Il mio collega
di Gianmarco Perale

Ho accostato la macchina e ho messo le quattro frecce. Clara ha detto: «Possiamo arrivare a casa, almeno?»
«Devi dirmi la verità.»
«Te l’ho detta, la verità.»
In autostrada non c’erano macchine.
«Sono le due, e domani lavoro. Possiamo parlarne a casa?»
Silenzio.
«Mi avevi detto che non te lo eri scopato.»
«Non me lo sono scopato, infatti. E poi era sei anni fa.»
«Marco ha detto di sì. Che te lo eri scopato.»
«E gli credi?»
Faceva freddo, e ho alzato il riscaldamento. Clara si è alitata fra le mani.
«Perché, non gli devo credere?» ho detto.
Si è tolta la cintura e mi ha guardato meglio. Poi ha detto: «Boh. È un tuo amico, ma è una bugia».
«E non l’hai mai visto?»
«Piero?»
«Sì.»
«Sei anni fa, credo. Forse sette. A quella festa, in Turati.»
«Quindi lo conosci?»
«So chi è. Non è che lo conosco.»
«Non mi hai mai detto che sapevi chi era. Perché?»
«Che domanda è?»
«È una domanda.»
«Secondo te mi sveglio e penso: Aspetta che dico a Giulio che so che Piero sa chi sono?»
«Te lo sei scopato, o no?»
«No. Ma che differenza fa?»
«In che senso?»
«Era prima di conoscerti.»
«Allora è vero, che te lo sei scopato?»
«No. Dico solo che lo avevo visto a quella festa, ed era prima che io e te ci conoscessimo. Quindi che differenza fa, se me lo sono scopato?»
Continuavo a guardare dritto.
«Mi fa differenza. Posso?»
«Puoi. Ma comunque non me lo sono scopato. Sennò te lo dicevo.»
Ho aspettato un attimo, poi ho detto: «Sicura?».
«Sì.»
«Come fai a dirlo?»
«Perché ci diciamo tutto. Tu non mi dici tutto, scusa?»
Anche se eravamo sulla corsia di emergenza ho messo le quattro frecce. Poi ho detto: «Io sì. Sì, che ti dico tutto. E tu?»
«Anche io. Te l’ho appena detto.»
«Ma con me è semplice. Nessuno è venuto a dirti che mi sono scopato una tua collega.»
«Non mi sono scopata nessuno. Possiamo tornare a casa?»
«E allora perché Marco mi ha detto che te lo eri scopato?»
«Non lo so. Da chi l’ha sentito?»
«Non mi ha voluto dire.»
Ha fatto no con la testa, non riusciva a capire.
«Che senso avrebbe?» ho detto.
«Cosa?»
«Che mi viene a dire che ci scopavi.»
«Non lo so. Giuro.»
«Marco è mio amico. Se lo inventerebbe, secondo te?»
«No. Non credo. Non lo so. Può essere, però. O se l’è inventato quello che gliel’ha detto.»
L’ho guardata bene.
«Sei sicura, vero, che non ci hai fatto niente?»
«Sì.»
«Sì ci hai fatto qualcosa o sì sei sicura?»
Silenzio. Con la coda dell’occhio ho visto che si è sistemata i capelli dietro le orecchie.
«Cosa ci hai fatto?»
«Niente.»
«E allora perché non ti fa arrabbiare, ’sta cosa?»
«In che senso?»
«Se dicono bugie su di te, intendo. Perché non ti arrabbi?»
«Non mi arrabbio perché me ne frego. La gente può dire quello che gli pare.»
Ha fatto un respiro profondo.
«Sicura?»
«Di cosa?»
«Di tutto quello che stai dicendo.»
«Sì. Sicura.»
La guardavo. A un certo punto mi ha sorriso, ma io no. Ha detto: «L’unica cosa, forse, è che ho comprato i libri da sua cugina. Per Scienze politiche. Ma una vita fa.»
«La cugina di Piero?»
«Sì.»
«Non è un problema, quello. Figurati. Il discorso era un altro.»
Silenzio. Le ho chiesto: «Non è un problema. Giusto?»
È passato qualche secondo. Poi ha detto: «No».
Non mi guardava.
«Ma c’era anche lui, quando te li ha dati?»
Non ha risposto e ha avuto un brivido.
«Clara?»
«Eh.»
«C’era anche lui?»
«Sì.»
«Scherzi?»
«Era prima che ci mettessimo insieme.»
«Cosa c’entra?»
Non ha risposto.
«Perché non me lo hai detto?»
«Mi è venuto in mente adesso.»
«Quando è successo?»
Guardava fuori dal finestrino, poi si è girata. Le colava il naso. Così ho preso il pacchetto di fazzoletti nel cruscotto e ne ho tirato fuori uno.
«Tieni.»
L’ha preso e si è soffiata il naso.
«Mi rispondi?» ho detto.
«Sei anni fa. Sette.»
«Sei o sette?»
Ci ha pensato un attimo.
«Sette.»
«Lui era lì, con sua cugina. Giusto?»
«Sì.»
«Tu hai preso i libri, e poi sei andata via. No?»
«Sì.»
«Quindi non avrebbe neanche senso, che dicesse a qualcuno che ti ha scopata. Avete mai parlato?»
Silenzio.
«Mi rispondi?»
«Non mi ricordo. Ciao, ciao, come stai. Non lo so. Ero lì per sua cugina. Per i libri.»
«E non me l’hai mai detto?»
Si è grattata il collo.
«Perché non me l’hai detto?»
«Perché non è successo niente.»
«Intendo adesso. Quando ti ho chiesto di lui. Perché non mi hai detto che lo avevi visto da sua cugina e che ci avevi parlato?»
«Non ricordavo. Mi è venuto in mente adesso. Che problema c’è?»
Mi sono aperto il giubbotto.
«E se ti chiedessi di mostrarmi il telefono?»
Si è messa comoda. Guardava sempre fuori dal finestrino.
«Te lo do subito, ovvio.»
Non ho risposto e ho aspettato. Lei non accennava a darmi il telefono.
«Sicura, che non è successo niente?»
«Sì.»
«E allora perché Marco mi ha detto quella cosa?»
Non ha risposto.
«E perché non mi chiedi esattamente cosa mi ha detto Marco?»
«Me lo hai detto. Ti ha detto che mi sono scopata Piero.»
Silenzio.
«Sei sicura, che non è successo niente?»
Siamo rimasti così un paio di minuti. Poi mi sono avvicinato e ho detto di nuovo: «Riesci a rispondere?».
Si guardava le mani. C’è stato qualche secondo di silenzio. Quando ho sospirato, di colpo si è messa a piangere.
«Cosa c’è?»
Le ho messo una mano sul ginocchio, ma non si fermava. Alitava sul vetro, e lo bagnava tutto con la parte destra della faccia.
«Mi rispondi?»
Ancora scena muta.
«Mi dici, se è successo qualcosa?»
Mi stavo infastidendo.
«Mi dispiace. Vorrei solo sapere. Puoi rispondermi?»
Si è messa a piangere più forte.
«Non è giusto, che piangi. È manipolatorio.»
Tirava su col naso e tossiva.
«Ci hai fatto altro?»
Ha scosso la testa, ma non riuscivo a vederle il viso. Ho acceso la luce sul tettuccio della macchina.
«Giuralo.»
Ha fatto sì con la testa, ma non parlava. Così ho insistito: «Lo giuri?».
«Sì.»
«Lo giuri su tuo fratello?»
Ho aspettato un attimo. Continuava a piangere, ma su suo fratello non giurava.
«Ci hai fatto altro, con Piero. Vero?»
Silenzio.
«Se mi dici la verità, e me la dici adesso, giuro su dio che non mi arrabbio.»
Ho smesso con le domande e dopo un po’ si è calmata. Per qualche minuto nessuno dei due ha detto altro. Ha usato il fazzoletto di prima per asciugarsi le guance. Poi ha staccato la fronte dal finestrino e ha guardato dritto, verso la strada.
«Io te la dico, la verità. Ma poi?»
«Poi cosa?»
«Cosa succede?»
«In che senso?»
Non ha risposto. Le ho messo la mano sulla spalla e ho detto: «In che senso, scusa?».
«Se ti dico la verità, cosa succede?»
«Non lo so, cosa succede. Ma me la devi dire, la verità. Cosa è successo?»
Clara si è soffiata ancora il naso e io ho spento la macchina. Si è girata e ci siamo guardati. Ha provato a parlare, ma le si è strozzata la gola. Ha scosso la testa e ha ripreso a piangere.
«Te lo sei scopato?»
Non ha risposto. Piangeva e tossiva. Fissavo il volante, aspettando che dicesse qualcosa. Alla mia sinistra è passata un’auto velocissima. Clara ha provato ad abbracciarmi, e le ho spinto via le mani.
«Mi mostri il telefono, per piacere?»
Piangeva ancora, e non lo tirava fuori. Così ho detto: «Adesso prendi il telefono. Capito?».
Si è girata di scatto e ha fatto no con la testa.
«Tiralo fuori. Per piacere.»
Ha messo le mani come per pregarmi.
«Se non mi dai il telefono, giuro su mio nonno che ti lascio qui.»
Ci siamo guardati per qualche secondo. Poi ha messo la mano nella tasca del giubbotto.
«Dammi il telefono.»
Ancora non lo tirava fuori. Ho detto: «Okay. Scendi».
Silenzio.
«Scendi, per piacere. Scendi.»
Mi guardava e non ci credeva.
«Scendi. Ti ho detto di scendere.»
Non si muoveva, così ho allungato il braccio e ho aperto lo sportello. Clara era sempre ferma. Si è asciugata il naso col dorso della mano e ha detto: «Vuoi lasciarmi qui?».
«O mi dai il telefono, o ti lascio qui. Sono serio.»
«Ti prego.»
«No.»
«Possiamo parlarne a casa?»
«Dormo da mio fratello. Mostrami il telefono.»
Per qualche secondo siamo rimasti a fissarci. Ho appoggiato le mani sul volante e per sbaglio ho fatto partire il tergicristallo. Lei ha fatto un sorriso ma io no.
«Ti chiedo di rispettarmi, e di mostrarmi il telefono.»
Clara ha fatto un respiro profondo e ha guardato fuori dal finestrino. Poi ha tirato fuori il telefono e me l’ha dato. Ho inserito il codice, e sono entrato su Whatsapp. Le prime chat erano: Lucy, la sua migliore amica. Mario, suo padre. FAMIGLIA BERNARDINI. Marika, un’altra amica. GENERALI, il gruppo del lavoro. Sono arrivato fino in fondo, ma non trovavo la chat con Piero.
«L’hai cancellata?» ho detto.
«No.»
«E dov’è?»
Non ha risposto. Ho fissato il telefono, poi il vuoto, poi ancora il telefono. Sono tornato su, alla prima chat. Poi ancora più su. Chat archiviate: 1.

E allora domaki?
*domani

Dipende a che ora
Tu sei a casa?

Yesss

Stasera?

Imposs
Sono a cena con Giulio

Da che ora?

Passa alle sette
Ma tanto ci vediamo domani

No voglio adesso, vieni
La foto?

Dopo

Adessooooooo
Cazzoooooooooooo daiiiiii

Sono a lav

Vai in bagnasciuga
*bagno
ahahahahah
Scusa sto guidando

Ok asp
cinque min

C’era una foto ma non l’ho aperta. Le ho ridato il telefono e ho messo in moto la macchina. Per circa un quarto d’ora non abbiamo parlato. Poi le ho chiesto: «Quando?».
Non ha risposto.
«Quando?» ho detto ancora.
Silenzio.
«Rispondimi. Per piacere.»
Senza guardarmi ha detto: «Quando cosa?»
«Succede spesso?»
Continuava a guardare fuori dal finestrino.
«Te lo chiedo per piacere. Rispondi.»
Non piangeva più.
«Cosa vuoi sapere?» ha detto.
«Quando è successo?»
Non rispondeva. Ho acceso la radio, ma non ricordo che canzone c’era.
«Da noi?» ho detto.
Silenzio.
«Hai scopato sul mio letto?»
Era anche il suo letto, ma non l’ha detto.
«Com’eri messa?»
«Ti prego.»
«Eri girata?»
Ha appoggiato la faccia sul finestrino e ha incrociato le braccia. Non ho più parlato, e neanche lei. A cento metri vedevo il casello.
«Hai moneta?» ho detto.
Senza dire niente ha allungato il braccio verso i sedili dietro e ha tirato su la borsa. Ha preso il portafogli e mi ha dato cinque euro di moneta. Ho rallentato, e quando ero quasi alla sbarra ho abbassato il finestrino. Fuori faceva freddissimo.

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Tiro da tre
di Eleonora Bassi

C’era questa cosa, che io volevo del melone, un martedì sera, e l’ortolano stava proprio oltre il cancello di casa.
C’era da farsi i quattro piani a scendere ̶ okay ̶, e poi a salire, con almeno due meloni in una busta.
Se dovevo togliere il pigiama, fare i quattro piani, rifare i quattro piani, rimettere il pigiama, tanto valeva farlo per due meloni.
Non mi preoccupava mica il peso, dei meloni. Non il peso su di me.
Era il sacchetto, a preoccuparmi. Si sarebbe tirato, fino quasi al cedimento.
Ogni singolo piano avrei pensato al sacchetto che si allentava e si allentava, e poi si sarebbe rotto.
Questo, moltiplicato per quattro.
Sarei rimasta con un sacchetto rotto e la voglia di melone svanita.
Era così che mi passavano le voglie. Era così che mi passavano le voglie da circa tre mesi.
Due mesi e mezzo, forse.
Alle feste c’era da sapere con chi tornare a casa, e c’era da saperlo prima di andarci, prima di scegliere l’abito e la piega.
Quel martedì sera lì, era uno qualsiasi, alla fine ero scesa.
Piano tre piano due piano uno. Terra. Bottone. Cancello.
L’ortolano si chiamava Le mele.
Aveva una figlia a cui ero simpatica, perché portavo il suo stesso nome. Il 21 febbraio le avevo detto: «Buon onomastico» e lei aveva fatto un sorriso che non mi aspettavo, per un augurio così banale.
Aveva occhi azzurri, mica di un azzurro classico. Secondo me era anche un buon partito. Le mele lavorava molto.
Da allora io ero diventata Quellasimpaticacheabitaquadifronte, e quando avevo la febbre mi portavano la frutta a casa, piano quarto.
Di solito veniva un silonese, senza tanti problemi di sacchetti.
Ma questo non c’entra con la faccenda dei meloni.
E insomma i meloni sul banco erano tanti, e c’era da toccarli, premendo sulla buccia con le dita ben distanziate fra loro.
Era una cosa che potevano fare tutti, ma mica tutti la sapevano fare.
Un po’ come il tiro da tre.
L’ortolano mi diceva: «Devi tastarli così, per capire quanto sono maturi, e scegliere quello che fa per te», e intanto io puntavo i piedi, sistemavo le gambe, aperte quanto il bacino, cercavo quell’invenzione strana chiamata baricentro, che le cose senza equilibrio si capiscono meno ̶ così dicevano a basket ̶ e quella lì era una posizione che ti aiutava.
Certo, ti aiutava se ci stavi lontana, dalle cose, insomma, se stavi oltre la linea del tiro da tre.
Io nelle cose mi ci ficcavo, e allora spesso la storia del tiro da tre non funzionava mica.
Il primo melone non mi convinceva, così ho fatto scorrere il pollice sulla buccia, nella parte in cui le linee bianche si intrecciano.
Nel tiro da tre molto dipende dal pollice. Da come scegli di posizionarlo.
Il mio pollice è piegato su se stesso, e allora non c’è tanto da fare.
Servono un paio di palleggi, prima. Assestarsi. Non sempre ne ho il tempo.
È una cosa fra me e il canestro, difficile da spiegare.
Il sole era sparito da un po’, e l’ortolano non smetteva di guardarmi, o forse era solo un’impressione mia, così, mentre il pollice si sistemava, ho detto: «Sto cercando di capire se è una voglia di meloni maturi».
L’ortolano ha scosso un po’ la testa, dicendo: «Eh, se prendi un melone maturo devi averne voglia almeno oggi e domani».
«Pensavo di prenderne due.»
«Eh, allora oggi, domani e dopodomani.»
«Anche se non sono da sola?»
«Ah… se non sei da sola no. Questo cambia le cose…»
Comunque io vivevo sola in una casa popolare.
Era una casa di ringhiera tutta gialla, in una via che di nome faceva Giangiacomo, ma era una via breve.
Il mio monolocale era in fondo a un corridoio tipo quelli delle navi Siremar.
Luci intermittenti al soffitto e cabine a destra e a sinistra. Come fossero dentro, lo potevi solo immaginare.
Io non stavo sulla ringhiera, però la guardavo, dalla finestra.
L’agente immobiliare aveva detto: «L’appartamento AFFACCIA…».
Non ho ancora capito se sulla ringhiera sia meglio affacciare o viverci.
Poi ho scelto i meloni, e ho posato i sessantasette centesimi, per evitare il resto, sul piano di legno. La moglie dell’ortolano mi sorrideva.
Proprio mentre infilavo i miei meloni nel sacchetto, è entrata una ragazza. Un ragazzo l’ha raggiunta poco dopo, ma si capiva subito che erano insieme.
Il ragazzo parlava con il silonese, tenendo un piede sopra il gradino del negozio, mentre la moglie dell’ortolano mi diceva: «Guarda che peccato, questa città, che costringe due ragazzi bravi ad andarsene. Sono anni che vengono qui, e dopo ci si affeziona come a dei figli».
Io ascoltavo la donna, pensavo a mia madre, e intanto tenevo il sacchetto poggiato sul ginocchio destro. I meloni erano proprio tondi e scivolavano.
Ho sentito soltanto il ragazzo dire: «Torniamo a Rimini».
Allora ho diretto lo sguardo altrove.
Fuori, al lato opposto della strada, con le quattro frecce che ticchettavano, c’era una macchina blu con una coppia dentro. La coppia non stava parlando, guardava me, ed era chiaro che quelli lì erano vecchi, ed era chiaro che quelli lì erano i genitori del ragazzo. O della ragazza.
Ora lo sapevo: il sacchetto si sarebbe distrutto, lento, e allora anche la voglia di melone è evaporata.
Non faccio caso al respiro, mentre palleggio. Nemmeno se faccio un’entrata.
Sulla linea da tre, invece, sì.
Quando piego le ginocchia tiro in dentro l’aria. Poi salto e la butto fuori.
Ma fra aria dentro e aria fuori c’è un momento in cui trattengo il fiato, mentre i talloni si staccano da terra, e secondo me tutti lo fanno. Tutti. Anche Belinelli.
È lì che diventa una faccenda fra me, il canestro e la distanza.
Mi sono avvicinata alla ragazza e ho detto: «Scusate, posso regalarvi uno di questi?», porgendole un melone. Lei ha chiesto: «Perché?» e io ho detto: «Così».
La ragazza l’ha afferrato, l’ha messo nella borsa e non ha detto altro.
Non ha mai guardato me, e si è avvicinata al ragazzo.
Lei non lo sapeva, che anche io ero dentro la linea, mica oltre.
Le lacrime erano più rapide del solito, quel martedì. Una specie di scorrimento veloce.
Ho incastrato sotto il braccio il melone che mi restava, proprio all’altezza del gomito, e ho fatto quello che faceva paura.
Era una cosa che potevano fare tutti, ma mica tutti la sapevano fare.
Inclinare il polso. Sistemare il pollice.
Assestarsi.
Tornare a casa.

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Un miracolo di cattivo gusto
di Daniel Coffaro

Romeo ha addosso quaranta chili in più di me e se oggi dovesse passargli per la testa di prendermi a pugni dovrei difendermi con metodi obliqui. Piantargli un coltello in gola, magari, in quel suo collo da manzo. Di fatto non vorrei rovinare la cena di Sofia, ma non mi posso permettere di passare i prossimi mesi in coma: martedì devo partire.
Sul marciapiede, poco prima di entrare, ci sono state le presentazioni di rito; anche con la mascherina sui volti ho intuito che c’era qualcosa di disonesto in questa compagnia. Sofia era curiosa di conoscere la nuova amica di Romeo, me l’ha scritto l’altro giorno. Io invece avrei preferito andar via senza dir niente, né conoscere questa tipa o elargire un falso desiderio di arrivederci.
Mentre Sofia le porgeva la mano, la tipa si è tolta la mascherina e le ha dato due baci sulle guance. E dire che le istruzioni sulle norme di sicurezza mi erano sembrate a prova di imbecille. Mi ha dedicato lo stesso affetto. È stato guardandola in viso che sono sprofondato.
Da quando abbiamo preso posto al tavolo, la nausea mi ha costretto a masticare lentamente e non deglutire; mi conservo in bocca delle pappette amare che tonificano il mio dissenso. Sofia, invece, sembra felice, ride di gusto. Anche la tipa ride molto, ma più che felicità mi sembra plastica. Mamma non rideva così, rideva meno e meglio. Aveva cura del proprio divertimento. E ci teneva all’eleganza; per esempio, non ha mai detto «Auguri, baby» a Sofia.
Per il resto, sono uguali. Identiche. Gemelle, sosia, cloni. Questa tipa è la riproduzione diroccata di nostra madre, un fallimentare caso studio per un buon genetista, il passo falso tra sorgente e modello derivato, un incubo bioetico.
«Quanti anni compi, baby?»
«Trentatré.»
«Una donna fatta e finita, ormai.»
Questa tipa parla, ride, mastica il suo antipasto croccante in una azione unica. Si presenta a noi con le sembianze quasi esatte di nostra madre, portandoci in dono un nuovo tassello d’odio nei confronti di Romeo.
Ha scelto lui il locale; ha prenotato lui; ha ordinato lui l’agnello, per sé e per la tipa. Si è dato cura di dire al cameriere che la sua amichetta non può mangiare la carota, è allergica. Gli è stato risposto che nel contorno con verdurine di stagione è presente la carota e lui ha chiesto se volessero infliggere una grave crisi anafilattica a un cliente questa sera. Così, il cameriere ha elencato le alternative: patate al forno con coriandolo, insalata mediterranea, sedano rapa abbrustolito.
«Verdurine di stagione senza la carota» ha risposto Romeo.
Branzino per Sofia. Pietà per me.
Mentre ci vengono serviti gli antipasti, la tipa intavola il suo miglior discorso: «Magari ce l’avessi io la freschezza dei trent’anni. Ti invidio, sai?».
«Non scherzare: sei bellissima» restituisce Sofia.
Sicuro che è bellissima, è la copia sboccata di tu sai chi. Sarebbe altrettanto bello che di questo la informassimo, è facile che ne sia all’oscuro. Io e te, Sofia, fratello e sorella, dovremmo dirglielo. Dovremmo dirle che non ha null’altro che un bell’aspetto, che è una donna senz’anima, che, mentre mastica, ride con lo sgarbo di una iena. Dovremmo proprio dirglielo: l’unico motivo per cui nostro padre ti si accompagna è che lo rendi un po’ meno vedovo.
Invece, Sofia sembra a suo agio. Oppure fa finta di niente.
«Quant’è carina tua figlia, gentilissima.»
«È sempre stata una ragazza gentile» afferma lui.
La gentilezza le è stata insegnata con poca cortesia, vorrei aggiungere, ma non è saggio sfidarlo. Anche se ha appena trovato la fotocopia di nostra madre, anche se siamo a cena fuori, anche se è il compleanno di Sofia, saprebbe comunque farmi sputare sangue per una parola di troppo.
«E tuo figlio, invece, cosa fa?» chiede la tipa, senza considerare di rivolgersi direttamente a me. Romeo apre la bocca.
Poi la richiude.
«Sono disoccupato» dico, trovando godimento nel mettere in imbarazzo Romeo con questa affermazione. In fondo è la verità onesta, non mi può punire per questo.
«Ha perso il lavoro due mesi fa, ma ha sempre lavorato» aggiunge lui.
«E cosa faceva?»
«Lavorava in un ristorante prestigioso.»
«Oh, è uno chef?»
«Aiuto cuoco» intervengo. «Tagliavo le carote, per lo più.»
Ciò che dico sembra divertire lei, irritare lui. La gamba di Sofia si appoggia alla mia e non capisco se sia un messaggio in codice o cosa. I piatti dell’antipasto ci vengono portati via.
La tipa prende la bottiglia e si propone di versare del vino nell’unico calice vuoto, il mio, ma io declino e la ringrazio.
«Di sicuro» prosegue Romeo «tra poche settimane troverà un’occupazione anche migliore della precedente.»
Non è vero, non sto affatto cercando lavoro. Anzi, passerò i prossimi mesi sulle strade del Nord Europa, senza curarmi di selezionare foglie di Vene Cress o conficcare sonde nella schiena di bestie accortamente frollate. Ma lui ha deciso così, che mi sto dissanguando per trovare una qualsiasi dignitosa posizione lavorativa.
«Potresti fare un corso da sommelier» mi consiglia la tipa. «Si guadagna bene e assaggi tante cose buone.»
«Meglio di no» dice Romeo. «Meglio qualcos’altro.»
Lei risponde che era solo un’idea, che ci sono tante strade e che vanno tutte bene. Sostiene che l’importante è non demoralizzarsi, che è possibile trovare lavoro o reinventarsi, soprattutto da giovani. Dice anche che la vita è bella perché ti stupisce sempre e infatti mi stupisco della dose di banalità che fuoriesce dalla sua bocca. Poi si mette a raccontare di un suo amico che, per l’appunto, faceva il sommelier. Questo tizio era un naso molto conosciuto nell’ambiente, uno che fa le analisi sensoriali, dice, ma poi destino ha voluto che si prendesse il virus. Dopo la guarigione aveva perso molta sensibilità, così ha lasciato il suo lavoro e si è reinventato.
«Una bellissima storia, grazie» dice Romeo, con il suo più inerte sorriso; poi prende il vino e riempie tutti i calici, eccetto il mio.
«E adesso cosa fa?» chiede Sofia.
«Ha un negozio di liquori» risponde lei.
Ed ecco che, al pensiero di vendere carote, «reinventarmi» assume una prospettiva del tutto inattesa.
«E tu? Hai già pensato a cosa farai adesso?» incalza la tipa.
«Ho una mezza idea» le dico.
Veniamo raggiunti dalle portate principali. Sofia scherza sul mio essere riservato, uno che parla poco di sé e dei suoi programmi: entrambe le volte in cui sono venuti a cena nel locale dove lavoravo, io non c’ero. Ero in ferie senza che loro lo sapessero. La prima volta in Croazia, la seconda in Sri Lanka.
«C’era anche mamma quelle volte» dice.
«E nonna» le ricordo «che si chiedeva dove fosse la Sri Landia
Vicino alla Tai Landia, le abbiamo poi spiegato.
La tipa ride e rosicchia il suo carré in una disgustosa azione unica. Potrei raggelare un penoso clima divertito dicendole che è uguale a nostra madre. A chi importa se poi le mani di Romeo mi fanno cadere i denti, è pur sempre anche questa una verità onesta. Se Sofia non vuole farci caso, io non riesco a pensare ad altro. Romeo mi guarda male, forse sospetta cosa sto escogitando.
Per mia sorella, devo sforzarmi di essere omertoso. Un’ultima cena frustata in faccia, ancora un breve sudato silenzio remissivo. Poi potrò non vedere più questa figura taurina che ho smesso di chiamare padre.
«Tu, invece, cosa fai nella vita?» le chiedo.
«Lei è una cantante» dice lui.
Sofia freme: «Ma davvero? Cantaci qualcosa!».
«Sì baby, ma qua non me la sento, potrei disturbare gli altri tavoli.»
Che gran peccato.
«Però mercoledì mi esibisco con i ragazzi del coro, potreste venire tutti.»
«Verremo tutti» afferma Romeo.
«No, io non ci sarò» annuncio.
«Ci sarai anche tu» risponde lui.
«Dico di no, martedì parto.»
«Dove vai?» mi chiede la tipa.
«A Copenaghen.»
«Che bello! È pieno di ristoranti lussuosi lassù.»
«Non vado per lavoro. Faccio un viaggio in bicicletta.»
«Sta scherzando» dice Romeo.
«No, Romeo, non sto scherzando.»
«Non chiamarmi così.»
«Non scherzo, papà.»
«Vai a Copenaghen?»
«Sì.»
«Non me ne hai parlato.»
«Non ancora.»
«E chi te li dà i soldi?»
«Non sono problemi che ti riguardano, papà
Il pugno di Romeo sbatte sul tavolo, facendo fioccare i cuori in gola a noi tutti. Il ristorante ci guarda. La bocca della tipa ha smesso di ridere e masticare. La gamba di mia sorella si è separata dalla mia. Romeo si toglie il bavaglio dal colletto. Inizio a credere che a Copenaghen non potrò andarci in bicicletta.
«Non andrai da nessuna parte. Lunedì vieni con me, ti troveremo un lavoro.»
«Scusate, io vado ai servizi» spezza Sofia, poco prima di lasciarci in un silenzio torvo nel quale la tipa sembra ritrovare comodità. «Mi piacciono le città del nord» dice poi lei, riprendendo la masticazione.
Romeo mi chiede perché sto cercando di rovinare la cena a mia sorella. Poverino, avrà fatto una certa fatica per trovare la controfigura di mamma e tirare su questo teatrino. Guarda, Sofia: oggi come gli anni passati, per i tuoi festeggiamenti siamo di nuovo insieme, tutti e quattro. Non è fantastico? Non sei felice? Ti mancava mamma? Adesso è qui, la puoi guardare, la puoi toccare. Ma, per dio, non guastare la magia: non lasciarla parlare.
Mi allungo e prendo la bottiglia che Romeo si tiene accanto al braccio. Dico alla tipa che, in realtà, quella del corso da sommelier mi sembra un’idea molto stimolante. Mi verso tre dita di vino e le faccio ruotare nella coppa, senza curarmi delle scosse che stanno vivificando gli occhi di Romeo.
Sofia torna dal bagno e mi guarda incerta.
Alzo il bicchiere proponendo un brindisi a mia sorella.
La tipa, già impegnata a bere, interrompe il suo sorso colandosi del vino sul mento, poi si pulisce con il dorso della mano e mi segue con calice e sorrisi. Gli altri due, invece, non sorridono.
«A Sofia, con i suoi occhi da angelo e i demoni nel cuore, unica, bella, insostituibile
«Cincin!»
Non c’è bisogno di essere un analista sensoriale per sentire l’amaro di questa sorsata, e Romeo con la sua espressione ne rivela il gusto.
La tipa si rivolge a mia sorella: «Sì, con i tuoi occhi assomigli proprio a un angelo, tuo fratello ha detto una cosa vera».
«Sono bravo a dire cose vere» le rivelo. «A proposito: c’è un’altra somiglianza che ho notato questa sera.»
Sotto al tavolo, la gamba di Sofia si infrange contro la mia.
«Spara» dice la tipa.
«Tu stai esagerando» interviene Romeo.
«No, dài, lascialo dire» insiste lei.
Sì papà, lasciami dire. Sono sicuro che voi non l’avete ancora notato.
Sofia mi prende la mano.
Svelo alla tipa che è proprio lei a ricordarmi qualcuno. «E forse è per questo che ci stiamo trovando così a nostro agio con te. È per questo che ti guardiamo con grande curiosità ed è per questo che nostro papà ha deciso di presentarci. Perché assomigli tanto alla donna che…»
Romeo si alza in piedi tirandosi dietro mezza tovaglia. «Io ti uccido con le mie mani» promette con un sussurro.
«Papà!» protesta Sofia, mentre la tipa si chiede cosa stia succedendo.
«Di’ quello che devi dire, dopo vieni fuori» mi ordina lui, prima di allontanarsi dal tavolo. Lascio che esca, bevo tutto il mio vino, mi alzo anch’io e indosso la giacca.
Sofia mi implora. Mi scuso con lei di scuse sincere.
Cammino verso l’uscita, verso l’arena che stasera ospiterà il massacro del torero. Mi cade l’occhio su un tavolo apparecchiato. Con un gesto disinvolto, prendo un coltello e lo nascondo nella tasca del giubbotto.
Varco la porta e vado incontro a mio padre.
Mi fermo davanti a lui, viso contro viso, delusione a confronto, tanto vicino da poterlo sentire tremare.
«Hai ricominciato a bere?» mi chiede.
«Giusto poco fa» ammetto.
Il nervoso che lo attraversa tende tutti i tiranti del suo collo e il respiro gli si è fatto corto. Alza una mano a palmo aperto, me la fa vedere e la stringe lentamente, come se cercasse di soffocare l’aria stessa.
Impugno nelle tasche del giubbotto la mia unica possibile difesa.
«Tu te le cerchi.»
«Non cerco nulla.»
«Non andrai a Copenaghen.»
«Sì Romeo, ci andrò.»
«Sei un egoista, non pensi a tua sorella?»
«Mia sorella se la cava bene senza di me. E pure senza di te.»
La mano che strangolava l’aria, ora è sopra i suoi occhi e percorre la fronte sudata.
«Perché vuoi sempre sfidarmi?»
«Non è così, baby
Romeo fa un lungo soffio, poi tira fuori un pacchetto di sigarette. Se ne mette una in bocca e mi porge il pacco.
Lascio la presa del coltello e prendo una sigaretta, ma una delle mie.
Lui si allontana, fa qualche passo sul marciapiede, si ferma di fronte alla finestra del ristorante, guarda dentro.
«Sono davvero uguali, vero? Un miracolo.»
Sì, un miracolo. Un miracolo di cattivo gusto.
Faccio qualche passo anch’io e mi avvicino.
«Resta qui con noi.»
«No, Romeo.»
«Chiamami papà.»
Romeo dà tre colpi di accendino e brucia la punta della sigaretta. Mi consegna l’accendino e si siede sul marciapiede. Avvicino la mano alla mia sigaretta, faccio girare la rotella e do gas. Escono scintille, ma nessuna fiamma. Ci provo ancora, due, tre, dieci volte. Il rumore interrotto dell’accendino si allinea ai singhiozzi di Romeo.
«Vuoi parlarmi del tuo viaggio?» mi chiede a voce rotta.
Gli rispondo che non voglio.
Si volta verso di me con occhi lucidi e labbra tese: «Lo sai? Mi manca. Mi manca tanto».
«Manca anche a me.»
Il pianto di Romeo dirompe, e lui non lo può fermare. Non può fare niente, se non arrendersi e ascoltare i suoni terribili con cui il suo corpo pieno traduce la disperazione.
Il fuoco esce dall’accendino e tiro due boccate di fumo. Mi volto verso la finestra e guardo dentro al ristorante. Al centro della sala, il nostro tavolo. Sofia è piegata su se stessa, con la testa affondata nelle braccia. Vicino a lei, pronta a consolarla, c’è una donna sconosciuta che assomiglia troppo a nostra madre. Una donna che si accorge di me e mi guarda. Uno sguardo severo e addolorato, che mi chiede di fermarmi, di prendermi cura di mia sorella. Uno sguardo clemente, pronto a insegnarmi di nuovo qualcosa. Uno sguardo duro. Uno sguardo attento. Uno sguardo che mi incolpa. Uno sguardo che mi perdona, e che ancora mi ama.

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La buca delle voci smarrite
di Eduardo De Cunto

Quando ero piccolo uscivo tutti i giorni a giocare con Pio in quei campi che non erano campagna, perché troppo vicini alla periferia, e non erano periferia, perché di lì a pochi passi era campagna. E non erano neanche campi, in verità: erano distese di terra intervallate da qualche sprazzo d’erbaccia.
Anche quel giorno l’afa toglieva il respiro. A pensarci oggi, non so come facessimo a stare così tante ore sotto al sole, correndo e scarpinando. Dovevamo puzzare come capre, ma sono cose a cui da bambino non badi.
Fu per caso che scoprimmo la buca delle voci.
Un topo entrò in questa grande crepa e parlò. Avrò avuto otto anni ma lo ricordo come fosse ora, tanta fu la paura che ci fece: aveva voce di donna e diceva cose incomprensibili.
Io e Pio scappammo.
La curiosità era però tale che tornammo sul posto il giorno stesso.
Pio era un tipo molto più ruspante di me: mica aveva i genitori laureati, lui. Fuori dalle mura della scuola scontavo questa pecca familiare, lui mi insegnava il mondo e io gli stavo dietro. Stavo dietro anche quando si sporse nella cavità e gridò: «Topo!».
Nessuna risposta.
«Ué zoccola e’ merd’, ci sei?»
Vedendo Pio, presi coraggio anch’io e lo imitai.
«Topaccio ci sei? Eh, topo schifoso?»
Niente, la buca non reagiva.
Rinfrancati, ci guardammo in faccia e sghignazzammo: potevamo recuperare coraggio.
«Jesci, strunz’, ca se no te chiavo ’na preta ’ncapa!»
«Te stacco e ’rrecchie!»
«Jesci, ’a fess’ e’ soreta!»
«Icc bin einsam. Fur drai Giare – (o qualcosa del genere)» rispose la buca d’un tratto, stavolta con voce grave. Pio e io scappammo rompendo il muro del suono.
Volevamo tenere per noi la scoperta. Ma il peso di un tale segreto – i topi, nelle buche, parlano! – per due bambini di otto anni è insostenibile.
Ci confidammo con Loris, che era poco più grande di noi ed era un tipo scafato.
All’inizio non ci credette, ci prese in giro. Ma noi instemmo così tanto da mettergli il dubbio.
«E allora, se è vero, fatemi vedere questa buca» disse.
Io e Pio rimanemmo un po’ incerti: se Loris avesse saputo dove si trovava la buca lo avrebbe raccontato a tutti. Si sarebbe pure vantato d’averla scoperta lui. Dimostrare che non dicevamo cazzate, però, a quel punto era diventata una questione d’onore, per cui alla fine lo portammo sul posto.
Quando arrivammo, la buca stava parlando tantissimo. E con più voci, per giunta.
«Commenallevù? Sechedis le medesà?»
«Porfavor respondeme tampronto.»
«Ainevesto’ lovingliu.»
«Omaci kudasai.»
«Non sono topi, imbecilli!» disse Loris. «I topi mica parlano! Devono essere persone che vivono nella buca.»
«Persone? E che ci fanno nella buca?»
«E che ne so io? Devono essere degli strambi, senti come parlano.» E se ne andò, lasciandoci soli con la nostra delusione.
Ci sfogammo contro gli uomini della buca: «Che cavolo ci fate lì dentro? Ma siete scemi?».
«Cornuti» gridò Pio.
In quel momento capimmo una cosa che ci risollevò di morale: anche se non avevamo fatto una clamorosa scoperta scientifica, potevamo sempre andare a sfottere la gente nella buca.
«Cretini!»
«Piglia ‘nculo!»
«Stronzi!»
Quelli continuavano a parlare, ma chi li capiva!
Da allora in poi, ogni volta che andavamo in campagna a giocare, la buca era una tappa obbligata.
Una volta una voce ci rispose per davvero: «Andate a scocciare qualcun altro!».
Allora sanno parlare!, pensammo, e subito: «Cretino, cretino!».
«Strunz’! A’ fess’ e’ zieta!»
Nella foga del gridare, però, Pio si sporse troppo e cadde.
Da lì sotto mi chiamava a squarciagola, ma la buca era troppo profonda perché riuscissi ad aiutarlo. Quello che so, me lo raccontò poi lui.
Le voci, assordanti, gli rimbombavano nelle orecchie, mi disse. Nonostante lo stordimento, si era accorto, nel buio, di un tunnel che proseguiva fino a chissà dove. Dopo i primi minuti di paralisi aveva deciso di percorrerlo. Non lo ha mai confessato, ma so che si fece sotto dalla paura.
Il condotto incontrava altri condotti in più punti, da ognuno di questi proveniva una differente parlata. Dopo un po’ di cammino, ne aveva raggiunto uno dal quale arrivavano voci che gli sembrava di capire. Lo aveva imboccato, sperando di trovare aiuto, ma si era sentito mancare il terreno sotto i piedi.
Era caduto ancora più giù, in una sorta di bolla d’aria sotterranea. La cosa straordinaria, raccontò, era che anche le voci venivano risucchiate dalla fessura, e rimanevano intrappolate in quella specie di campana di roccia. Lì, poi, riecheggiavano e riecheggiavano all’infinito, a centinaia, a migliaia: voci rapite che non sarebbero mai giunte a destinazione (disse proprio così, ma non allora. Lo disse in televisione, qualche anno fa).
Pio si era messo a piangere. Ancora peggio! I singhiozzi rimbombavano nella caverna mescolandosi alle voci. Anche questo non l’ha mai confessato, ma lo sanno tutti.
Poi, nel casino, una voce aveva detto: «Pio!».
Il pompiere si era calato nella crepa assicurato a una corda. Per riuscire a far passare i due corpi abbracciati, dovettero allargare la fenditura. Le voci fuggirono.
I miei genitori e quelli di Pio mi lodarono, e anche i maestri, dicendo che mi ero comportato in maniera ineccepibile. Ci sono anche vantaggi ad avere un amico con i genitori laureati. Uno di questi è che sapevo che 112 sono i carabinieri, 113 la polizia, 118 l’ambulanza e 115 i pompieri. Sapevo pure la guardia forestale, 1515, il Telefono Azzurro, che oggi non ricordo, e che per telefonare non c’era bisogno del gettone. Quella storia però mi ha lasciato lo stesso un gran senso di tristezza. Primo, perché avevo fatto scoprire la buca a tutta la città, ma ormai era vuota. Secondo, perché mi dispiaceva per le voci che si erano perse.
Oggi, che sono grande, sono sereno. Talvolta capita anche a me di ficcarmi in qualche tipo di buco, o di tubo, o di strillone elettrico, e di gridare lì quello che non riesco a gridare al mondo vero. E talvolta mi perdo, chissà dove.

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Piccoli atti sovversivi
di Carmen De Nisi

Piego l’angolo, prendo il cellulare, apro una nota e scrivo Fatto un orecchio alla pagina di un libro. A rileggerle una dietro l’altra le cose che annoto appaiono senza senso, e lo sono, le segno per capire se c’è un filo conduttore.
La mia psicoterapeuta li chiama piccoli atti sovversivi e quando gliene parlo vanno avanti già da un po’. È cominciato tutto in estate e sta esplodendo adesso, ma non so ancora perché: ho capito che sono cose che mi fanno vergognare, anche se a volte mi danno piacere, come quando mia madre mi chiama e non rispondo al telefono. Non schiaccio lo schermo per rifiutare la chiamata, semplicemente lo lascio vibrare finché lei non si stanca di aspettare. Alla chiamata segue un messaggio, Perché non rispondi?, non lo apro neanche, lo leggo dall’anteprima. Il giorno dopo la chiamo io, dico Non potevo parlare, ero per strada, invece stavo guardando una serie tv con la mia coinquilina.
La psicoterapeuta cerca di sviscerare i motivi di questa rivoluzione, mi chiede se sono stata un’adolescente ribelle; alle sue domande rispondo sempre Non lo so, anche se non è così. Racconto delle volte in cui ho dovuto coprire mia sorella che usciva di nascosto con i ragazzi, di quando mia madre e mio padre l’hanno trovata a casa con uno e a me hanno detto che lui era senza maglietta. Allora lei chiede Stiamo parlando di sesso?

Non faccio l’amore da sette anni e me ne sono resa conto solo da qualche mese, non ci avevo mai pensato prima. A volte ci scherzo con le amiche, come faccio con tutte le cose sulle quali non voglio che mi vengano fatte domande, ma non mi sono mai soffermata a pensare al tempo trascorso dall’ultima volta. Me ne sono accorta una sera a cena con la mia coinquilina, parlavamo di una conoscenza in comune, un professore di Lettere, sposato, sulla quarantina. Davanti a una bottiglia di vino ci siamo lasciate andare a qualche apprezzamento spinto, lei ha detto È un bell’uomo ma non ci farei mai niente, e io mi sono sorpresa a pensare che invece ci sarei stata; così, la mia testa si è messa a lavorare a ritroso, arrivando dal professore ai ricordi sbiaditi dei pomeriggi a casa del mio ex ragazzo, in cui facevamo l’amore per ore e non avevamo mai voglia di rivestirci. La mia testa dice che forse la persona che faceva l’amore non ero io, oppure non sono io adesso, è per questo che sono entrata in terapia: non conosco la persona che sono. Non è come dire che non so chi sono, è come vivere con una sconosciuta e dipendere da lei.

La prima volta che ho fatto l’amore ricordo di essermi domandata perché avessi avuto così paura di una cosa che poi mi era sembrata del tutto naturale. Era stata una rivelazione scoprire che fosse capace di aprirsi e tendersi e assecondare un altro senza alcuno sforzo, traendone anzi un piacere che non era quello perverso del dolore ma quello languido dell’abbandono. Da allora, mai una volta in cui sentissi il bisogno di trovare scuse per non fare l’amore o che nell’intimità ponessi limiti dettati dal disagio o dalla vergogna. Quelli erano sentimenti che lasciavo fuori, a letto io trovavo la coniugazione perfetta tra ciò che ero e ciò che avrei voluto essere.
Mi piaceva anche che le persone intorno, le amiche, mia sorella, persino mia madre, scorgessero in me qualcosa di diverso senza riuscire a spiegarselo. Il mio ragazzo diceva che trovare una persona capace di separare i sentimenti dal sesso era stata tra le cose migliori mai capitategli; non ero una di quelle che per rabbia gli negava il corpo, più spesso glielo offrivo quando l’aria si faceva troppo pesante, quando ci lasciavamo andare a discorsi profondi, a ghirigori di pensieri che richiedevano risposte da cercare troppo in là nel tempo: io ero io, lui era lui e poi c’era questa cosa che ci faceva stare bene. Appena i sentimenti si intromettevano ci allontanavamo per qualche settimana e poi ritornavamo l’uno dall’altra; non importava chi per primo cedesse all’istinto. Nel frattempo conoscevo altri ragazzi, ci flirtavo, difficilmente ci finivo a letto, ma il gioco del mio corpo capace di chiamarne un altro mi affascinava. Non mi sconvolgeva né mi umiliava se alla fine di una serata mi rendevo conto che l’interesse non era verso di me ma verso quello che di me avrebbero potuto fare, anzi, in qualche modo io lo assecondavo con una cura meticolosa: la snellezza, che non doveva mai scadere nella magrezza palese ma mantenersi nell’apparenza di muscoli sodi, i vestiti che lasciassero intravedere le forme, solo accennate, per non svelare la verità di un corpo che fuori dal letto mi appariva deforme, la pelle perfetta e il colorito appena appena abbronzato mantenuto con i pacchetti per lampade nei centri estetici consigliati da mia sorella. Era il mio modo per ringraziare quel corpo capace di darmi piacere.
E poi, io e il mio ragazzo ci abbiamo dato un taglio, ci siamo salutati e nessuno dei due ha più chiamato l’altro.
Subito dopo ho conosciuto uno, dodici anni più grande di me. Del mio corpo sembrava non interessargli niente, continuava a scrivermi e a chiedermi della mia vita, della mia famiglia. Mi diceva che ero bella, ma le poche volte in cui l’ho visto di persona sembrava spaventato da me, faceva fatica a sfiorarmi, perdeva persino le parole, balbettava che voleva trattarmi bene. Non riuscivo a fargli capire che volermi significava passare attraverso il mio corpo, per prendersi tutto quello che gli sembrava necessario, i traumi, i drammi familiari, le storie di quando ero piccola, le paturnie adolescenziali mai risolte. A lui sembrava ignobile, voleva trattarmi come un oggetto fragile: pensava che con un suo tocco sarei andata in frantumi, io invece mi crepavo un po’ di più ogni volta che mi offrivo e lui mi rifiutava. Non ho più accettato i suoi inviti a uscire, rispondevo sempre ai messaggi e alle chiamate ma lo trattavo come un amico. Alla fine l’ho allontanato, o forse si è allontanato lui. Dopo più niente, ho smesso di guardare qualsiasi ragazzo, mi sono gettata nello studio, poi nel lavoro e un giorno mi sono guardata allo specchio e non mi sono riconosciuta. Così sono passati sette anni e lungo il tragitto ho dimenticato di avere un corpo.

Il corpo torna a cena con la coinquilina mentre le confido che io sì, con il professore ci starei, e che quella lì, quella me che faceva l’amore, non può essere andata troppo lontana, deve trovarsi ancora da qualche parte. E così, è da un po’ che provo a stanarla.
Sabato sera raggiungo la mia coinquilina e il gruppo di amici che abbiamo in comune. Il locale in cui ci siamo riuniti per bere è un bugigattolo, da fuori non sembra altro che uno di quei club da bische clandestine, con le vetrine che danno sulla strada e, a coprirle, delle spesse tende porpora. Dentro, l’unica sedia rimasta libera è quella tra un mio ex collega d’università, che mi incastra sempre chiedendomi dei libri che sto leggendo, e una delle mie amiche con la quale ho smesso di parlare da un paio di mesi perché non fa che lamentarsi del lavoro. Nel giro di cinque minuti l’ex collega attacca a parlare di Nabokov, che è uno dei miei autori preferiti, anche se in realtà ho letto solo Lolita, comincia a spiegarmi la trama complicata di un libro, una storia di sesso e incesto, non saprei dirlo, smetto di ascoltarlo quasi subito e prendo a guardarmi intorno. Il locale è pieno di cose estrose che hanno a che fare con il Messico: piccoli sombreros, stampe di Frida Kahlo e cose così, e poi c’è in un angolino la miniatura di una Santa Muerte incastonata nel suo altarino fiorato. Sto lì a fissarla, mentre bevo e cerco di ricordare le storie che mi raccontava il mio professore all’università. Dico di getto Devono averle chiesto qualcosa, l’ex collega chiede Cosa?, indico il piccolo altare: Se chiedi qualcosa a Santa Muerte lei lo fa, ma se scopre che hai chiesto qualcosa di inutile o superficiale si vendica, prendendosi qualcuno che ami. Nel mio caso non saprebbe chi sottrarmi. Lui sembra un po’ spaesato e io mi sento improvvisamente a disagio, così faccio segno alla mia coinquilina perché venga fuori a fumare.
A fine serata, quando tutti si infilano i cappotti e si organizzano per tornare a casa, io, la mia coinquilina e una sua amica decidiamo di continuare la serata e andare a ballare.
Prima di raggiungere la pista piena di gente ci fermiamo al bancone del bar e fanno decidere a me cosa ordinare, dico al barman Tequila sale e limone per tutte, perché so che così la sbronza arriverà più in fretta. Buttiamo giù ridendo come vecchie amiche che non fanno nient’altro che passare il tempo insieme. La mia coinquilina e la sua amica indossano uno di quei berretti con la visiera che vanno di moda in questo periodo, per via di una serie tv in cui tutti lo portano, se lo mettessi io sembrerei una stupida, ma a loro sta bene, assomigliano a una coppia di modelle parigine. Sono belle, e sono giovani, e penso che come sono loro io ormai sono già stata. In mezzo alla pista comincio a ballare; siamo noi tre e poi non so come non lo siamo più, un ragazzo si mette fra noi e senza che me ne accorga mi prende alla vita. Gli metto le braccia al collo e muovo il bacino a ritmo di musica, lui deve aver capito che il campo è libero e mi bacia. Profuma di rum e di qualcosa che sembra menta ma non credo lo sia. Smettiamo di ballare ma continuiamo a baciarci, non ci accorgiamo che stanno per chiudere, i buttafuori mettono tutti alla porta, ritrovo le ragazze in un angolo ad aspettarmi. Mentre ci avviciniamo all’uscita, io con le mie amiche e lui con due amici, ci chiede di andare a casa sua, Ci beviamo una tisana, dice, Dove abito c’è un bellissimo panorama, come se potesse essere vero.
Invece non era una scusa, casa sua è una mansarda sul tetto di un palazzo non troppo lontano dal mio, c’è un balconcino in cucina e uno in camera da letto, da lì si vedono le vetrate colorate della vecchia stazione e il pinnacolo della torre, oltre che le luci accese sulla città. La tisana per tutti la prepara davvero e, dopo aver mescolato vino e tisana e residui di gin tonic che si sono portati dietro dal locale, gli altri rimangono in casa, mentre io e lui usciamo sul balconcino della camera da letto. Mi abbraccia da dietro e io elenco i nomi delle cose che riconosco da lì su, Quello è Corso Vittorio, e lì c’è la piazza, è vero? Dice Brava, mi fa girare e ricominciamo a baciarci. Anche se so che possono sentirci, gli slaccio la cintura e i pantaloni, entro nei boxer e lo prendo tra le mani, lui stacca le labbra dalle mie e tira il fiato a denti stretti, è sorpreso, poi mi guarda come per mettermi a fuoco e sembra non riuscirci, non capisco se devo continuare o no ma lui posa la sua mano sulla mia e dice: Così.
Giulio ha ventisei anni e fa il cuoco. Nel tragitto dalla discoteca a qui la mia coinquilina ha sentito che lo diceva, e mi ha rivolto un sorrisetto complice per tutte le volte che le ho ripetuto che nei miei sogni ho una relazione con un cuoco, Forse così mangerei. Lui ha intuito qualcosa e ha domandato Che c’è?, io ci ho scherzato su con una frase fatta, Non sono una buona forchetta, allora lui ha chiesto a bruciapelo, senza un minimo di pudore, Eri anoressica? E io non ho detto niente, ma gli ho lasciato intendere quale fosse la risposta.
Quando prendo il ritmo mi lascia la mano e si fa strada tra i miei vestiti: sotto il maglione, tra le calze e la canotta, negli slip. So come finirà questa cosa, ma non voglio che sia convinto di aver deciso tutto lui. Dice, Rimani qui stanotte, rispondo No, devo riportare le mie amiche a casa. Lui ha capito che è una scusa ma non insiste. Gli dico che gli lascerò il numero, che se vuole può scrivermi e possiamo rivederci. A lui sta bene. Alla fine non rientriamo, continuiamo a infilarci uno nei vestiti dell’altro fino alle sei del mattino, poi decido che è il momento di tornare a casa.
Giulio non è il mio tipo, avrebbe potuto esserlo, qualche anno fa, con quell’aria da ragazzino maturo, i riccioli castano chiaro arruffati al centro della testa e la voce che sa adattarsi a ogni momento, argentina con gli amici, rauca nel piacere, pietosa e anche un po’ infantile per ottenere; uno che non hai ancora capito se devi proteggere o lasciare che lo faccia lui. 
Mi scrive alle quattro del pomeriggio Vieni da me? Dalla mia mansarda c’è un panorama stupendo. Alle otto sono sotto casa sua, all’inizio ho pensato di chiedergli se avesse voglia di cenare insieme, poi, lungo il tragitto, mi è venuto in mente di comprare una bottiglia di vino, alla fine ho chiesto a me stessa di non fingere di volere qualcosa che in realtà non voglio, e ho camminato spedita fino al suo portone. Indossa un maglione largo e un pantaloncino, è a piedi nudi e sembra più basso di come lo ricordavo, ma il viso, la pressione delle sue labbra e la leggerezza delle sue mani sono le stesse di stamattina alle sei. Ci sediamo sul divano, lui dice che ha lavorato tutto il giorno, io gli dico che ho ciondolato per casa, Da stamattina fino a quando mi sono vestita per venire qui. Mentre parliamo mi prende le gambe e le sposta sulle sue, il vestito striminzito che ho messo sale su quasi fino a scomparire, io mi avvicino e gli passo la mano dietro la nuca prima di leccargli le labbra. Forse non ha mai avuto una ragazza che prendesse l’iniziativa, perché sembra di nuovo sorpreso quando infilo la mano nei suoi pantaloncini, ma deve piacergli visto che non la sposta.
Gli tolgo il maglione e, mentre non smetto di toccarlo, gli dico Dimmi cosa mi vuoi fare. Mi aspetto che risponda qualcosa di esplicito, lui sussurra Voglio fare l’amore con te, io ho l’impulso di andare via, anche se poi rimango a baciarlo mentre lo aiuto a spogliarmi. Appena ci stendiamo penso alle lenzuola, al fatto che mi ha sempre fatto schifo dormire in letti che non fossero il mio, però la casa ha un buon odore, un misto di zenzero e qualche altra cosa di pungente, forse un agrume, così mi convinco che anche le lenzuola devono essere pulite. Dovrei scriverlo nella nota: Fatto l’amore in un letto che forse non è pulito, o forse sì. Non mi sembra di riuscire a distinguere tra il piacere e il fastidio, li sento entrambi nello stesso momento e non mi ricordo più se è così che dovrebbe essere. All’improvviso lui si interrompe, dice Fai tu, così scivolo su di lui e mi accorgo che il dolore dura un attimo, solo un attimo prima di riconoscere la sensazione familiare. Mi muovo con più sicurezza, dice Ora va meglio, e non so se lo sta dicendo per lui o per me, ma comincia a muoversi facendomi gemere, e allora tutto quello che fino a questo momento ho temuto, i vestiti troppo corti, le parole di mia madre, i figli delle mie amiche, i capelli forse troppo lunghi, il lavoro che non mi piace, la nota sul cellulare, scompare tutto davanti a ciò che questo sconosciuto sta facendo.
Dopo restiamo a prendere fiato in silenzio. Io sto già pensando a cosa dire per andare via senza sembrare scortese. Ma lui fa Domani mi devo svegliare presto, ed è come un via libera: raccolgo le mie cose, metto il reggiseno prima degli slip, che fatico a trovare; sembra sconcertato dal mio entusiasmo. Non ci impiego più di due minuti a rivestirmi, intanto si è tirato su anche lui, nudo, mi infilo il giubbino e sono già verso la porta: Allora ciao.
Per strada cerco di attirare lo sguardo degli altri, vorrei che tutti sapessero quello che ho fatto, vorrei che mi giudicassero come una poco di buono, vorrei che lo facessero solo per lasciarmi dire che non me ne frega niente. Prendo il cellulare, apro la nota dei piccoli atti sovversivi e faccio vagare il pollice sullo schermo senza schiacciare le lettere. Non so che scrivere, magari niente. Non scrivo niente.

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Assassinio senza pretese. Una storia da Valle Pelosa
di Alessandro Messina

Morì in un bel giorno di fine aprile lungo la riva sinistra del fiume Senno. Non aveva vent’anni, non aveva un fidanzato, non aveva mai lasciato Valle Pelosa.
Non aveva avuto tempo.
Qualcuno le sparò un colpo al cuore.

Valle Pelosa era un piccolo paesino abitato da gente tranquilla, con inverni freddi e nevosi, belle primavere e calde estati. Sorgeva lungo una valle circondata da alte montagne dalle quali scendeva un piccolo fiume che lo attraversava per intero e si perdeva in mare pochi chilometri più a valle. Una fitta e immensa foresta di pini lo circondava mantenendolo lontano e proteggendolo più o meno da tutto. C’erano due bar, una stazione di servizio, un cinema che fungeva anche da sala da ballo, una palestra, un dentista e veterinario, uno sportello bancomat, un negozio di intimo e una buona connessione internet grazie alla nuova antenna 4g montata al centro della piazza Grande, al posto di una vecchia statua del generale Garibaldi che fu riposta nella cella della stazione di polizia. Cella da tempo in disuso poiché la vita criminale di Valle Pelosa si limitava a qualche gatto smarrito, che spesso ritornava a casa da solo, a un abbaiare molesto di cani, qualche lite condominiale, a volte pericolosi scambi di parolacce in stato di ebbrezza che si risolvevano sempre in un abbraccio, nei giorni brutti delle multe di divieto di sosta da contestare. Questo impegnava le giornate del commissario De Santis, veterano del corpo e maestro investigativo, meglio conosciuto come Pippo per via del naso straordinariamente lungo di cui lui era molto orgoglioso, e degli altri due agenti che con lui vigilavano sulla tranquillità del paese: l’ispettore Gallo, un omone barbuto e taciturno dotato di forza fuori dal comune, e l’agente Colombo, un ragazzotto basso e timido ancora in attesa del suo futuro.
L’ultima e forse unica indagine seria da diversi anni a quella parte c’era stata poco tempo prima: un presunto sequestro di persona.
Vittima il fornaio.
Uomo estremamente taciturno, albino e con due mani enormi da gigante. Il fatto venne denunciato dalla moglie di lui, una donna di circa trent’anni, manesca ma non brutta e di carattere odioso, la quale sosteneva di aver visto «con i miei stessi occhi» degli zingari di passaggio costringere con la forza il marito a salire su un’auto nera «sicuramente per farlo esibire come fenomeno da baraccone in dubbie fiere nei loro squallidi paesi», riferendosi al fatto che le enormi mani del marito potessero, oltre che impastare con grande efficacia acqua e farina, essere oggetto dell’interesse di un pubblico pagante.
La scomparsa del fornaio, ma soprattutto il coinvolgimento degli zingari, agitarono per diverse ore gli animi degli abitanti del paese. C’era chi non credeva agli zingari e accusava dei pastori, alcuni pensavano che il fornaio fosse morto ed era inutile cercarlo, qualcuno metteva in dubbio l’esistenza stessa del fornaio, altri odiavano tutti e ne approfittarono per tirare fuori dalle cantine forconi e scoppette per fare giustizia a caso. Si parlava di magia nera, di miracolo, di rapimento a scopo vendita per usi sessuali, c’erano strane teorie circa l’abitudine degli zingari di collezionare uomini per avere sempre a disposizione pezzi di ricambio per i loro corpi malandati. Tanto se ne disse e altrettanto se ne pensò finché non si scoprì che il rapimento non fu un rapimento. C’erano dei testimoni. Tre persone diverse videro il fornaio andare via davvero con degli zingari di passaggio, ma non rapito bensì di sua spontanea volontà. Salì sull’auto nera sorridendo dopo aver rivolto alla moglie un’ultima imprecazione come saluto. E c’era poi la lettera. Una lettera d’addio dello scomparso: «Mi hai reso la vita impossibile. Ti odio. Non cercarmi». Nessun dubbio, si trattava di fuga. L’uomo non era rapito ma fuggiasco.
«Caso chiuso» annunciò il commissario e il tempo, sospeso per l’occasione, poté ricominciare a scorrere, l’inverno fece posto alla primavera, il sole ricominciò a scaldare, le margherite fiorivano e gli uccellini cinguettavano. Si era tutti in pace, anche con le proprie coscienze.
Poi arrivò la telefonata intorno alle tre del pomeriggio, anonima e non rintracciabile.
Intanto, nel commissariato, De Santis leggeva un libro giallo, non amava il genere, lo considerava come un noioso corso di aggiornamento che non si poteva evitare. Si stava annoiando da diverse pagine quando comparvero sulla scena un colpevole e un delitto, emozionato ordinò di non disturbarlo, si rannicchiò sotto la scrivania, con il libro aperto sulle gambe, come faceva da bambino, e la pistola stretta nella mano destra pronto a ogni evenienza.
L’ispettore Gallo lottava con una difficile digestione, dopo aver resistito per un po’ si abbandonò al sonno, cadde dalla sedia e finì steso a pancia sotto sul pavimento mentre un rivolo di saliva gli scorreva da un angolo della bocca allargandosi sotto di lui.
L’agente Colombo occupava il suo posto di guardia. Teneva gli occhi fissi davanti a sé come una sentinella che si aspetti da un momento all’altro l’arrivo di un oscuro nemico e sognava. Forse il nemico, forse una storia d’amore, forse.
Lo squillo, insistente e disperato, si ripeté più e più volte finché non riuscì ad attirare l’attenzione dei tre tutori dell’ordine. Si precipitarono tutti alla scrivania su cui c’era il telefono. La circondarono. Fissavano l’apparecchio senza riuscire a decidere che fare, rispondere, sparare, scappare forse, chissà.
Fu l’ispettore Gallo, al quale dieci anni di polizia avevano cancellato ogni paura, a prendere l’iniziativa. Allungò la mano verso la cornetta e la afferrò. Lentamente se la portò all’orecchio e quindi, con voce chiara, profonda e priva di ogni inflessione dialettale declamò la tanto famosa frase:
«Polizia, chi parla?»
Ma era troppo tardi.
Non rispose nessuno.
Si guardarono senza dire niente, le bocche spalancate, immobili per così tanto tempo da permettere a qualcuno di arrivare dal fiume per avvisarli:
«Ehi, hanno sparato a una ragazza!».
A Gallo cadde la cornetta di mano.
Si voltarono verso la voce, corsero alla finestra.
Si affacciarono.
Il postino li guardò, tutti e tre, uno accanto all’altro. Impalati. Come per una foto.
«C’è una ragazza giù al fiume. Morta credo» disse, stavolta più piano.
Il commissario si voltò, corse alla scrivania, indossò la giacca, controllò che nelle tasche ci fossero pistola e sigarette, prese dall’appendiabiti il cappello e lo indossò:
«Gallo, andiamo. Colombo, suona la sirena».
Colombo corse verso la sua postazione di guardia, digitò un codice su un tastierino numerico, si aprì uno sportellino che conteneva un pulsante rosso. Lo premette.
Gallo mise in moto l’auto di servizio, il commissario salì e si diressero verso il fiume.
Nel cielo di Valle Pelosa, in quel pomeriggio di aprile si diffondeva il suono grave e spaventoso della sirena della polizia che avvisava tutti: si salvi chi può!
La macchina, elettrica ma veloce, procedeva silenziosa, al suo passaggio porte e finestre si chiudevano, si sentivano i rumori dei chiavistelli poco oliati e quello poco rassicurante dei fucili che venivano caricati. Le mamme richiamavano bambini e cani, i gatti scappavano cercando rifugio dove potevano. Le strade all’improvviso divennero deserte. Tutto era vuoto. Il sole cominciò a tramontare e arrivò il buio. Poi piovve.
Era cominciata la paura.

Il corpo giaceva a terra in posizione supina. Le gambe divaricate, la faccia inclinata di lato, gli occhi spalancati, i capelli biondi macchiati di fango. Al centro del petto un piccolo foro di colore rosso scuro della stessa grandezza della corolla di un fiore. Accanto al corpo, in ginocchio, un uomo, il dottore. Stringeva il cappello nelle mani e scuoteva piano la testa. Appena vide il commissario si alzò in piedi e gli andò incontro.
«L’ha trovata la vecchia Rosa» disse indicando una donnina con degli occhiali enormi e molto bassa che gattonava accanto al corpo. «C’è inciampata dentro, non l’ha vista.»
«Si sa chi è?» chiese De Santis.
«È la figlia del vignaiolo!» gli rispose sollevando il volto della ragazza.
«La piccola!»
«Già, la piccola. Cosa hai intenzione di fare?»
Scoprire il colpevole, ovvio, pensò. Ma era una risposta troppo banale da dare. Certo che avrebbe dovuto scoprire il colpevole. Era il suo lavoro scoprire i colpevoli. Non sapeva come, eppure lo avrebbe fatto. Avrebbe seguito le idee, che si sa, vanno e vengono, le idee sono come le barche rintanate nel porto mentre fuori il mare è in tempesta, le idee accadono, nonostante gli uomini.
«Scoprirò chi è stato» gridò agitando il pugno chiuso verso il cielo. Cadde il primo fulmine, poi venne il tuono, una piccola folla di impavidi si era riunita attorno al corpo. Fissavano De Santis ammirati. Egli avrebbe vegliato su tutti noi, egli avrebbe protetto le nostre case, egli avrebbe cacciato via la paura…
«Vi giuro che un giorno scoprirò chi è stato. Ma non ora. Ora ci sono cose più importanti a cui pensare. Lei non può restare qui. Piove, fra poco sarà notte e non voglio che il suo corpo diventi cibo per animali selvatici e ragazzini tiktokers. Gallo, avvolgila in un sacco e restituiscila alla famiglia. Colombo resterà di guardia qui tutta la notte.»
Il luogo del delitto venne transennato, fu disegnata la sagoma del cadavere sul selciato, la sirena venne spenta. Gallo infilò il corpo della ragazza in un sacco da cadavere e lo caricò nel portabagagli.
«Bene, qui non abbiamo più nulla da fare, possiamo andare via.» Ringraziò il pubblico presente e lo invitò a tornare a casa. Salì sulla macchina che partì sgommando.
Colombo restò fermo sugli attenti, la vecchia Rosa gli faceva compagnia, lo teneva per mano e gli raccontava storie di un oscuro passato. La pioggia era ormai temporale. Ombre si muovevano veloci tra le stradine vuote. I ragazzini selvatici si avvicinavano, sentiva le suonerie dei loro cellulari, impugnò la pistola, sapeva che avrebbero cercato di fare dei video a ogni costo. Il vento diffondeva cupe filastrocche. Un corvo gli si posò sulla spalla e cominciò a beccargli l’occhio destro. Aveva un solo caricatore di riserva e temeva non gli sarebbe bastato.

C’era un mistero a Valle Pelosa, e stormi di incubi cominciarono a volarci intorno.

Davanti al commissariato si radunò una piccola folla. Il sindaco per l’occasione improvvisò un breve discorso:
«Perché la felicità va premeditata, la felicità non è solo un diritto ma ancor più un dovere. Perciò cari vallesi sorridete, le facce tristi non portano bene, mostrate un sorriso alla sorte avversa, raccontate ottimismo e barzellette, siate allegri, siate vitali».

Ognuno di loro avrebbe per sempre ricordato quel giorno.
Colombo, bagnato fradicio e infreddolito, preda delle ombre e delle storie malsane della vecchia Rosa.
L’ispettore Gallo, che restituì il corpo alla famiglia e scavò con le sue mani la fossa nel giardino affinché potessero seppellirla.
E De Santis, il commissario, che, seduto alla scrivania del suo ufficio, si puntò una lampada in faccia accecandosi. Si sarebbe interrogato per primo per dare il buon esempio. Se fosse riuscito a dimostrare la propria innocenza avrebbe interrogato il resto del paese. Cominciò con la domanda che non aveva mai osato farsi: perché?
All’inizio non si seppe rispondere, poi si raccontò. Per diverse ore.

Nel frattempo, fuori al commissariato la fila cresceva, la gente veniva anche dai paesi vicini per farsi interrogare, tutti volevano contribuire, magari anche testimoniare. Ognuno portava con sé un alibi. Erano talmente tanti gli alibi che la croce rossa fu costretta a montare delle enormi tende per contenerli. Si cominciarono a distribuire acqua, zuppe calde e coperte. Poi cadde la neve, le strade divennero bianche.
I mesi passarono e venne l’autunno.
Le indagini non procedevano. Oltre che nome e cognome della ragazza poco altro si sapeva, e quel poco era inutile. Il commissario De Santis fu costretto a dichiarare irrisolvibile il mistero. Gallo e Colombo cominciarono il letargo. Era di nuovo inverno.

De Santis trascorreva lunghe giornate in silenzio a fissare una stampa di Escher, ne cercava direzione e senso. Sperava che in fondo a qualche scala, in una stanza che ancora non aveva scoperto, potesse nascondersi la risposta alla domanda: chi è stato? La gente in paese mormorava, lo si accusava di non essere all’altezza del compito. Ma che ne sapeva la gente? Come potevano tutte quelle persone sapere, anche solo immaginare ciò che lui solo, davanti a quella irrisolta domanda, provava?
Cercare un assassino per mesi. Sospettare di tutti. Poteva essere chiunque. Ma chi? Di nuovo la domanda, chi?
Aveva ordinato ai suoi di trovare risposte, qualunque risposta. raccogliere le risposte lasciate per strada, quelle nascoste nel buio delle case, dimenticate nell’ombra dei silenzi. Risposte. A ogni costo. Risposte.
«Poi ci metteremo accanto le domande.»
Semmai.
L’idea poi gli venne che nemmeno se l’aspettava. Se proprio un colpevole non si riusciva a trovare lo si poteva inventare. Non era certo un’idea originale ma:
«Non dobbiamo certo organizzare una sfilata di moda, l’importante è che sia efficace».
In un mondo dove tutti sono innocenti un colpevole da dove può arrivare? Forse dalle stelle, forse da oltre il mare o dall’estremo oriente, forse da qualche strano modo di pensare. Da dove?
Qualcuno che di sua spontanea volontà si sacrifichi per salvare tutti?
«No. Perché rischiare? Inventeremo un colpevole. Unico. Definitivo. Una volta inventato ci sembrerà anche vero.»
Ma prima del colpevole c’era bisogno di una storia, della giusta versione dei fatti. Si riunirono tutti e tre: De Santis dettava, Colombo batteva a macchina, Gallo faceva centinaia di fotocopie da distribuire in paese.

La ragazza passeggiava lungo il fiume perché era primavera. Per questo incontrò il suo assassino. Era costui un amante rifiutato. Per vendicarsi l’aveva uccisa.
Gelosia. Semplice. Lineare. Rassicurante.
Seguiva invito a presentarsi nella piazza principale dove sarebbe stato rivelato il nome dell’assassino.
Qualcuno sarebbe stato colpito nel mucchio. Qualcuno li avrebbe salvati.
È stato lui, è vero.
L’ho riconosciuto.
Perché non ci abbiamo pensato prima? Era così evidente.
Con quella faccia lì, si vede che è colpevole.
È la faccia a trasformare il prescelto nel colpevole. La faccia della vittima sacrificale, del capro espiratorio che si trasforma.
Era normale solo un attimo prima e ora: occhiaie, barba incolta, brutto, sporco e magari anche con la forfora.
Sospiri di sollievo e abbracci.
«Caso chiuso» annunciò il commissario De Santis, affacciato a un finto balcone.
E fu di nuovo tranquillità.

Poi un giorno un ragazzino uscì di casa. Doveva vedere gli amici. Cominciò a correre. Incontrò un uomo. Andò a sbattere contro un uomo, a dire la verità. Un uomo normale, cappello a cilindro bastone e guanti. Caddero a terra tutti e due. In direzioni opposte.
L’uomo sorrise, il bambino educato ricambiò il sorriso e chiese scusa. L’uomo si alzò, si pulì con le mani i pantaloni, raccolse il cilindro e lo calzò bene in testa. Poi aiutò il bambino ad alzarsi, gli pulì una macchia di fango sulla faccia.
«Tutto bene? Dove correvi così forte?»
Il bambino guardava e non rispondeva. L’uomo raccolse da terra il suo telefono. Lo studiò con attenzione. Sorrise. Funzionava.
«Funziona. Me lo puoi dire, coraggio, dove correvi?»
«Tu sei cattivo?» domandò il bambino con un filo di voce.
Esitò prima di rispondere.
«Cattivo? Forse, perché lo vuoi sapere?»
«Perché la mamma mi ha detto di non parlare agli uomini cattivi.»
«L’uomo compose un numero, si poggiò il telefono all’orecchio.»
«Sai, credo proprio che la tua mamma abbia ragione. Sì. Sono cattivo, davvero cattivo. Ma tu non devi preoccuparti, non l’hai fatto apposta a incontrarmi, non credi?»
Il bambino ci pensò per un po’, e sì, credeva proprio che il tizio avesse ragione, in fondo correva per i fatti suoi.
«Come ti chiami?» chiese l’uomo.
«Polizia, chi parla?»
Sparò. Lo colpì al centro del petto. Un piccolo forellino rosso scuro. La corolla di un fiore.
«Pronto? Chi parla! Chi parlaa!!! Chi par…»
Ricominciamo.

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Numero 29

È passato un anno e mezzo dall’ultima volta che ci siamo visti, anche di più. Ne sono successe di cose, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, siamo tornati. E adesso eccoci qua a raccontare un nuovo numero di «Colla». Il 29!
Per farlo, non posso che iniziare dalla copertina. È un autoritratto, così come lo sono le dodici illustrazioni interne*. Tutte opere realizzate dagli ospiti della Casa per la Vita Artemide nell’ambito di «Questo è un poster», campagna di sensibilizzazione contro il pregiudizio sul disagio mentale, finalizzata a favorire l’inclusione sociale delle persone affette da disturbi della mente.
La Casa per la Vita Artemide è una struttura residenziale a carattere socio-sanitario di Racale (LE), che coinvolge i suoi ospiti in numerosi progetti e attività di carattere culturale e artistico. Quando abbiamo saputo che tra queste attività c’era anche la lettura di «Colla», abbiamo pensato a un modo per collaborare con loro. E grazie a Walter Spennato, coordinatore della struttura (e autore, tra le altre cose, di tre raccolte di racconti per Besa editrice), l’idea ha preso forma.
Ringraziamo infinitamente, oltre a lui, i tredici artisti degli autoritratti: Ada, Alessandro, Anna, Anna Maria, Cosimo, Donatella, Gianni, Giovanni, Jimmy, Luigi, Luigi (l’altro), Marcello e Raffaele.

A rischio di trasformare questo editoriale in una lunga lista di ringraziamenti, non posso esimermi dall’estendere la mia gratitudine agli autori dei racconti che compongono il numero. Non solo per averci proposto le loro splendide storie, ma soprattutto per la pazienza che hanno avuto nell’aspettare di vederle pubblicate.
In Il mio collega Gianmarco Perale (autore di Le cose di Benni, Rizzoli, 2021) ci fa assistere al dialogo che avviene nell’abitacolo di un’auto tra un ragazzo e una ragazza. Già dalle prime righe la tensione acquista una consistenza quasi fisica. Accanto a quello verbale scorre un dialogo parallelo, ma fuori sincrono, fatto di piccoli gesti, che anticipa ciò che le parole renderanno esplicito.
Tiro da tre è una storia fulminea e fulminante, uno spaccato di vita, un’istantanea in cui ogni frase contribuisce a costruire un racconto metaforico, ma non ovvio, appena allusivo. Grazie alla scrittura di Eleonora Bassi ci immergiamo nella narrazione tanto da avvertire il profumo dei meloni dell’ortolano, condividiamo le emozioni della protagonista come se si trattasse di una vecchia amica.
Al centro di Un miracolo di cattivo gusto, di Daniel Coffaro, c’è una famiglia. Padre, figlio, figlia. La morte della madre è un dramma recente, ma qualcuno sembra aver trovato il modo per fingere di averla ancora accanto. Un modo, però, piuttosto discutibile. A primo acchito verrebbe da descrivere come atipica la famiglia raccontata da Coffaro, ma più il conflitto si intensifica più emergono quelle incomprensioni, quelle inadeguatezze e quei tentativi frustrati di rendere felici gli altri che caratterizzano ogni nucleo familiare.
Con La buca delle voci smarrite Eduardo De Cunto ci trasporta in un mondo in cui tutto può succedere. In cui una buca può parlare infiniti linguaggi, assorbire insulti, restituire risposte piccate, diventare una perfetta valvola di sfogo, e anche il segreto più prezioso di due bambini annoiati.
La protagonista di Carmen De Nisi appunta i suoi Piccoli atti sovversivi su una nota del cellulare. Gesti che spesso le provocano imbarazzo, ma anche piacere. Un nuovo piccolo atto sovversivo sta per arrivare e con esso, forse, un’altra fase della vita.
Assassinio senza pretese è un titolo insolito per un noir, ma del resto nel racconto di Alessandro Messina c’è poco di canonico. Il paesino di Valle Pelosa è un posto tranquillo, in cui non accade nulla, almeno fino a quando una telefonata non sconvolge la solita giornata oziosa del commissario De Santis. È anche un racconto molto speciale per «Colla». Si tratta infatti della prima volta che sulla rivista compare un caso da risolvere. Ci abbiamo preso gusto, però, e non vogliamo che sia l’ultima. Per questo arriveranno presto novità in proposito.

*Le illustrazioni interne sono presenti nel pdf, non sono invece visualizzabili online.

Marco Gigliotti

Il mio collega
di Gianmarco Perale

Ho accostato la macchina e ho messo le quattro frecce. Clara ha detto: «Possiamo arrivare a casa, almeno?»
«Devi dirmi la verità.»
«Te l’ho detta, la verità.»
In autostrada non c’erano macchine. Continua a leggere…

Tiro da tre
di Eleonora Bassi

C’era questa cosa, che io volevo del melone, un martedì sera, e l’ortolano stava proprio oltre il cancello di casa. C’era da farsi i quattro piani a scendere ̶ okay ̶, e poi a salire, con almeno due
meloni in una busta. Se dovevo togliere il pigiama, fare i quattro piani, rifare i quattro piani, rimettere il pigiama, tanto valeva farlo per due meloni. Continua a leggere…

Un miracolo di cattivo gusto
di Daniel Coffaro

Romeo ha addosso quaranta chili in più di me e se oggi dovesse passargli per la testa di prendermi a pugni dovrei difendermi con metodi obliqui. Piantargli un coltello in gola, magari, in quel suo collo da manzo. Di fatto non vorrei rovinare la cena di Sofia, ma non mi posso permettere di passare i prossimi mesi in coma: martedì devo partire. Continua a leggere…

La buca delle voci smarrite
di Eduardo De Cunto

Quando ero piccolo uscivo tutti i giorni a giocare con Pio in quei campi che non erano campagna, perché troppo vicini alla periferia, e non erano periferia, perché di lì a pochi passi era campagna. E non erano neanche campi, in verità: erano distese di terra intervallate da qualche sprazzo d’erbaccia. Continua a leggere…

Piccoli atti sovversivi
di Carmen De Nisi

Piego l’angolo, prendo il cellulare, apro una nota e scrivo Fatto un orecchio alla pagina di un libro. A rileggerle una dietro l’altra le cose che annoto appaiono senza senso, e lo sono, le segno per capire se c’è un filo conduttore. Continua a leggere…

Assassinio senza pretese. Una storia da Valle Pelosa
di Alessandro Messina

Morì in un bel giorno di fine aprile lungo la riva sinistra del fiume Senno. Non aveva vent’anni, non aveva un fidanzato, non aveva mai lasciato Valle Pelosa. Non aveva avuto tempo.
Qualcuno le sparò un colpo al cuore. Continua a leggere…

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Gianmarco Perale

Trentatré anni, originario della provincia di Venezia, vive a Milano, dove ha frequentato la scuola Belleville. Un suo racconto è stato pubblicato su «‘tina». Il suo romanzo d’esordio è Le cose di Benni (Rizzoli, 2021), finalista al Premio POP, al Premio Flaiano under 35 e al Premio Severino Cesari.

Ha pubblicato su «Colla»: Il mio collega.

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Alessandro Messina

Nato a Napoli nel 1974. Appassionato di lettura, viaggi e serie tv, lavora nel settore dello spettacolo come light designer. Scrive storie da quando era adolescente.

Ha pubblicato su «Colla»: Assassinio senza pretese.

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Eduardo De Cunto

Nato a Benevento nel 1983. Ha condotto studi giuridici e oggi vive e lavora a Bari. Voleva tuttavia fare anche qualcosa di serio, per cui scrive canzoni, racconti, romanzi. Recentemente, alcuni suoi racconti sono apparsi nella raccolta Come salmoni, a cura dell’agenzia Lorem Ipsum, e sulle riviste «Risme», «Voce del Verbo», «Squadernauti», «La nuova carne», «Quaerere» e «Bomarché». Collabora ogni tanto con il blog letterario «Vita da editor».

Ha pubblicato su «Colla»: La buca delle voci smarrite.

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