perfetti.
Lei rise, e fece una cosa bella e strana: mi toccò la fronte e il naso e la bocca, lentamente, coi palmi delle mani. Poi disse: per ricordarti, per ricordarmi di te.
Ecco, devo dir la verità: io fraintesi quelle parole. Avevo creduto di poter tradurre: voglio assicurarmi una mappa mentale del tuo viso per quei pochi momenti in cui non saremo insieme; per le notti che passerò da sola, senza di te, nel mio letto sul soppalco con le travi di ferro, per stringere il cuscino tra i polpastrelli e sognare che sei con me. O qualcosa del genere.
Invece andò che uscimmo da casa sua e, a un certo punto, dovemmo prendere due strade diverse, e lei disse: aspetta. E prese un foglio e una penna e scrisse qualcosa, veloce. Poi disse anche: aspetta a leggere, aspetta che io sia andata via. E anche lì – devo dir, di nuovo, la verità – io fraintesi, ancora. Ché ero convinto che su quel foglio ci fosse scritto qualcosa di terribilmente bello, qualcosa che avesse come destino il lenire la sua assenza, momentanea.

interno giorno. studio.

Sono seduto s’una poltrona di pelle nera anni cinquanta, senza schienale.

Intervistatore: Cosa ne pensi della letteratura contemporanea italiana.

Io: Cosa penso io della letteratura italiana, contemporanea?

Muovo lentamente la zip. Un movimento unico continuo lento e duro. Entrano in campo il tecnico delle luci e l’operatore della videocamera. Sono già nude, ed eccitate. I loro corpi sono asimmetrici: il tecnico delle luci è bassa, coi capelli crespi, i fianchi larghi e il seno piccolo; il cameraman, invece, è perfettamente proporzionata. Ha i capelli lisci e lunghi. Si dirigono lentamente verso di me. Si mettono in fila. L’intervistatore rimane seduto. Lentamente, si sbottona i pantaloni.

E così aspettai sul serio, a leggere quel che c’era scritto su quel foglio. Testualmente: avevi ragione tu, un girasole e un rovo non possono che stare lontani. Lontani, sì. C’era scritto proprio lontani.
Ed ecco il motivo per cui, quel pomeriggio d’inverno, otto giorni esatti dopo aver letto che avevo ragione, che un rovo e un girasole non possono essere attigui, dopo aver sentito le sue mani che disegnavano il mio viso, punto per punto, tridimensionalmente; otto giorni esatti dopo tutto questo, possedere avere detenere una coppia di girasole era divenuto, per me, motivo di vita.
L’unica soluzione possibile, l’unico modo per fare a meno delle parole, per esser creduto. La donna bilancia presta grande attenzione a gesti formali e puramente estetici: questo è quanto ho imparato negli otto giorni in cui ho studiato astrologia. La donna bilancia è indipendente e forte, e scopa male, perché non le interessa il sudore del coito, ma il disegno che i corpi compongono mischiandosi fra loro. Se c’è uno specchio, la donna bilancia sospende l’amplesso e si guarda riflessa e s’aggiusta i capelli, legandoli o sciogliendoli, a seconda dei casi e delle posizioni.
Io, al fioraio, dissi soltanto: È questione di vita o di morte. E anche: Questo mazzo di fiori è importante. Scegliemmo insieme i due girasole più belli, e cinque tulipani bianchi, per creare la forma perfetta, e la carta forata – gialla – per avvolgere il tutto. Non glielo dissi, al fioraio, che quello era il primo mazzo di fiori della mia vita – non avrebbe capito, o lo aveva già capito.
Era buio ed era un giorno freddo di febbraio. Avevo questi fiori – due girasole e cinque tulipani bianchi, e quelle incomprensibili foglie decorative che lui, il fioraio, aveva voluto necessariamente aggiungere – questi fiori avvolti da questa strana (e brutta, a onor del vero) plastica forata gialla, ed ero sotto casa sua. Aspettavo. Al buio e al freddo, e ogni volta che vedevo avvicinarsi una figura umana, immaginavo credevo speravo potesse essere lei. Per accorgermi, ogni singola volta, che l’incedere no, non era quello giusto, non poteva essere l’incedere di una donna bilancia.
E passò un’ora; e in tutto quel tempo continuavo a passarmi da una mano all’altra il mazzo di fiori, incartato in questa strana cosa forata gialla e rivolto verso il basso, ché così si tengono i mazzi di fiori, tentando di scaldarmi le mani, a turno, nelle tasche del giubbotto – lo stesso giubbotto che mi ero messo per fuggire via dal monolocale grande soppalcato quindici giorni prima.
Ero fuori dal quel cazzo di monolocale grande soppalcato e tutto quello che desideravo era entrarci, per poter mettere le mani sotto l’acqua, bollente, e stare al caldo. Almeno un po’.

esterno notte. strada.

Lei ha un vestito a fiori e le autoreggenti. E basta. Camminiamo, mentre io le tocco il culo nudo, insistentemente. Tutti si fermano e ci guardano, e ci seguono. Lei guarda me e si morde il labbro inferiore. Cominciamo: dice.

Ha un culo perfetto, penso, quando le alzo il vestito. Una piccola folla si raduna intorno a noi. La metto in ginocchio, con le mani contro l’asfalto, mentre la piccola folla si fa più numerosa, e rumorosa. Tutti battono le mani, e urlano, a tempo.

Alla fine – sì – arrivò. Almeno, credo. Perché io, il mazzo di erba strana e papaveri e girasole, lo lasciai lì, per terra. E non ne seppi mai più nulla: di fiori, e calamite, e della donna bilancia.

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