La mia conversione
di Christian Raimo

Una settimana dopo mi sveglio di soprassalto che è ancora semibuio, come se avessi una spina nella carne che i movimenti notturni hanno fatto penetrare più a fondo. Ho dormito di nuovo a casa dopo tre giorni passati sulla branda del laboratorio, ma è stato un sonno intermittente per le fitte all’intestino e la nausea: forse un colpo di freddo, un batterio, un nervosismo come un fungo sottopelle… Mi sono alzato, andato in bagno, cercato di vomitare, seduto con la schiena dritta per respirare, rimesso a letto, una serie circolare di volte; alternando sogni vuoti di io che camminavo di notte con il fiato spezzato in mezzo a città di strade larghissime, salite e discese verticali, a sogni stupidissimi di disagio… In uno, sfocato e pieno di colori, c’ero io che entravo in un negozio di fiori con nessuno dentro, pisciavo sul pavimento, poi scappavo, tornava il proprietario e mi inseguiva. Nel frattempo cominciava a calare una cappa di gelo per cui dovevo in fretta trovare un posto dove ripararmi. Svuotavo un cassonetto, mi ci infilavo, sentivo una sirena singhiozzante come quella di un camion dei rifiuti avvicinarsi minacciosa…

Quando ho aperto gli occhi, avevo l’irritazione alla gola che mi perseguitava da giorni e un dolore opaco sulle arcate, ma niente conati. Ho guardato il cielo che mi veniva incontro: concavo, tridimensionale, la profondità che ha soltanto dopo giorni ininterrotti di afa e pioggia.
Mi sono alzato, ho acceso la moca, mi sono seduto alla scrivania, ho aspettato il gorgoglio felino del caffè che usciva, ho pascolato per la casa con la tazzina in mano, controllato la posta al computer – nessuna mail a parte i soliti inviti a «aggiornare» il mio pene – e cercato su internet le lodi del giorno. L’anno liturgico A, il secondo ciclo feriale, la terza settimana del salterio, lunedì. Mi sono messo davanti al piccolo crocifisso che ho attaccato al muro, mi sono fatto il segno della croce e – come tutte le mattine, da un anno e mezzo a questa parte – ho iniziato a recitare: «O Dio, vieni a salvarmi. Signore, vieni presto in mio aiuto. Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo».
Ho fatto attenzione come faccio di solito a non volgere lo sguardo verso lo specchio grande del salotto. È così odioso vedersi pregare. Una pratica in sé ridicola – la postura, la contrizione della faccia – che ogni volta mi viene la tentazione di disfarmi di tutti gli specchi di cui è disseminata la mia casa. Ce n’è almeno uno in ogni stanza. Vecchi, quasi tutti scheggiati, rovinati; l’argento si è fatto nodulare ed è esploso in un gocciolio di bollicine più scure, oppure una parte si è opacizzata e quello che viene riflesso è una pelle bronzea, i colori smorti.
Erano gli specchi che appartenevano ai miei, che li usavano quando, fino a più di dieci anni fa, vivevano ancora insieme. Allargano lo spazio interno della casa era la ragione che davano ogni volta che ne appendevano uno (un tentativo come un altro forse di contrastare il fatto che quei muri diventassero per loro sempre più soffocanti).
Quando si separarono, questi specchi – alcuni antichi: cercati e comperati anni prima in mercatini d’antiquari in gite domenicali con figli piccoli al seguito – rimasero come uno scarto che nessuno dei due tollerava nella sua nuova abitazione (adesso avrebbero dovuto riflettersi in un’immagine da soli, dentro una grande casa che si sarebbe dispersa sullo sfondo). E, senza nemmeno una discussione in merito, finii per ereditarli io insieme alla maggior parte delle cose comuni – gli album di foto, e i tappeti, e i comodini… –, che entrambi vollero o lasciarono sparire dalle loro vite, quasi come se da un certo momento in poi il loro figlio minore fosse stato delegato a mettere insieme i cocci del loro patto di comunione dei beni.
Ora potrei pulirli sì. E mantenerli chiari, trasparenti. Ma il fatto di vederli consumare è come se mi facesse convincere che le cose invecchiano ma non muoiono. Così annebbiati invece, fanno e non fanno il loro mestiere, chiamano alla mente gli specchi di San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. San Paolo che parla della vita eterna: «Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò appieno, come sono stato appieno conosciuto».
È stato nell’inverno di due anni fa che mi sono convertito. Più che al cattolicesimo, preferisco dire: all’amore che Dio ha per me fin dal grembo materno, come si trova scritto ogni tanto nella Bibbia.
I miei genitori, nel tempo prima che nascessi, avevano smesso di credere a qualsiasi rito collettivo, inclusi quelli incomprensibili e caciaroni della Chiesa dei loro genitori, vecchiotti e paesani. E alla nascita non avevano battezzato né me né mio fratello.
Io avevo sentito per la prima volta parlare di battesimo solo quando avevo sette, otto anni. I miei compagni di classe certi pomeriggi letteralmente sparivano. Non erano a casa, non li trovavi al parco. Uscivano da scuola, mollavano la cartella alle madri e tra gli sbuffi e le proteste andavano a catechismo per la prima comunione. Mio fratello ed io eravamo gli unici che invece tornavano a casa. Ci distinguevamo, come ci diceva mia madre.
Lo immaginavo, questo catechismo, come una grande stanza dai soffitti altissimi avvolta dalla penombra, piena di bambini che dovevano stare in silenzio per un’ora o due, magari in ginocchio e con gli occhi chiusi. Questa pena però gli avrebbe permesso, non immediatamente, di acquisire un carattere migliore, di avvicinarsi prima con la mente e poi con l’anima al paradiso; e – a alcuni più volenterosi – di compiere miracoli. Piccole magie, come guarire le malattie, camminare sulle acque, leggere nel pensiero, essere immortali. Al catechismo, se frequentato con assiduità, si apprendevano, per quello che capivo, dei superpoteri. Non essere battezzati aveva i suoi vantaggi, consideravo, ipnotizzato davanti ai cartoni animati del pomeriggio, ma anche i suoi contro. A scuola, di Cristo e compagnia, i miei compagni non ne parlavano, come se si trattasse di qualche segreto che non si poteva rivelare all’esterno, o come se non sapessero descrivere qualcosa che risultava reale solo se uno l’aveva vissuta in prima persona. I miei genitori erano fieri di liberarmi da tutto quest’edificio di detti e non detti, di miti e astrazioni, e liquidavano il discorso quasi fosse una faccenda di corruzione generalizzata, un imbroglio su larga scala: non andavamo a catechismo perché io e mio fratello eravamo gli unici bambini veramente onesti: i bambini mosca bianca. Gli altri nostri compagni erano conformisti (l’insulto peggiore che i miei sapessero formulare), e in fondo assetati di potere – e di superpoteri. Crescevano accettando le brutte abitudini della società che i loro genitori indulgenti non erano in grado di evitargli.
Ma anche i miei erano due persone ambiziose, quanto nutrite da un preciso senso del futuro; e il modo in cui avevano compensato questo carrierismo spirituale e questa rimozione dei riti religiosi era stato imbracciare, appena gli era stato possibile, una devozione rigorosa per una liturgia famigliare da loro creata e canonizzata. Pranzi in tinello – cene in salotto – ore di andare a dormire – discussioni pre-risveglio nella stanza da letto accanto che riverberavano attraverso il cartongesso delle pareti sottilissime – pomeriggi domenicali interminabili – malattie esantematiche come tappe d’iniziazione ai propri sensi… E soprattutto: un culto scrupoloso del dio dialogo.
A casa nostra non era permesso non parlare. Non si poteva tenere il muso o rimasticare i pensieri. Restare in silenzio era semplicemente un sinonimo di tensione – qualcosa che saltava la stazione dell’imbarazzo e prendeva immediatamente la forma della sfida. La stessa aria di casa nostra diventava irrespirabile se non la si riempiva di parole di qualunque genere. Mio padre a cena, dopo cena, interrompeva il minimo cenno di afasia con una formula consueta: «Che ci succede?», sottintendendo che quello che riguardava uno di noi non poteva non coinvolgere anche tutti gli altri.
Quando, raramente, riuscivo a tollerare il clima di inquietudine, e a non rispondere, lasciavo fluttuare gli occhi tra le pareti di casa, sperando che le cose – invece delle persone – stessero dalla mia parte.
Le foto di famiglia incorniciate in salotto. Una mia a quattro anni vestito da cow-boy, una di mio fratello grassissimo alla stessa età, una di noi due piccoli davanti al ponte levatoio di un castello, una di mio padre militare, altre in campo lungo del giorno del loro matrimonio: sullo sfondo il monte Velino (o il monte Autore?), mia madre che sorrideva in macchina. Perché non ce n’era nessuna che ci ritraesse tutti e quattro insieme? Chi e quando aveva fatto questa selezione per gli ospiti?
Ma anche divagando con lo sguardo, riuscivo a resistere al massimo una manciata di minuti sfiancanti nell’inaudito silenzio domestico. M’immaginavo che anche quando avevo avuto tre mesi, nella culla, mio padre mi obbligasse a discutere con lui. Per questo ero stato un bambino precoce a sua detta?
Ed effettivamente poi mio padre parlava. Imponeva le sue ragioni con il pretesto di lasciarti esprimere quello che volevi: in genere spiegava qual era il giusto e quale il male, chiariva al suo «interlocutore» come stessero realmente le cose sull’argomento della discussione del giorno.
Opporgli il silenzio non serviva a nulla: mandava in corto circuito il suo teatro dialettico, ma lo faceva star male. Sia lui che mia madre, evidentemente. E nessuno dei due era un tipo da forza bruta. Di fronte al mutismo, la prendevano alla larga. Riassumevano le puntate precedenti del confronto. Quello che avevano fatto per me in tutti gli anni trascorsi da quando ero nato.
A un anno ero caduto dal piano della cucina fratturandomi seriamente le ossa della gamba ed ero stato tenuto per un mese sotto osservazione per valutare i possibili rischi di malformazione. Lui, mio padre, era rimasto a vegliarmi in ospedale: tante notti sufficienti a procuragli la gastrite cronica per cui per anni aveva ingurgitato quantità inconsulte di patate. Quante volte, seduto dentro l’aria ovattata del dopocena, mi ero sorbito questa storia? Più la sentivo ripetere e più sembrava che la disattenzione dei miei genitori scemasse dal novero delle cause, e che in fondo fosse una mia imprudenza l’essere caduto dal piano della cucina, un mio errore di bambino ribelle. Già allora, a un anno, ero evidentemente distratto, colpevolmente esagitato, un’ansia vivente.
Poi, da un anno in avanti era stato un susseguirsi di preoccupazioni che avevo inflitto ai miei. Non possiamo mai stare un po’ tranquilli. L’avere una vita indipendente, un’esperienza biologica a mio uso e consumo, l’esercitare una mia volontà non allineata, o anche il fatto stesso di ammalarmi, di possedere un apparato di batteri e anticorpi mio, di crescere, di passare attraverso fasi evolutive non riducibili a schemi pianificabili, era stata l’inevitabile croce che – superficialmente, impudicamente – avevo gettato sulle loro spalle.
Così, nel tempo, non sapendo davvero come replicare a queste accuse sottintese, avevo imparato la strategia della fuga. Semplicemente scappavo. Levitavo via. Evaporavo, mi spostavo in qualsiasi altrove a portata di sguardo. Le foto, le striature del legno delle mensole, i titoli sui dorsi dei libri, le lettere sui titoli dei dorsi dei libri, mi attaccavo ai dettagli visivi, i giornali impilati sul tavolino del salotto, le scritte sulle etichette delle bottiglie di liquori per i parenti. Me ne andavo a passi felpati in luoghi mentali dai confini precisi ma più incorporei possibile: vagavo in un piano platonico fatto di filastrocche imparate alle elementari… leggende metropolitane, numeri perfetti… i numeri uguali alla somma di tutti i loro divisori esclusi loro stessi… Mi autoisolavo calcolando a mente quale fosse il numero perfetto in successione dopo il sei (1 + 2 + 3) e il ventotto (1 + 2 + 4 + 7 + 14), e lo facevo con una facilità estrema, velocissimo a scomporre in fattori. Ripassavo rosari stupidi, testi di poesia e di canzoni mandati a memoria chissà quando, le frequenze dei canali uhf del Lazio, Telemontecarlo 21, Teletuscolo 23, Italia Uno 24, Gbr 26, TeleElefante 28, TeleMarket 29, ReteCapri 31… oppure con davanti un pezzo qualsiasi di carta, mi fissavo, sostenendo lo sguardo interrogativo di chi mi stava di fronte, a disegnare una mappa immaginaria e impossibile in cui ci fossero cinque stati tutti e cinque reciprocamente confinanti…
Ma la realtà era che non potevo fuggire troppo lontano. Perché solo qui avevo due persone che mi amavano, e questo era indiscutibilmente vero. E in nome del loro amore (un amore autentico quanto impaurito), avrei dovuto accettare di parlare, parlare, parlare, confrontarmi, aprirmi, non nascondermi mai ai loro occhi. Del resto dove sarei potuto veramente fuggire?
Il mondo esterno con la sua volgarità e le sue convenzioni da baraccone veniva risucchiato al di là di qualche orizzonte degli eventi. Contemporaneamente la biosfera della vita domestica occupava ogni possibile attesa emotiva o immaginativa. L’universo era la casa, la casa era l’universo. Presidiata dai miei, non ci poteva entrare né Dio né nessun altro.
Io e mio fratello – questa era in fondo la loro orgogliosa conquista – rappresentavamo la prima generazione della stirpe Del Moro a non essere il frutto di qualche disegno intelligente divino o della benevolenza di santi che concedono, se molto supplicati, la prole e il suo destino di gloria. Noi eravamo invece il risultato di un piano di buon senso e disciplina mentale che mio padre e mia madre dal giorno del loro matrimonio si erano sudati sera dopo sera, a tavolino, per anni, pur di non dover abdicare in un momento di incertezza, o anche solo di distrazione, alle pretese della provvidenza o della pietà sociale.
Certo, come tutti gli altri esseri umani, si erano trovati in ambasce. Ma erano scesi a patti solamente quando qualche output del loro algoritmo dell’esistenza non aveva corrisposto alle premesse. E in quei casi avevano ripreso – per brevi intervalli – a essere empirici: la Chiesa, la resurrezione della carne, la vita eterna, pregare Dio, erano tornati a quel punto a far parte delle ipotesi da tenere in considerazione.
Così mi avevano battezzato sì, ma quando avevo già nove anni. Perché mi ero ammalato di un’artrite reumatica che i medici avevano definito molto rischiosa per i polmoni e il cuore; e una suora – Suor Amarina (ho sicuramente il ricordo di un nome storpiato) – nella clinica dov’ero ricoverato, li aveva convinti, come se si trattasse di provare una cura di ricostituenti, a farmi bagnare dal cappellano ospedaliero con l’aspersorio. Una mattina, alle sette, con un piccolo capannello di parenti intorno al mio letto, e i miei compagni di stanza vestiti con il pigiama buono.
Dall’artrite reumatica ero guarito senza conseguenze, a parte un principio di esaurimento nervoso per mia madre (ogni volta che ancora oggi ha la carineria di ricordarmelo, mi riassicura, lasciandomi un brivido, che all’epoca invece fece di tutto per tenermelo nascosto). Mentre negli anni, nei decenni successivi, dal battesimo in poi, Dio aveva continuato ad affacciarsi nelle mie giornate come un vicino di casa che incontrate per le scale, o che vi suona al campanello ogni tanto, per offrirvi o chiedervi una stupidaggine, o semplicemente perché vi ha sentito lamentare e gridare attraverso il muro comune e voleva soltanto sapere se era tutto a posto. Io rispondevo: grazie per l’interessamento, e accostavo la porta di casa.
Ma poi, non avendo altre scelte, anch’io ero cresciuto. E mi ero trovato di fronte all’incombenza di prendere le distanze dai miei, dalla loro determinazione, dal loro progetto di liberazione delle masse applicato su di me e mio fratello. Se loro erano stati soli contro tutti, io ero solo ma con tutti. Di fronte a un mondo che mi cominciava sempre più insistentemente a piazzarmi proprio davanti all’imbocco di bivi, avevo reagito continuando a santificare l’infinita gamma di possibilità. E così frequentavo qualche prete in vena di afflato educativo, inveivo contro la Chiesa pappona, mandavo i soldi per posta ai missionari africani, coltivavo un po’ di impegno sociale, tiravo bestemmie.
Ma non feci né la comunione né la cresima, e i miei il mio battesimo lo richiamavano alla memoria giusto in qualche racconto dell’infanzia, come tiravano fuori l’aneddoto del primo dente caduto, di quella volta che ero scappato di casa e avevo preso un treno da solo, o di quando in terza media avevo provato a dare fuoco al mio letto dopo averlo spostato sul terrazzo di casa. Che fossi battezzato era la stessa cosa che dire: questa cicatrice te la sei fatta quell’estate che sei caduto in bicicletta.
A ottobre di due anni fa mi trasferii in Finlandia per un mese e mezzo che avrebbero dovuto essere dieci. La Nokia aveva deciso di pagarmi una borsa come visiting professor. In cambio di un pugno di lezioni di fisica delle particelle, potevo utilizzare per la mia ricerca gli immaginifici laboratori di Tampere. Da parte loro, un amichevole investimento a fondo perduto; da parte mia, un programma riabilitativo di corpo a corpo con me stesso. Volevo arrivare a dei risultati, ne avevo un bisogno che era divenuto ormai fisiologico. Facevo dipendere ogni mia idea del futuro dall’orizzonte che mi poteva aprire la ricerca sulle fiamme. Ed ero convinto che l’isolamento nel deserto tecnologico finlandese fosse la cauzione da depositare, che avrei visto restituirmi di lì a poco.
Del resto ero a un punto morto. Avevo passato l’intera estate cullando come un segreto da custodire l’anomalia degli ultimi risultati di laboratorio: le fiamme turbolente premiscelate mostravano in vari esperimenti caratteristiche sensibilmente diverse dalle altre fiamme. Per non arrivare a mettere in discussione alcune leggi della fisica della combustione, continuavo a introdurre nei report parametri e controparametri, eccezioni e controeccezioni, e lievitavano esponenzialmente gli aspetti da tenere in considerazione. Insistevo a ampliare il campo di indagine invece di fare un solo passo in avanti. Ne valeva la pena? O più probabilmente stavo perseverando in un errore a monte per non riconoscere la falla del ragionamento che invece mi era davanti agli occhi? Mi sentivo come uno scienziato tolemaico nel ‘500 che insiste nel postulare parallassi e orbite periferiche pur di non demolire il geocentrismo. Che cos’è che fa differire le fiamme turbolente premiscelate come se fossero una specie della natura a sé? era la domanda mantra che mi ero fatto l’intera estate. Ci sono mammiferi che volano come i pipistrelli. Ci sono mammiferi che depositano le uova come gli ornitorinchi. Qual era la ragione di questa differenza sostanziale?
Presi a fumare, sigarette che aspiravo malamente. Ma fumare era probabilmente il pretesto per poter passare ore a giochicchiare con l’accendino – questa era la vera dipendenza, accenderlo e spegnerlo soffiando sulla fiamma. Mi incantavo a guardare la fiammella dell’accendino, come se fosse un minuscolo genio della lampada a cui chiedere consiglio. Ma non mi venne nessun lume. Mi procurai solo un polpastrello del pollice completamente consunto con una specie di callo infetto, oltre che una raucedine cronica. Eppure, con una tenacia da tossicodipendente, avevo cercato di sfruttare i mesi estivi almeno per non disperdere la mole di materiale accumulato, lavorando intere notti fino all’alba per evitare la cappa di afa del giorno. L’esito era stato quello preventivabile: alla fine dell’estate avevo esaurito le energie mentali. E, come tutti i fumatori alle prime armi, mi facevano male i bronchi. Dovevo ricaricarmi. Che dalla mia prospettiva di ostinazione, si tradusse in: dovevo concentrarmi ancora di più.
L’ergo era la Finlandia. Il polo universitario di Tampere. Un insediamento di vetro e metallo circondato da lande steppose e foreste millenarie, finanziato dalla Nokia per calamitare universitari intelligenti dal resto del mondo.
Ma più che piccoli magneti, l’umanità in cui mi imbattei a Tampere era una massa di nerd alla deriva, scivolati qui come un’ondata di palline di mercurio. Io non avevo pianificato un granché prima di partire, e in Finlandia ero arrivato soltanto il giorno d’inizio della borsa di studio, quando gli appartamenti che ci aveva messo a disposizione l’università erano stati già occupati dal resto dei ricercatori, i quali avevano appoggiato le loro foto sul comodino da almeno una settimana. L’unica soluzione disponibile per le mie tasche era una mansarda con abbaino a Killinie, a venti chilometri da Tampere, in affitto dalla signora Zimmermann, una tedesca pelle e ossa con una zazzera di capelli rossissimi, e piuttosto sorda. Non mi feci scrupolo a prenderla in affitto. D’altronde di che altro avevo bisogno? Ero lì per concentrarmi. E in effetti evitavo il grigiastro del cielo finnico, passando le giornate in maniche di camicia nel caldo marino del mio attrezzatissimo studio personale con tanto di targhetta alla porta, dove potevo usare fino a sei computer in parallelo. La strumentazione da utilizzare andava oltre ogni desiderio, era tutto a disposizione per noi ricercatori-demiurghi, per i nostri esperimenti di calcoli infiniti.
Io ero l’unico fisico a far parte del Dipartimento di Giochi e Probabilità: si trattava di una realtà magmatica e un po’ azzardata che raccoglieva un centinaio di persone, similmente tutti maschi, che più che occuparsi di statistica o teoria dei numeri, erano dediti alla ricerca sui giochi di ruolo e di simulazione – roba che, se ben confezionata, sarebbe finita molto presto sui cellulari degli abitanti del mondo civilizzato. All’inizio avevo provato anche a interagire, a costruirmi una parvenza in vitro di vita sociale. I miei colleghi erano adolescenti anagraficamente invecchiati che trascorrevano quarantotto ore di seguito davanti allo schermo di un computer, programmando qualche game multiplayer con cui poi provavano a giocare – collegando tra loro decine di consolle, palmari, cellulari avveniristici – per le successive quarantotto ore. In un diagramma desiderio-soddisfazione praticamente inesauribile, e autosufficiente. Se funzionava lì, avrebbe potuto funzionare per qualunque essere umano; e la Nokia o chi per lei pagava e avrebbe continuato a pagare sempre di più questi bambini di trent’anni che conoscevano alla perfezione il metabolismo elettrochimico dell’intrattenimento.
Ma forse io avevo perduto qualcosa negli anni della vera adolescenza, e ogni volta che questi occhialuti esseri cosmopoliti, giapponesi, indiani, russi, coreani, australiani, e anche scandinavi, si lanciavano sguardi e gesti d’intesa che valevano molto di più di una lingua comune, si capiva chiaramente che io non ero ammesso alla confraternita. Avrei dovuto imparare a memoria la canzoncina dei Monty Python sulla Finlandia o la genealogia di Gundam, o capire perché alcuni pupazzetti di gomma di Gook potessero arrivare a costare duemila dollari su e-bay. Ma non ero così incantabile. O, meglio, la sera la maggior parte di loro restava a Tampere: si sbronzavano in qualche locale e cantavano i jingle dei telefilm anni ‘90 comuni ai cinque continenti, o più frequentemente, traslocavano nell’appartamento di qualcuno la rete di consolle. Mentre io dovevo prendere l’ultimo autobus per Killinie alle nove e mezza. Restare solo, cucinarmi da solo, addormentarmi nel letto da solo con i rumori del bosco attaccato alla casa.
La mattina mi svegliavo presto per andare all’università. Percorrevo i venti chilometri per Tampere immerso in uno di questi autobus silenziosi, pieni di pendolari finlandesi dagli occhi così liquidi che si perdevano dentro le culle delle occhiaie. Facevo colazione da solo nella stanza delle riunioni, circondato dalle immagini sparse su ogni parete del logo della Nokia con tanto di slogan. Connecting people, Connecting people. La cosa aveva in sé il sapore della beffa. Qualunque cosa stessi facendo lì, non era certo venire connesso. E la mancanza di contatti fisici faceva sì che anche la semplice figura delle due mani che si sfioravano valeva ai miei occhi come un richiamo erotico.
Gli amici italiani mi cercavano, o meglio – come si usa dire oggi – si facevano sentire: mi scrivevano mail di poche righe e piene di filmati di youtube tratti da qualche puntata di Mai dire gol, oppure mi spedivano sms del tipo: «Ma lascia perde Zanna Bianca e le stufette accese e tornate a gode’ le ottobrate romane. Ma chi voi prende in giro co’ sta Finlandia… Ennnnnammoooo!!!»
La sola persona con cui tenevo da mesi una corrispondenza reale era Stefano, un amico sporadico ai tempi dell’università che un anno prima di me aveva lasciato l’Italia per un contratto all’Istituto Italiano di Cultura a Nuova Delhi. Con lui ci spedivamo lettere lunghissime, che non erano mai delle risposte a quelle dell’altro, ma sembravano tutte delle ennesime lettere definitive che volevano mettere un punto alla corrispondenza invece di prolungarla; eppure continuavamo a scriverci. Io gli facevo il diario delle mie giornate-clone davanti al computer, condendole di sterminate geremiadi da border-line sulla degenerazione della società («Sai qual è l’unico tabù del nostro mondo? La goffaggine. Non si può non essere disinvolti. È una cosa che non ti perdona nessuno»), Stefano mi raccontava in dettaglio le iniziative che doveva preparare per l’Istituto. Promuovere la cultura italiana in India voleva dire allestire mini-fiere gastronomiche con l’arancino «invitato d’onore», o organizzare lezioni magistrali sulla loquacità italica con una serie di assessori meridionali fatti venire con voli charter dall’Italia, o preparare una rassegna cinematografica sulle «commedie dei mestieri femminili» (così erano stati denominati i film con Edwige Fenech poliziotta e Gloria Guida infermiera). Da un anno a questa parte era ingrassato quasi venti chili tra cocktail e vernissage di rappresentanza («Venti chili di tartine»), aveva sviluppato un odio profondo per il nostro paese e la sua diplomazia («Il tumore Italia e le sue metastasi sparse per il mondo») e aveva praticamente rotto i rapporti con tutti i colleghi dell’istituto. («C’è il turismo sessuale improvvisato, la gente che prende va in Vietnam in qualche bordello di classe. E c’è il colonialismo sessuale organizzato. Che vuol dire avere un appartamento di trecento metri quadri dove poter organizzare ogni sera una cena a base di pesce, e ospitare a dormire i giovani ragazzini indiani dalla pelle da sogno da svezzare alla cultura italiana»). Si sentiva solo, una solitudine etica e ascetica, che di fatto era un isolamento, per cui forse rispecchiarsi nella mia di solitudine gli dava un’immaginaria boa di riferimento.
Certo era che non ci confortavamo molto, sicuramente non ci eravamo d’aiuto. Io stesso non sapevo ben dire ciò che mi mancava. Non sapevo neanche misurare la solitudine con la sua realtà di fatto. Perché restavo solo anche quando non ero solo. Cominciai lì in Finlandia a praticare con dedizione assoluta la cosa che ho sempre saputo fare meglio: estraniarmi. Quelli che fino ad allora erano stati momenti, momenti in cui me ne andavo mentalmente, annullando ogni attenzione dal mondo circostante, diventarono intere giornate e settimane in cui persino per me stesso ero un fantasma. Se stavo in compagnia mi si accendeva automaticamente una specie di sordina, e il suono delle parole che venivano pronunciate accanto a me si vaporizzava nell’aria come una polvere spray.
La maggior parte del tempo mi sarei sbarazzato anche della mia possibilità di pensare. Per questo motivo amavo il freddo. Alle volte l’aria gelida mi dava l’impressione di poter ghiacciare ogni forma di comunicazione tra il mio corpo e la realtà. Quando la temperatura era ancora poco sotto lo zero, uscivo prima dall’università e tornavo a casa attraverso il bosco. Mi sfidavo finché era possibile a camminare in mezzo alla neve alta. Salutavo i colleghi, seguivo la strada illuminata che arrivava fino alla piazzola con il passaggio al livello lì dove gli abitanti di Tampere portavano i cani a pisciare e a abbaiare, con la luce instabile del sole polare, senza luce, con i riflessi della luna sulle carrozzerie di queste macchine nordiche, tutte station-wagon famigliari, scavalcavo dove la strada finiva di essere asfaltata.
Il freddo finlandese era concentrato, solidificato in banchi, una presenza corporea. Rimescolava l’aria da mezzogiorno in poi e colpiva a intermittenza le tempie come due frecce scagliate l’una contro l’altra. Avevo freddo, sempre freddo, ma così volevo. Non stavo male. Indossavo tre, quattro camicie di flanella una sopra l’altra e sopra ancora un cappello di pile e un k-way. In assenza di uomini a cui dare attenzione, amavo il bosco di Killinie, che era una grande piscina di terra.
La strada scendeva subito e dal dislivello in poi non c’era più un lampione, ma il percorso per almeno un paio di chilometri consisteva in un canale largo, con gli aghi di pino ammucchiati in mezzo alla distesa di neve, come se avessero spiumato dei cuscini. Ma la mia idea era sempre di perdermi. Anzi, ancora più radicalmente, di confondermi, di darmi in pasto: nel buio abolire le differenze tra me e i tronchi d’albero. Il bosco gelato ibernava ogni movimento, restavamo solo io e il fiato, che, nella concitazione, era una scia lattiginosa che lasciavo dietro al mio passaggio.
Ma per quanto corressi e mi cercassi di stordire a attraversare il bosco di notte ogni volta cercando un percorso diverso, non riuscivo a annullarmi. I pensieri mi aspettavano al varco, e avevano un’identità loro singolare. Alcuni riapparivano dopo giorni, come se, sapendomi solo, venissero a farmi visita.
Rientravo a casa la sera tardissimo o di notte, ma alle volte trovavo la signora Zimmermann ancora sveglia che armeggiava con cinque, sei amici, attorno a un gran barattolone di compost. Erano le sue lunghe serate ecologiche a tema: bevevano tisane organiche che spandevano odori di muffe fino al secondo piano, e nel mentre lei col suo vocione proclamava al piccolo uditorio una serie di lezioni sulla raccolta differenziata. Parlava sempre ad alta voce, aveva perso l’udito solo qualche anno prima, e evidentemente immaginava che la cosa non riguardasse soltanto lei.
Anche a Tampere, all’università, era conosciuta come «la signora Zimmermann della raccolta differenziata». Il perché me l’aveva spiegato – gridato – nel momento in cui mi aveva lasciato le chiavi di casa insieme a un depliant scritto da lei stessa, che definiva l’enorme pianterreno del suo casale come «un piccolo tesoro per il pianeta del futuro».
Qui teneva sistemati una quarantina di diversi recipienti. I contenitori che si potevano immaginare, per la raccolta dell’alluminio, dei farmaci, delle batterie usate, ma anche diversi sacchi destinati a plastica molle, plastica semidura, plastica lavorata, cellulosa fine, cellulosa trattata, resti organici di animali, resti organici di piante… Il municipio di Tampere aveva scelto la sua abitazione come base per un esperimento pilota di una raccolta differenziata molto analitica, con il progetto di alimentare pian piano una catena di riciclo quanto più multilineare possibile. Dalle nove alle diciotto davanti all’uscio era un viavai continuo di persone con al braccio dai due ai dieci sacchetti colorati, con la signora Zimmermann che controllava se la differenziazione era corretta, e si spendeva in una piccola chiosa educativa sul valore del recupero delle materie. L’handicap della sordità le aveva messo l’argento vivo addosso, e le aveva dato la possibilità di prescindere dalle opinioni altrui. Parlava ininterrottamente, ripeteva di continuo di essere quasi sorda, e pareva ascoltare soltanto quello che le interessava ascoltare.
I capelli raccolti in piccoli ciuffi con informi mollettoni di metallo riciclato, era totalmente compresa in questo ruolo, e dava per scontato che chiunque (e tanto più io, inquilino, italiano, giovane, disordinato, sprecone, maschio) si desse da fare per convertirsi al suo progetto: «Un tappo di plastica alla volta, si tratta di salvare la Terra!» La questione diventava seria quando dovevo buttare l’immondizia. All’uopo aveva collocato nella mia stanza – occupandone un buon quarto – una specie di box per bambini con una serie di ripartitori interni che riproducevano in scala le suddivisioni del primo piano: anche questi mega-cestini domestici erano parte della sperimentazione. Ma nonostante le dettagliatissime istruzioni appese alla parete rimaneva una serie di materie che non sapevo come classificare. I fazzoletti di carta sporchi? La polvere che raccoglievo spazzando? Ed era buona abitudine usare i fazzoletti di carta e non quelli di stoffa? Ed era giusto spazzare il pavimento? Del resto la signora Zimmermann non vedeva l’ora, con una sicumera da evangelizzatrice, di spiegarmi che c’erano fazzoletti sporchi e fazzoletti sporchi. Che umido non era uguale a denso. Che «polvere» apparteneva a un insieme diverso da «sporcizia».
La sua frenesia ecologica era incessante: appena si accorgeva che ero in casa e sveglio (come faceva a sentirmi?), mi chiedeva se potevo scendere e darle una mano. Guisseppi! Guisseppi! Se le opponevo rimostranze, ritornava sorda. C’era da prendere l’immondizia che veniva lasciata all’ingresso del pianterreno e scindere le diverse componenti: tagliare con il coltello di diamante il vetro da una finestra di alluminio anodizzato, dividere plastica metallo e batterie dai cellulari, asportare l’interno di spugna dai divani o la lana dai materassi.
Ero lontano da casa da neanche quindici giorni, e mi pareva di essere stato lanciato su un modulo lunare. Lo sciame di mail stupide e sms si era diradato fino a scomparire, e anche le lettere di Stefano mi raggelavano: cominciavano a darmi l’impressione di un testamento scritto a puntate. Quando ero in casa tenevo le finestre con le imposte spalancate. Non capivo mai che parte del giorno fosse. Le poche ore di luce davano alla dimensione del tempo una curvatura destabilizzante. Era inverno ed era sempre semi-notte. Vivere voleva dire rimanere svegli. Mi facevo un sacco di domande che di giorno in giorno, addirittura di ora in ora, mi sembravano essere più profonde, o semplicemente più distanti dalla realtà. Cos’era questa natura umana? mi ripetevo spesso. Qui, nel bosco. Da solo. Di notte.
Ogni tanto, dopo essermi regolato su quali erano i punti cardinali, mi coprivo di maglioni di pile isolanti e uscivo da solo, cercando a naso nel bosco un sentiero che non avessi ancora battuto. Passavo per il fitto degli alberi dove non c’era nessun varco, di sbieco lungo qualche passaggio schiacciato dai rami grossi intrecciati a x, dall’erba alta, da tutti i rovi sparsi, mi graffiavo i polpacci e le caviglie attraverso la stoffa dei pantaloni. La natura umana, non era forse una bugia?
Mi ascoltavo respirare. Tremavo. Dal momento in cui scartavo dal tracciato e cercavo di perdermi, zigzagando, spaccando gli elastici tesi degli arbusti gonfi come inflorescenze improvvise, filamentose, e m’inoltravo su verso qualche pendio o costone rotto, sentivo la sinusoide del mio respiro che tendeva a uniformarsi a un ritmo pulsante, una diastole-sistole regolare, canonica: il tempo polmonare, viscoso, del bosco. Alle volte, come un pazzo, mi toglievo gli stivali imbottiti e mi arrotolavo i calzoni. Il freddo feriva i piedi, letteralmente. Percepivo chiaramente l’assolo di otto battiti, scandito dai miei passi e riprodotto perfettamente da qualcosa all’interno del buio. Non un’eco: una consonanza. Non era una costruzione ideologica quella della razionalità, del dominio di quest’umano sul resto del creato? Coi piedi scalzi camminavo sulla neve quasi correndo, come se stessi sui carboni ardenti. Ogni tanto sprofondavo nella neve fresca, sulla terra appena innevata. La terra impastata. Senza guardare, senza fermarmi, la terra era una materia qualunque, un’unica melma di organico e inorganico. Cristalli di ghiaccio, lombrichi che si nutrono di fango, amminoacidi che si trasformano in cellule. Ero il contrario dei jainisti che avevo letto sui libri di storia delle religioni in seconda media. Magri come zombi, i fazzoletti davanti al viso per non ingerire i batteri e una scopa per evitare gli esseri viventi che si frappongono al loro passaggio. I fanatici del rispetto. Io ero come i germi invece. Soltanto più sviluppato di loro. Il lombrico più grosso che si mescola e schiaccia i vermicelli più piccoli.
E a saperla respirare, a esercitare le proprie ghiandole bronchiali a un omomorfismo con l’azoto e l’ossigeno, anche l’aria era una creatura. Così anche la vita, ridotta alla sua essenza, a alberi e neve, ritornava a essere una cosa primordiale. Lasciavo gelare i piedi, giustamente. Acuivo la vista, e nell’oscurità s’intensificava il senso delle proporzioni, delle distanze, sostituivo l’osservazione con il contatto. Fare leva sulle ginocchia per scendere o salire: il sentiero di roccia lungo i costoni andava avanti per un pezzo, e il freddo ubriacava il senso dell’orientamento, tra pietrisco, piani scoscesi e quelle che al buio sembravano mezze voragini. Mi sedevo o m’inginocchiavo laddove c’era dell’acqua, mi toglievo di nuovo scarpe e le calze e ci immergevo i piedi nudi per un istante. La botta secca del gelo trasformava tutto – il tempo di un palpito – in insensibilità. Affondavo fino alle caviglie nelle pozze, per pulirmi i piedi dal terriccio, con l’acqua che pungeva. E dove non c’era la neve, camminavo più in fretta, con le scarpe in una mano mentre con l’altra cercavo di tenermi in equilibrio sulla roccia scivolosa, facendo presa sui tronchi degli alberi che però erano viscidi, collosi, unti di resina, con macchie di muschio simili a spugne marine, attaccate lì parassitariamente a una forma di esistenza più terrestre. La luna, quel terzo o due terzi di luna che ficcavano la luce persino nel fitto tra rami e fogliame, era finalmente un grande pietrone sferico, lontano, ottuso e privo di tutto quello che mi interessava in quel momento. Non la potevo odorare, non la potevo masticare, non la potevo pressare e plasmare a mio piacimento tra una mano e l’altra.
Una mattina presto portarono, nei sacchi dell’immondizia, una statuetta della Madonna senza gli occhi. Glieli avevano già cavati quelli che ce l’avevano consegnata: erano di vetro, mentre la statua era in ceramica. E mischiare il vetro con la ceramica, mi insegnava la signora Zimmermann, rischiava di rendere inutile il processo di fusione per il recupero del vetro, il mix di risulta veniva fragilissimo. La ceramica rientrava invece nella categoria europea R13. Era conveniente frantumarla in pezzetti piccoli. Senza neanche chiedermi di aiutarla, la signora Zimmermann mi diede un martello.
Metteva un po’ spavento questa Madonna senza occhi. Subito, mi vennero in mente le statuine della Madonna che si diceva piangessero sangue. Ma queste orbite vuote, crepate all’interno, le davano, molto di più che se avesse pianto qualche tipo di lacrime, un’espressione dolente, anche disperata. Forse si trattava semplicemente di bruttezza, era un manufatto rozzo, la vernice della ceramica di bassa qualità e tutta scrostata.
Comunque non riuscii a farla a pezzi. Me la portai in stanza e la misi come peso fermalibri, sulla mensola. L’avrei tenuta lì un giorno o due poi l’avrei sistemata in qualche anfratto senza farmi accorgere dalla fanatica ecologista, o l’avrei sepolta nel bosco in mezzo alla neve.
Ma le cose andarono diversamente. Il giorno dopo che la statuetta entrò nella mia stanza, tutta la zona intorno a Tampere fu investita da un’ondata di gelo. In settantadue ore caddero quasi tre metri di neve in fiocchi grossi come susine, e appena dopo la temperatura precipitò fino a trentadue gradi sotto zero. Alla televisione il governo finlandese raccomandava di limitare gli spostamenti allo stretto indispensabile, di tenersi lungo le arterie di traffico principali, di restare in contatto attraverso i telefoni cellulari anche se varie centraline erano state danneggiate dalla bufera. Era una situazione fuori dal comune? Facevo bene a non avere paura? Non lo capivo. Comunque per me era fisicamente impensabile mettere il naso fuori dalla casa. Killinie era in pratica isolata, la neve-ghiaccio aveva coperto il bosco circostante lasciando visibile solo la punta di molti alberi, e la sensazione che provavo, affacciato dal terzo piano della casa, era quella di essere al centro di un’inondazione di neve. Si poteva morire annegati dalla neve? La signora Zimmermann, uno dei soli due esseri umani che vidi per giorni, restava invece paciosa. Cambiava vestito e pettinatura per la cena, si cospargeva di un olio protettivo e spalava lo spalabile sui davanzali e i balconi. Aveva provviste per un intero anno di isolamento, ma soprattutto era abituata a questi venti artici che senza il minimo preavviso portavano la glaciazione a casa tua: a Killinie, mi rassicurò, accadeva per una o due settimane, se non tutti gli anni, almeno uno sì e uno no.
I giorni successivi, tutte le mattine, veniva a trovarci a casa l’altro essere umano: un minuto funzionario, intabarrato in una specie di tuta da palombaro, di quella che doveva essere la protezione civile finlandese. Si premurava di informarsi che le condutture dell’acqua e il riscaldamento della casa fossero a posto, e che non ci fossero emergenze sanitarie. Riceveva i nostri ah ah di assenso, spuntava il nostro nome su un piccolo palmare e se ne andava, regalandoci un paio di volte della frutta fresca e un vasetto di fiori – non si capiva se era una sua personale idea galante, o se il governo finlandese si facesse punto in questo modo di blandire i suoi cittadini infreddoliti e spauriti. Del resto non era facile venire confortati: la rete internet in casa era saltata e i tentativi che facemmo con la signora Zimmermann di ripristinare la vecchia linea telefonica andarono a vuoto. Il mio telefonino poteva chiamare e ricevere a tratti, e l’unico utilizzo che ne facevo era spedire sms ai miei in Italia per dirgli che ero vivo, un puntino in mezzo al deserto di ghiaccio.
In orari che divennero sempre più arbitrari, scendevo a mangiare in cucina con la mia padrona di casa, piatti precotti ipercalorici che mi accendevano un fuoco nello stomaco. E poi risalivo nella mia stanza. I libri che mi ero portato da leggere erano tutti testi scientifici, al massimo qualche biografia di matematico. Alla televisione, in finlandese, capivo soltanto che c’erano zone verso la Lapponia al confine con la Russia dove erano messi anche peggio che da noi.
Non stavo bene, e alla signora Zimmermann cercavo di comunicarla, quest’ansia da stretta alla gola. Era un timore sordo, che montava di giorno in giorno, ma non riuscivo a mettere a fuoco il perché. Era il senso di prigionia che mi faceva mancare l’aria? Mi angosciava, fuori dai finestroni della casa, la distesa indefinita di bianco in cui cielo e terra si confondevano? Avevo bisogno di camminare, di vedere altre facce, di tornare alla mia vera casa? Era la calma inerte della signora Zimmermann a trasmettermi ancora più inquietudine? Quale che fosse la causa, non potevo rimediarvi in nessun modo. E i sintomi di soffocamento stavano a indicare anche un’altra ragione più preoccupante. Stavo andando in crisi d’astinenza. Senza i computer del laboratorio, mi sentivo perso. Senza il mio programma settimanale di calcoli, mi ritrovavo a fare dei segni puerili su un bloc-notes. Schizzi di fiamme tratteggiati un puntino alla volta, equazioni che copiavo dai libri come fossi un amanuense. La mia ricerca non faceva un passo in avanti. La mia vita non aveva il minimo senso. Mi sembrava che i giorni sbagliassero a esistere.
Smisi di scendere per pranzo e cena, scongelavo la carne spalmabile, mi preparavo dei panini e li mangiavo nella crisalide della mia stanza, a letto spesso. Il freddo era forse diminuito, ma adesso ero io che non ero capace di affrontarlo. Alla signora Zimmermann avevo detto di avere la febbre, lei non aveva mostrato reazioni. Nella stanza, mi grattavo le braccia e i polpacci, e mi domandavo se per caso potevo essermi preso la scabbia. Tutta quell’immondizia in casa, seppure impacchettata, isolata, portava con sé microbi e germi?
Cominciai a parlare con la statuetta della Madonna e a leggere la Teoria dei numeri di André Weil e la sua biografia Ricordi di un apprendistato. Se non potevo dedicarmi alla ricerca, potevo almeno leggere libri di teoria matematica: sarebbero valsi a qualcosa. A farmi cambiare prospettiva sul mio lavoro? A distrarmi? Alla Madonna chiedevo se avevo la scabbia, se era scabbia quello che mi faceva grattare. O peggio, un linfoma, che dava prurito alla pelle. Poi, le facevo domande sulla sua vita. A quanti anni aveva avuto Gesù Cristo? Sapeva che sarebbe morto così presto?
E le leggevo a voce alta pagine su André Weil, («il più grande matematico vivente», lo chiamavano i suoi colleghi; «il più grande matematico», come preferiva farsi chiamare lui; ridacchiavo da solo). Leggevo i libri alla statuetta della Madonna, anche se fingevo di non farlo. Così mi rassicuravo che non stavo dando di matto, era come se parlassi tra me e me, e ci fosse lei a origliare. Stavo perdendo colpi? Porsi questa domanda era comunque un segno di lucidità? Non sopportavo il silenzio gommoso della stanza. Quando accendevo la radio o la tv, il suono del finlandese mi sembrava quello di una serie ininterrotta di denti che si spezzano. La notte non riuscivo a prendere sonno. Mi svegliavo con la gola secca per l’aria viziata, appena sveglio mi riaccorgevo del prurito. E rimanevo davanti alla Madonna. Ce l’aveva con me? Perché mi ero battezzato e poi me n’ero fregato? Voleva che le cercassi gli occhi nell’immondizia? Quanti giorni ancora sarebbe durato questo gelo? Mi sarei dovuto inginocchiare per ottenere qualche risposta?
In una pagina di Ricordi di un apprendistato Weil parlava di quando, nell’ultima vacanza che aveva fatto da ragazzo con la famiglia a Lansvillard, il paesaggio di montagna gli aveva suggerito la soluzione al suo primo teorema su cui aveva costruito la tesi di dottorato: «Osservando da lontano al tramonto, i raggi del sole intersecarsi nelle valli, mi venne l’idea della scomposizione su più piani. Durante le mie passeggiate facevo spesso una sosta, riempiendo un quaderno di calcoli sulle equazioni diofantee…» E a me, perché non accadeva niente di simile? Intere giornate a contemplare il mare plumbeo di neve fuori dalle finestre, e nessun’ombra di idea, di eureka, che mi venisse incontro? Perché la Madonna non mi aiutava?
Quando, dopo quasi venti giorni, ritornò il sole insieme alla connessione internet e alla possibilità di uscire di casa, i miei dialoghi con la Madonna si erano infittiti. Io non avevo più pudore a rivolgermi a lei, e lei d’altro canto sembrava rispondermi. O almeno darmi retta più della signora Zimmermann. Le parlavo di tutto, dalla fisica delle particelle al modo doloroso in cui mi mancavano certe cose dell’Italia. Mi sentivo un bambino di cinque anni che racconta la sua giornata alla madre: tutto quello che gli è passato per la testa. E la Madonna controbatteva a tono. Mi interrogava su questo e quello, curiosa, sensibile. Mi sentivo compreso. Addirittura, in certi momenti, mi sentivo accarezzato. Mi stava parlando? Sul serio, mi stava parlando? O ero io che immaginavo le risposte che poteva darmi? A chi l’avrei potuto chiedere?
La signora Zimmermann non si era accorta né allarmata che io passassi le giornate discutendo con una statuetta senza occhi: urlavo, mi lamentavo, lei non mi udiva. Di tanto in tanto bussava per vedere se ero in uno stato dignitoso. Il letto era rifatto, il bagno era pulito, io non pendevo appeso da un lenzuolo legato al soffitto. Non avevo buttato la statuetta come mi aveva detto? Non c’era problema. Mi faceva un sorriso imbarazzato, e riscompariva.
Il prurito era cessato, ma adesso mi pareva spesso che la mia temperatura corporea cambiasse, a sbalzi. C’erano ore in cui rabbrividivo e altre in cui mi sentivo avvolgere da un calore diffuso. La prima cosa che feci – quando tornai a Tampere – fu domandare dove avrei potuto fare delle analisi del sangue, e dov’era una chiesa cattolica. Le analisi del sangue non destarono allarme: segnavano un valore basso di quello di cui si poteva avere un valore basso. Emoglobina, globuli rossi, potassemia. Mentre avevo la Ves più alta della norma, ma niente di preoccupante: se mi ero preso qualche infezione, stavo guarendo. L’unica chiesa che invece furono in grado di indicarmi era una sala grande di un albergo fuori periferia di Tampere. Presi due autobus e feci un paio di chilometri a piedi per ritrovarmi accolto da un’atmosfera da pranzo di matrimonio, una luce porosa, e gigantografie del volto della Sindone agganciate a grandi tende di tela. L’aveva in gestione un sacerdote scozzese, padre Lyle, in attesa che qualcuno si decidesse a finanziare il progetto di costruire una vera parrocchia. Forse aveva a che fare ogni tanto con italiani e spagnoli, e il suo modo di essere gentile fu ripetermi più volte Compreso, che evidentemente doveva essere la sua versione mediterranea di ok.
Gli dissi che volevo parlare di alcune cose e lui mi chiese se volevo confessarmi: non sapevo neanche se potevo confessarmi, ero battezzato ma non comunicato. Mi confessò in inglese – o meglio nel suo scozzese masticato, da potenziale beone – e fu un continuo di Can you repeat please? e Sorry I don’t understand. Riuscii a dispiegare soltanto alcuni fili dell’intera matassa. Gli confidai che la persona con cui da un po’ di tempo avevo un rapporto più stretto era una statuetta della Madonna senz’occhi. Non capivo se mi stavo inabissando in uno stato di psicosi religiosa, o se veramente la Madonna mi stesse parlando.
Padre Lyle mi sorrideva calorosamente e volle sapere che tipo di conversazioni fossero. E io gli dissi che più che altro lei, la Madonna, cercava di contenere i miei sfoghi, placava le ansie, mi diceva Riposati. Era possibile che fosse la Madonna a parlare attraverso la statua o ero io che stavo attribuendo a lei un mio principio di guida esistenziale? Alla fine del colloquio, mi regalò uno di quei Vangeli da un euro in inglese e una collanetta con dieci grani che mi spiegò essere una specie di rosario formato ridotto. Gli domandai se dovevo fare qualche penitenza. Ebbi l’impressione che Padre Lyle non avesse confessato nessuno da mesi, e che se lui rappresentava per me una sorta di àncora, io ai suoi occhi dovevo essere un angelo. Communioni, mi disse in italiano, o in quello che era. Quando sarei stato ready, mi diede una paterna stretta di mano, avrei dovuto fare la comunione.
Le conversazioni con la Madonna. Forse ogni evento che si proietta sul dorso del tempo assume pian piano un’aura di densità che non possedeva nel momento in cui ci è accaduto. Ma ogni volta che penso a questo strano Erasmus fuori tempo massimo nella stanza circondata dalla neve, io e la statuina cieca, mi viene in mente che forse soltanto lì – in quella condizione di isolamento reale – ero riuscito a pregare. Cos’è, una forma di nostalgia spirituale? Un sentimentalismo che mi fa conservare quello che ho vissuto in una teca per l’incapacità di dare valore al presente? A che serve altrimenti andare a messa ogni domenica, aver fatto il sacramento della comunione e quello della cresima, confessarsi regolarmente? O forse era la statuina. Forse mi dico, in queste mattine ingombrate di urgenze mentali pretestuose, dovrei comprarmi o procurarmi una statua della Madonna.
Quella di Killinie scomparve come era apparsa, un pomeriggio di febbraio. Ricordo la data, il 16 febbraio. La signora Zimmermann, senza che mi avesse fatto alcun cenno, aveva cominciato da qualche giorno ad accusare i miei stessi sintomi. Prurito, sbalzi termici, spossatezza. Si era fatta visitare da un medico suo amico, un naturopata o similari, che gli aveva letteralmente insinuato la pulce che in casa ci potesse essere un focolaio di parassiti, tignola o scabbia. Aveva conservato qualche vecchia cianfrusaglia nella casa invece di buttarla?
Così la statuina cieca, fonte di possibile contagio batterico, era stata rotta in pezzetti minuscoli, i frammenti immersi in una polvere polimerica disinfettante e poi chiusa in un sacchetto di plastica colorata. Qualche giorno dopo io ero tornato in Italia.

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