Annuncio immobiliare
di Francesco Mila

Il palazzo si trovava in un quartiere che un decennio di gentrificazione aveva reso di pregio. Il rifacimento del manto stradale, il completamento della metropolitana e negozi, supermercati, scuole; la compresenza di un multisala e di una sala d’essai garantivano ai residenti una qualità della vita abbastanza alta. Noi abitavamo un trilocale con affaccio panoramico sulla piazza. L’affaccio, ci aveva spiegato la titolare dell’agenzia, sarebbe stato addizionato per eccesso nel commerciale; eccesso che nell’annuncio (che sarebbe apparso in aprile) avrebbe ridimensionato non poco la percezione dell’appartamento.
Era, il trilocale, una soluzione ideale per studenti o per giovani coppie – o un investimento sicuro e ad alto reddito. Finemente ristrutturato: per anni era stato un bilocale comodo con una sola camera, un bagno (comodo) e un salotto con cucina a vista: la ristrutturazione aveva dimidiato il salotto per ricavarne la seconda stanza.
Per noi, l’appartamento era troppo piccolo. Ma per circa un triennio, il triennio della degenza in clinica di mia sorella, quando ancora le possibilità del trilocale coincidevano con le esigenze di due persone (una camera per ciascuno e mezzo salotto come zona franca) l’appartamento era stato «solamente» piccolo. Col ritorno di mia sorella, con la cessione di una delle due camere (quella ricavata dal salotto) in favore suo, col conseguente trasferimento di nostro padre sul divano letto (in quello che rimaneva del salotto), la necessità di vendere si era ripresentata.

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APPARTAMENTO RISTRUTTURATO

Nel cuore del Quartiere, a ridosso della Piazza, proponiamo una soluzione finemente ristrutturata con relative certificazioni, posta al quarto piano di uno stabile di sette, con ascensore e servizio di portierato per l’intera giornata. L’appartamento è composto da: ingresso, soggiorno con angolo cottura e accesso al balcone, due camere matrimoniali e doppi servizi. L’ubicazione, in uno dei quartieri più belli e più serviti, rende questa unità immobiliare particolarmente adatta a studenti e a giovani coppie, grazie alla vicinanza di scuole, supermercati, università e mezzi di trasporto pubblici che collegano ai vari punti della Città.

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C’era, nell’annuncio apparso il primo di aprile sui principali portali, sotto al pdf della planimetria e al codice incomprensibile della classe energetica (gli impianti erano ristrutturati con relative certificazioni), sotto al prezzo (gonfiato epperò trattabile), ai recapiti telefonici dell’agenzia, rimandanti la sede di via dell’edera e la succursale di via del frassino, una postilla che avevo imposto e che menzionava, in un capoverso, la presenza della colonia felina durante i mesi primaverili. Mi pareva che rappresentasse per casa nostra un valore aggiunto. (Ecco un fatto che avevo visto capitare nel corso delle primavere passate: che parte della colonia si riversasse dal cortile sulla nostra o sulle strade attorno, e che i turisti, incuriositi dalla massiccia presenza, si raggruppassero in crocchi di fronte alla pizzeria, al negozio di articoli sportivi, alla tavola calda, generando indotti economici di cui aveva beneficiato l’intero quartiere. Il quartiere era simile ad altri centri che si sviluppano rapidamente tutt’attorno a un fenomeno. Centri in cui fenomeno e popolazione si abbarbicano, al punto che l’uno non può prescindere dall’altro).
Da aprile, quando il cortile diventava vivibile, i gatti si acquattavano dietro moncherini di palme e si arrampicavano sul muricciolo che delimitava il confine con l’altro stabile, si slinguavano impudicamente lungo l’androne o battagliavano per un posto al sole sulle panchine. La colonia discendeva in parte dai due gatti che il portiere Virgilio aveva trovato in una scatola da scarpe un ventennio prima, durante una gita domenicale nella campagna laziale. Sapevamo la storia perché il figlio, Orazio, quando Virgilio era morto aveva invitato me e mio padre al funerale, in una chiesa nei pressi dello stabile (Esquilino) dove il nonno di Orazio (e padre di Virgilio) mezzo secolo prima era stato a sua volta portiere.
Quando mi fermavo da Orazio, lo ascoltavo rievocare Virgilio per tramite dei gatti, lanciando occhiate ai pacchetti che aveva la delega di prendere per conto mio se né io né mio padre eravamo in casa. Fissavo il gattone grigio che si faceva le unghie sui pacchetti, i gattuncoli verde-occhieggianti che si azzuffavano sulla scrivania, e intanto Orazio raccontava delle gite domenicali che facevano assieme per la campagna, quando lui era ragazzo epperò già sapeva che sarebbe stato portiere (avevano il portierato nel codice genetico: mi figuravo una dinastia di portieri con radici profonde nei sottoscala romani), mi diceva del desiderio che il padre aveva di mettere in piedi una piccola casa, su terreni comprati a due lire in quanto privi di edificabilità; e del tentativo di costruirci ugualmente, ma senza successo; per via – ipotizzava Orazio, afferrando la collottola di una gattina – di pastori dalla pelle scura che portavano in quei terreni a pascolare le capre; pastori che Orazio ricordava con un grosso pugnale, in quattro attorno a suo padre, una domenica che era con lui (Virgilio aveva diploma di geometra) a prendere le misure per il progetto della casa che non fu mai costruita.
La passione che Virgilio nutriva, a detta del figlio, per i gatti fin da quand’era ragazzo, fin da prima di studiare da geometra e di mettere al mondo Orazio, di portarlo in campagna a litigare coi pastori (Sikh), fu quella che poi lo spinse a prendersene in carico due, che non aveva avuto il cuore di sterilizzare.
Orazio (che non aveva avuto figli; e avrebbe così interrotto, dopo appena una generazione, quella stirpe di portieri gattari inaugurata dal padre) mi faceva penare un quarto d’ora abbondante, prima di consegnarmi il pacchetto ammaccato dalle zampate.
Io avevo cominciato ad appassionarmi ai gatti durante il primo maggio del nostro trasferimento. Ci eravamo trasferiti perché il quartiere non era distante dalla clinica, e facevamo la spola fra la clinica e casa (allora pensavamo che mia sorella non ne sarebbe uscita per almeno un decennio). Per mesi, prima della trasformazione del bilocale in trilocale, io e mio padre avevamo dormito nella stessa camera – l’unica non contando il salotto –, in due lettini che più tardi, dopo l’accensione di un mutuo, dopo avere ottenuto i soldi per iniziare i lavori, Orazio si sarebbe preso in casa per sistemarci Virgilio.
Gli edifici, nascosti da impalcature (ritinteggiavano di rosa salmone palazzine grigiastre), circondavano il viale dov’era il grosso delle attività commerciali. Oltre le vetrate coppie, giovani o non più tanto. (Erano le stesse persone che la titolare, più tardi, avrebbe identificato come potenziali acquirenti). Raggiunto il parco, procedevo lungo il vialetto illuminandolo col telefonino. C’era uno stagno, un ponticello che lo attraversava e una panchina, su cui rimanevo a fissare l’acqua e a rimestarla con dei sassolini. Di giorno, quando le giostre erano in funzione il parco era popolato. Di sera era desolato ma avevo l’impressione che qualcuno, una coppia o uno studente assassino, mi stesse aspettando. (Pensavo a quanto può essere inospitale un luogo che non si conosce: a come sembri in ogni momento sul punto di doverti fare del male). Una notte, avevo raggiunto il parco, scrostavo con un rametto fango da sotto le scarpe, mi ero trovato davanti uno dei gatti del nostro portiere. Mi fissava e mandava un brusio che ricevevo fortissimo.
Non accennava a scapparsene. Mi studiava mentre gli rivolgevo improperi accompagnati da sciò. Poi mi ero irrigidito, avevo sentito un agitarsi di siepi, e visto Orazio avvicinarsi con un gatto in braccio e lo sguardo a terra. Pensavo, dal modo con cui salutandomi aveva sillabato il mio nome, mentre il gatto gli miagolava incontro e l’altro, nerissimo, si divincolava e rovinava sullo spiazzo, ai piedi di Orazio che per poco non lo calpestava, per poco non inciampava nel primo tentativo a vuoto di afferrare il secondo; notando ora il tubero che aveva in luogo del naso, le palpebre tanto socchiuse da farmi intendere che non ci vedeva; mentre mi dirigevo verso Orazio che cadeva e imprecava (una specie di lamento impotente rivolto al dio dei portieri romani); pensavo che fosse bevuto eppoi, da vicino, l’odore me l’aveva confermato.
Gli avevo afferrato un braccio, facendo attenzione a non perdere d’occhio i gatti, che non sembravano interessarsi e si slinguavano a coscia alzata a pochi metri da noi (chissà quante volte lo avevano visto così, per loro doveva essere un’abitudine tanto quanto per il padrone dare loro la caccia). Orazio resisteva, per capriccio suo o della gravità; ora sgranava gli occhi come quei santi del Caravaggio e quando finalmente, per le ascelle, ero riuscito a rialzarlo, aveva rivolto la bocca nella mia direzione, mi era arrivata una zaffata irrespirabile. Aveva sbiascicato un «Grazie» allargando le braccia e temevo cadesse di nuovo. Mi ero offerto di riaccompagnarlo, che il percorso era lo stesso e non mi costava, e Orazio si sforzava di darsi un contegno nel declinare; c’erano Minù e Fifì ancora nascosti, non si fidava a lasciarli dormire all’addiaccio – non per loro, mi aveva chiarito, ma per le macchine, per gli ubriachi. Intanto che riafferrava le due collottole avevo controllato l’orario. Era tardi, e si vedeva una luna gigante, quasi piena. Una di quelle lune che dal terrazzo del vecchio appartamento credevo sul punto di precipitare nel Tevere. «Senti» gli avevo detto, «ti do una mano a cercarli» – e Orazio non aveva risposto, teneva i due gatti in braccio e si allontanava in direzione della giostra. Sulla piattaforma ritirava la pancia per farsi spazio fra gli animali di plastica. Era scomparso nel fondo di una carrozza e riemerso con un bianco pezzato che si era liberato e andato a infilare sotto il ventre del cavalluccio accanto. Come allungava un dito, il gatto (Minù) glielo feriva. Io cercavo Fifì («è grosso» mi aveva istruito, «tigrato»), perlustravo le siepi e schioccavo la lingua e frugavo nei fondi delle altre carrozze. Intanto il cielo aveva preso a schiarirsi, la ciucca a svaporargli, e Orazio era riuscito a recuperare Minù e le menava colpetti crudeli col polpastrello. Mentre ci dirigevamo verso il cancello, incipriato di terra era riapparso Fifì; lo aveva arpionato affidandomi finalmente uno degli altri. Camminavo guardando i fiorai che si davano il cambio, l’edicolante che sollevava la saracinesca mentre un paio di cameriere spazzavano e i gabbiani beccavano e inservienti dell’Ama fumavano addossati al camion che intasava la strada. Allora il quartiere mi era sembrato meno estraneo e più o meno vivibile. E raggiunto il palazzo, liberati i gatti e congedatomi stancamente da Orazio che proprio ora mi ricordava un pacchetto in portineria da giorni, che magari, ipotizzava smessi i panni della notte e già pronto nella tenuta del mestiere, era per il dottore, per tuo padre, incassati da Orazio pacchetto e pacca (un modo di scusarsi impacciato o di ringraziarmi non so) e infilatomi in ascensore, scartato il pacchetto – conteneva un libro per mia sorella, una storiella che avevo letto anni prima e mi sarebbe piaciuto portarle: il medico che l’aveva in cura glieli sequestrava, me li restituiva a poche pagine dall’inizio –, inserite con cautela le chiavi per non svegliare mio padre, stesomi sul divano coi piedi rivolti alla portafinestra, ero rimasto a guardare l’alba che filtrava allungandosi in strisce sul parquet del salotto. Ed era la prima volta, forse, da quando ci eravamo trasferiti, che riuscivo a non pensare alla clinica e mi addormentavo tranquillo.

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Durante le visite all’appartamento mia sorella non era presente. Aveva preso a frequentare un Centro non lontano da casa, dove offrivano sostegno individuale o terapie di gruppo. Io rimanevo alla scrivania di vetro della mia stanza, fingevo di leggere, e ascoltavo i commenti laconici della titolare dell’agenzia («Qui abbiamo salotto con cucina a vista… Il primo bagno è cieco, ma prende luce dall’altro… Ci aggiriamo intorno ai settantacinque»), aspettavo il momento in cui i visitatori si fossero ricordati della colonia, fissavo il medesimo capoverso fino a sentirlo insensato e mi facevo trovare chino sotto il riverbero della lampada. Come sentivo «l’è permesso» mi voltavo, davo il benvenuto. Cercavo di sondare le opinioni sui gatti dello studente o della coppietta naïf. Ma quasi nessuno ne aveva una, e i più si limitavano a sollevare dubbi sulla portineria, sull’uomo che avevano visto ciondolare all’ingresso. Io rispondevo che in cinque anni non si era mai perso un pacchetto (falso), che Orazio era gentile e discreto e, oltre a svolgere bene le proprie mansioni, si preoccupava del benessere della colonia, somministrava a ciascun gatto razioni dignitose di croccantini che, sottolineavo, incidevano solo in minima parte sulle spese di condominio. I visitatori (si davano appuntamento dirimpetto il palazzo, alternandosi ogni quindici venti minuti; la titolare ripeteva a ogni gruppo la litania, approssimava il calpestabile per eccesso, distribuiva le planimetrie da una risma e batteva sui doppi vetri per fugare ogni dubbio sull’impatto sonoro) cominciavano a interessarsi: li sentivo sussurrare proposte e domandare margini di trattabilità; si portavano appresso il metro per sbugiardare l’annuncio. Avevano quasi tutti un vocalismo meridionale (io temevo una proposta dalla coppia di Vicenza): visitavano trilocali appetibili nei pressi dell’Università, appartamenti malmessi di anziani insediatisi quando il viale era un complesso di case popolari.
Talvolta mi domandavano chi abitava l’appartamento. Allora mentivo, mi imbarazzava rivelare che nostro padre negli ultimi due anni aveva dormito in salotto. Quando tornava dal lavoro, mia sorella dalla terapia, raccontavo a entrambi com’erano andate le visite. «Nessuno ha menzionato i gatti.»

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Quando era stata dimessa – ancora faticava a mangiare, masticava lentamente ogni boccone dei piatti che le preparavamo, si alzava all’improvviso da tavola e correva a rovesciare in bagno –, e per la prima volta le avevamo mostrato la casa, la camera già sistemata coi poster e l’acchiappasogni e la collana dei romanzi di Roald Dahl – mia sorella rimaneva in silenzio mentre le illustravo le funzioni dell’impianto di riscaldamento – l’avevamo invitata a sdraiarsi sul materasso ergonomico e a dirci se le lenzuola le piacevano o se trovava la fantasia floreale un po’ troppo vezzosa. Nostro padre aveva avuto la delicatezza di non parlare della cessione – non volevamo darle pensieri, meglio dormiva meno a lungo avrebbe avuto bisogno del Tavor –, ci muovevamo con mille cautele e io cercavo di nasconderle la paura ogni volta che ne incrociavo lo sguardo. Mi ero accorto del dispiacere segreto che le veniva dalla cessione: lo esprimeva nella clausura della nuova stanza, quando nostro padre apriva il divano srotolandosi il letto. Mesi dopo, dall’affaccio (aveva già preso a frequentare il Centro), la spiavo rasentare vetrine senza fermarsi o cercarsi riflessa, e muovere nervosamente il collo senza sapere dove assestare lo sguardo. Il quartiere sarebbe rimasto per mia sorella sempre il luogo della malattia.

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Un pomeriggio, al termine della sessione di visite, salutavo l’ennesima coppia col sorriso che mi ero imposto con chiunque non menzionasse la colonia, la titolare mi aveva detto di dovermi parlare eppoi, quasi non potesse aspettare, mentre la coppia scompariva dietro il primo tornante di scale, era tornata con circospezione sul pianerottolo, si era aggrappata alla maniglia della porta.
«È arrivata una proposta.»
Cesare aveva la faccia smunta, una barba rossiccia e, da quel che ricordo – era affascinato dalla libreria, insegnava italiano in un istituto privato – della visita di due settimane prima assieme alla moglie (in realtà compagna) – Alice, o Alessia, magrolina anche lei; occhiali spessi con montatura tartarugata; assistente sociale al campo nomadi di Tor di Quinto –, da quel che ricordo di entrambi (un prendisole bordeaux con peli e lanugini un po’ dappertutto, l’espressione felina di Cesare dietro la barba), mi erano sembrati una coppia affiatata e in linea con le altre che andavano stabilendosi nel nostro quartiere. La titolare aveva organizzato un incontro alla sede di via del frassino. Ricordo, in quell’occasione, che la vista del portachiavi di Alice (o Alessia) mi aveva tranquillizzato: un persiano stilizzato, cartoonato, che aveva propiziato l’intesa che in poco meno di un’ora avevamo raggiunto, su una cifra non distante dalle nostre intenzioni. Siccome non eravamo lontani, e con Cesare e Alice/Alessia ci eravamo presi in simpatia, nostro padre aveva proposto di spostarsi a casa; ché con la scusa del caffè avrebbero preso le prime misure. Ora, attraverso il viale, osservando i negozi, i due ingressi della metropolitana, gli edifici che affiancavo di notte – o all’alba, poco prima del traffico –, quando la strada era dei gabbiani e dei netturbini, mi sembrava avessero perso tutto il sospetto che fino a quel giorno me li aveva fatti evitare. E ascoltando Cesare e Alessia (mi ero chiarito una volta per tutte il dubbio legato al suo nome) che parlavano con la titolare di ristoranti, palestre, librerie del quartiere dove si sarebbero trasferiti una volta firmato il rogito, dei parchi dove avrebbero portato il figlio che non avevano ma che avrebbero avuto; ascoltandoli mi ero sentito felice per loro, pensavo sarebbero riusciti dove noi non eravamo stati capaci.
Orazio fumava sul marciapiede rivolgendo ai passanti sorrisi cordiali. Un paio di gatti (avevo riconosciuto Fifì) prendevano il sole accanto a lui; e altri erano sparsi lungo l’androne nella stessa posa. «Loro» aveva detto mio padre a Orazio che esclamava Buongiorno, dottore!, «loro abiteranno qui.»
E Cesare si presentava un attimo prima che Alessia, curva su un gattino sfusacchiante, si rialzava, scrollandosi peli dai pantaloni; allungava il braccio sistemandosi gli occhiali con l’indice libero. Orazio parlava del quartiere, dei cambiamenti, alternando orgoglio a esclamazioni mordaci, che sciorinava scuotendo la testa e rivelando la chierica. «A me» aveva concluso alla sola Alessia, ora che Cesare e mio padre si erano allontanati (confabulavano a bassa voce con la titolare), «a me quello che succede non m’interessa.»
In quel momento alcuni gatti erano schizzati via dal portone della scala B: un Bullmastiff abbaiava nevroticamente tendendo il guinzaglio; mi ero voltato a osservare la scena intanto che Orazio continuava il discorso. «Fra poco, se tutto va bene mi trasferisco.»
Lo apprendevo adesso (nei giorni precedenti non mi aveva accennato niente): i pastori erano stati allontanati da un comitato locale – e Orazio era tornato in campagna (sui terreni avevano abbandonato rifiuti e i pilastri del fabbricato erano coperti di pentagoni rossi tracciati con lo spray). Ora, in portineria abbondavano progetti della casa futura, fotografie in cui posava assieme a Virgilio. «Dopo, quando finite dal dottore vi faccio vedere.» Aveva affisso una circolare per avvisare i condomini, si scusava e ringraziava per la fiducia che avevano avuto nel delegargli i pacchetti, per la comprensione dimostrata negli anni nei confronti dei gatti. Concludeva con un autografo in cattivo corsivo.
Seguivo Cesare e Alessia lungo le scale (avrei voluto stracciare l’acconto e che se ne andassero), preceduti da mio padre e dalla titolare – e di piano in piano si amplificava una litania di cui, giunti davanti al portone, avevamo individuato l’origine in alcuni membri della colonia. C’era, fra i tre che si appendevano alla maniglia di ottone come invasati dal desiderio criminoso di irrompere in casa, intanto che altri due ci tenevano soffiando a distanza in un silenzio interdetto, il gatto incontrato cinque anni prima sulla panchina del parco. Cesare aveva stretto Alessia e mandato un gridolino, la titolare era scivolata sbilanciando mio padre e per poco non cadevano entrambi: il gatto del parco mi era corso attraverso le gambe e gli altri appresso uno dopo l’altro; il portone era coperto da solchi di scasso fallito. Mentre ci riprendevamo dallo spavento – mio padre aiutava la titolare, Alessia teneva la mano a Cesare che si schiariva la voce per camuffare l’accelerazione del battito – alcuni portoni si erano aperti dabbasso: i condomini si erano affacciati e la titolare era deflagrata in un’invettiva nei confronti di Orazio. Alessia e Cesare provavano a tranquillizzarla e mio padre a inserire le chiavi.
«Non si apre!»
Allora si era messo a bussare e a chiamare mia sorella per nome.

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Orazio è partito per la campagna il mese scorso. A giugno, dopo la ricaduta avevamo cercato di prendere tempo, ma Cesare e Alessia avevano bisogno di un appartamento e a fine mese la titolare ci aveva comunicato che non erano più interessati all’acquisto del nostro. (Alla fine, si sono trasferiti nel trilocale del Bullmastiff). Certe volte, andando in clinica incontro Cesare: mi guarda con la coda dell’occhio eppoi mi sfila accanto col mento basso. Entrambi ci ignoriamo e di Alessia non so niente. Da quando Orazio ha lasciato il quartiere il fermento si è un poco attenuato, i ristoranti sono meno affollati e all’esterno di alcuni esercizi campeggia il cartello AFFITTASI, all’interno si ha la sensazione di un’incursione dei vandali.
Adesso il trilocale non interessa a nessuno: l’annuncio è ancora presente ma è un po’ come vendere un appartamento dov’è stato commesso un delitto. «Magari» ha concluso la titolare al telefono «fra qualche anno, forse… ma per ora…»
Per ora ogni giovedì pomeriggio vado in clinica da mia sorella. Certe volte, se la giornata è bella aspetto il primario per contrattare mezz’ora di uscita – e se la ottengo la porto al parco, le offro un gelato, che mangiamo sul ponticello che sovrasta lo stagno. Dopodiché ci sediamo, mi racconta come sta andando la terapia, dei farmaci che prende e degli sfoghi cutanei che alcuni le causano. Osserviamo i bambini che accarezzano la gatta stabilitasi da qualche tempo nel recinto delle giostre. Si lascia sfregare la pancia a occhi chiusi; e quando li apre, se incontra quelli di mia sorella ho sempre paura che possa accadere qualcosa; le afferro un polso, la abbraccio, la lascio ansimare e quando sento la pressione dei denti la stringo come per stritolarla.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 27 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.