Le pale del ventilatore
di Flavio Stroppini

– Non é vero che assomiglio a mia madre. Essere bambino significa che tutti, dai tratti del tuo viso, cercano di ricondurti ai genitori. Non sono più bambino, ho la cassa toracica che mi fa male, è perché sto crescendo e le costole si allungano. E non assomiglio a nessuno. Non è una cosa insolita, sono semplicemente io.

I tre amici di mio padre mi hanno guardato come se avessi parlato un’altra lingua, ma a loro che importava? Entro dieci minuti mi avrebbero classificato in qualche categoria tipo “figlio stizzoso di amico”, “ragazzo turbato in cerca di identità” o “noioso moccioso”.

Mica sono un compagno da champagne e caviale io. Per loro il mio compito è sorridere.

–  Vai a giocare – ha detto mio padre.

Così li ho lasciati e sono sceso per le scale della casa affittata in riva al mare e ora sono sulla spiaggia. E non c’è nessuno, perché la situazione metereologica è instabile. Così chiamano alla televisione il tempo che bisticcia. Mi dirigo verso la barca a remi, l’ha dimenticata qualche pescatore una decina di anni fa. Andrea Doria l’ha chiamata papà. E tutti giù a ridere quando lo racconta.

 

– È il nome di una barca affondata – mi ha spiegato una volta.

– Che tipo di barca?

– Una barca grande.

– Un transatlantico, un panfilo, un galeone? – gli ho domandato.

– Sì, grande così.

– Ma quale dei tre: transatlantico, galeone o panfilo?

– Una carretta dei mari, visto la fine che ha fatto.

 

Così io non ho avuto la risposta e lui ha potuto ridere di una sua battuta. Io mica le capisco le sue battute, mi irritano, sento come una pala di ventilatore che mi gira nello stomaco.

 

La barca è là, ad una decina di metri dal bagnasciuga, con il legno marcio. Il cielo è grande e grigio e rimangono moltissime probabilità che resti così per qualche giorno.

Sono annoiato. Sollevo le braccia e sbadiglio. Inizia pure a piovere.

 

Strane vacanze queste. Lo scorso anno c’erano i marciapiedi bollenti e coni gelato, qualcuno diceva che era l’anno migliore che si ricordava, con tutte le adolescenti in bikini e la storia del tizio evaso di prigione con un’ automobile di marca americana che si chiamava come un presidente. L’avevo vista alla televisione e c’era il sole che batteva sui pneumatici nuovi.

 

C’è qualcosa che galleggiando si dirige a riva. Sarà un pezzo di legno, un tronco sembra. Forse questa mattina un fulmine ha abbattuto un albero che é cascato in mare ed è arrivato qua. Non è una grande avventura, ma meglio che la pioggia. Così mi avvicino, mentre si avvicina anche il tronco.

 

– Cazzo – esclamo, e non dovrei bestemmiare.

 

Non è un tronco, è un uomo. Scuro di pelle. Mi hanno detto che non si dice “nero” e nemmeno “negro”, perché è offensivo, è razzista, mi hanno detto che si dice “di colore”.

 

– Ma noi siamo bianchi? – ho domandato.

– Noi siamo caucasici – mi hanno risposto.

– Russi allora?

– Qualcosa del genere.

– Allora siamo comunisti – ho detto.

 

Poi mi hanno zittito.

 

Una volta con la scuola ho partecipato ad un convegno contro il razzismo. Ma se uno è razzista mica ci va ad un convegno contro il razzismo, andrà ad uno a favore. Non ho ben capito a cosa serva. Hanno parlato in molti e tutti hanno sempre applaudito. Alla sera alla televisione non hanno mostrato nulla. Papà mi aveva detto che era un piccolo evento, in scala provinciale. Quando gli ho chiesto se fosse meno importante di altri eventi mi ha risposto che quelli in scala nazionale o mondiale sono più importanti. Allora gli ho chiesto perché ci sono andato, perché non mi hanno portato ad un evento in scala mondiale. Lui ha riso, ma non mi ha risposto.

 

Comunque adesso, sulla spiaggia, con le onde che salgono e scendono, non c’è un tronco ma un uomo. Per evitare di fare pasticci tra nero, negro, bianco, giallo, caucasico, comunista, ebreo ho deciso che chiamerò tutti semplicemente uomini.

Ha la schiena muscolosa. Capelli tagliati corti. Forse dovrei girarlo, così beve acqua. È che non tossisce. E la gamba sinistra resta in posizione innaturale.

 

– Papà – urlo.

 

Poi urlo di nuovo. E ancora. Non so nemmeno cosa urlo, se parole o solo suoni, ma funziona. Papà ed i suoi tre amici scendono le scale, corrono sulla spiaggia, nella pioggia, accanto all’Andrea Doria. Vedono che non è un tronco ma un uomo.

 

–Non toccarlo. Poi ti danno la colpa – dice quello alto.

– Come cazzo fai a pensare a questo? – dice mio padre, girandolo.

 

Era meglio se non l’avesse fatto, il volto è gonfio, immobile, spento. Avrò degli incubi. Ho appena visto il mio primo cadavere. Cadavere: così chiamano i morti in televisione.

 

– Tanto piove, le impronte digitali si cancellano – dice quello grasso.

– La smettete? – urla mio padre.

 

Quello biondo se ne sta a due o tre metri, ha fatto dei passi indietro. Io no. Avrà più incubi di me questa notte.

 

– Torna in casa – mi dice papà.

– A fare cosa?

– Che ne so.

 

È irritato.

 

– Ma l’ho trovato io.

 

Il biondo mi raggiunge, mi prende per mano.

 

– Lo porto via, così telefono alla polizia .

 

A me sembra solo che abbia preso l’occasione per andarsene e non vedere più l’uomo, il cadavere. Mi trascina verso casa. Salendo gli scalini mi volto e vedo qualcos’altro dirigersi a riva. Poi due, tre, cinque e non riesco a contarli. Sembrano tronchi ma so che non lo sono. Allora mi divincolo e corro a riva.

 

– Papà ce ne sono a decine – urlo, e sono eccitato.

 

Loro stanno fermi, immobili, senza parole, mentre io corro ad accogliere ogni sbarco.

Poi mi accorgo che tutto questo significa sempre più incubi e ogni uomo che raggiunge la riva porta con sé centinaia di domande a cui dubito che papà possa rispondere.

 

Alla sera, alla televisione, parlano di una carretta di mare affondata mentre cercava di raggiungere la costa del nostro Paese. Papà non ride pensando alla nostra Andrea Doria.

Questa barca, da ora le chiamerò barche per evitare pasticci, aveva un sovraccarico umano. Sovraccarico umano.

 

– Che brutte parole – dico.

– Si dice così – dice papà.

– A me sembravano dei tronchi, sarebbe più giusto chiamarli tronchi.

– Perché? – mi chiede.

 

A me sembra strano che mi chieda qualcosa, allora me ne sto zitto.

 

– Perché è più giusto chiamarli tronchi?

– Perché vengono da un altro posto. Come ai tronchi hanno tolto le radici, e per quel che ho capito venivano per cercare di lavorare.

– E cosa c’entra lavorare con i tronchi?

– Lavorare significa produrre energia, me lo hanno insegnato a scuola – dico, felice che papà mi ascolti – e i tronchi, quando bruciano, producono calore e quindi energia.

– Ma questi non lavoreranno mai più.

 

I grandi non la capiscono proprio la logica di noi bambini. Anche se sto diventando grande, infatti la cassa toracica mi fa male e devo continuamente cambiare posizione, non perderò il mio punto di vista. Così spiego a papà che i tronchi erano bagnati e quindi non potevano bruciare.

Lui sta in silenzio per un po’ mentre alla televisione fanno vedere la nostra casa.

 

– Stai diventando grande – dice.

– I tuoi amici non devi più invitarli –  rispondo.

– E perché?

 

Tre domande nello stesso giorno.

 

– Anche quando è morta la mamma sono venuti. Vengono quando c’è gente che muore.

 

C’è solo la pioggia contro il vetro oltre il silenzio. Ho appena iniziato a rendermi conto che crescere non è solo qualcosa di fisico e quanto successo oggi non mi lascerà in pace per tutta la vita.

Allora mi alzo e guardo papà.

 

– Oggi mi sono ricordato dell’anno scorso – gli dico.

– Di cosa?

 

Ormai non faccio più caso al fatto che mi faccia domande, sto diventando grande. Ricevere delle domande è cosa da grandi.

 

– Mi sono ricordato del tizio scappato di prigione: dell’evasione. E mi è sembrato strano.

– Perché?

– Perché mi ricordavo del sole sui pneumatici nuovi dell’automobile con il nome di un presidente.

– E cosa vuoi dire?

– Niente, solo che adesso mi chiedo cosa ricorderò l’anno prossimo di questa storia.

 

Allora penso alla faccenda degli eventi in scala provinciale, nazionale e mondiale, e alla televisione. Anche al convegno contro il razzismo. Mi accorgo che ricordo i discorsi, le parole, i volti dell’evento provinciale, quello che non hanno mostrato alla televisione, mentre dell’evaso non ricordo neppure il nome. Infatti, pensando a oggi, alla televisione mica hanno fatto vedere come erano realmente le cose. Anzi, in un certo senso lo hanno fatto vedere, ma in sei minuti.

Nello stomaco iniziano a muoversi le pale del ventilatore. E tutto questo mi fa accorgere del fatto che forse mi sia dato troppe risposte nelle ultime ore e decido di tornare bambino e domandare a papà.

 

– Mi spieghi da dove venivano quegli uomini? E perché?

 

 

 

 

 

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