Pupillo
di Noemi De Lisi

Ogni volta che ti accasci, Panzer ti insulta e tira su con uno strattone. C’è solo lui a tenerti fermo, ti stringe le braccia dietro la schiena, ci fissa da sopra la tua testa. Aspetto il mio turno in fila dietro gli ultimi camerati. Potrei sputarti in faccia come hanno fatto loro, magari in quella nebbia di saliva manco mi riconosceresti.

Di chiamarti «Pupillo» era venuto a me. Quel pomeriggio ascoltavamo Panzer in sala riunioni. Tu eri in ritardo come al solito. Ci stavamo combinando per la manifestazione di Acca Larentia, stavolta dovevamo farla giusta, più grande. Lui ha smesso di guardarci e di parlare, si è sfregiato allungando gli angoli della bocca: «Eccolo!» Mi sono girato e ti ho visto attraversare la sala, saresti dovuto sparire quel giorno. A ogni passo avresti potuto tramutarti in acqua e allagare il pavimento. Mi sarei piegato per raccoglierti in fretta, avrei strizzato lo straccio sopra un secchio fino a rompermi le dita. Ti sei seduto accanto a Panzer e vi siete baciati sulle guance. «È arrivato il pupillo» ho detto, e tutti hanno riso, tranne tu. Dicevi che ero stato un coglione a chiamarti in quel modo ad alta voce, che ti avevo rovinato per sempre. A me invece continuava a sembrare il nome più giusto. Quando tuo padre ti chiamava, lasciavi tutto, pure nel mezzo delle riunioni, e scappavi: «Mio padre ha bisogno, sta male, se non ci vado io, non ci va nessuno» dicevi, ma noialtri sapevamo che non era vero; dei tuoi fratelli lui se ne fregava, voleva solo te, sarebbe morto senza di te. Anche Panzer ti guardava con occhi diversi, non si raschiava mai la gola per rimproverarti come faceva con noi. Diceva che ti vedeva bene come responsabile dopo di lui, che dovevamo portarti avanti perché eri laureato. Hai capito, finalmente, quanto era bello quel nome, quando loro non sorridevano più strizzando gli occhi per la gioia di vederti. Hai capito la differenza quando hanno cominciato a chiamarti «Traditore».

Sto sudando, anche se siamo a gennaio, Panzer si lamenta di aver aspettato così tanto prima di punirti, ha detto che ora tutto l’anno sarà sfortunato perché lo stiamo incominciando così. Ha detto anche che avremmo fatto presto, che non era cosa da passarci la notte, e invece poco fa ho guardato l’ora e sono già le 3:07. La luce fredda della sala riunioni ti fa la faccia blu come se fossi annegato, l’aria è viziata e sento il sudore che mi cola dalle ascelle, mi graffia lungo i fianchi. Nessuno ha riaperto la porta da quando ti hanno portato dentro, nemmeno per fumare, ci siamo rinchiusi con te. Abbiamo strisciato via le sedie da una parte, le abbiamo incastrate una sopra l’altra, un trono altissimo. Ci siamo dovuti mettere in quattro per alzare e spostare il tavolo grande; l’ho preso dal lato dove ci sedevamo sempre, quello con il rivestimento distrutto.

Quando ho cercato di cambiare posto, una volta, mi hai detto che per come sei abituato tu, i posti a D&D non si cambiano più durante una campagna, anche se dura un anno. Non ti interessavano tutte le mie scuse sui gomiti scorticati e i maglioni sfilacciati. Dicevi che era la stessa cosa del casinò, e mica quelli che giocavano là poi andavano a cambiare il posto se era fortunato:
«Ma che vuoi dire, mica giochiamo con i soldi…»
«Non c’entra giocare con i soldi o no, ci serve lo stesso la fortuna per uscire vivi da questo mondo di draghi.» Eri l’unico a soffiare sui dadi prima di lanciarli sul tavolo, anche se tanto giocavi un druido razza umana livello 21, il pg più forte della nostra compagnia, Maestro delle Molte Forme, poteva tramutarsi in qualsiasi creatura, non ti serviva a niente la sorte.
Sei sempre stato diverso dagli altri, ci siamo capiti subito. Quando sono entrato in sede con Bardo, credevo di non dare troppa confidenza, credevo sarebbe stata una cosa solo mia e sua, ci conoscevamo dalla scuola, gli altri rimanevano estranei, non c’entravano niente con noi. Invece poi tu mi hai legato subito, avevi la soluzione a tutto e non pensavi mai male della gente, mi sentivo tranquillo con te. Come quando ti ho fatto salire a casa mia; a parte Bardo, non ci era mai salito nessuno. Mia madre si agitava con gli estranei, diceva che la casa è brutta, che c’è la muffa sul soffitto del bagno, che è una vergogna perché la mia stanza non ha manco una porta. A te, però, piaceva la mia stanza, dicevi che sembra un rifugio militare, e che la cucina ti faceva sentire contento perché è arancione: «Fosse per me, starei sempre a casa tua». Mia madre ti sorrideva e si preoccupava che sentissi freddo. Non avevamo i riscaldamenti, ed eravamo abituati a indossare due felpe una sull’altra: «Signora, non si prenda pena, sto benissimo così, ho il sangue bollente di natura». Mi prestavi i tuoi fantasy preferiti, mi dicevi che era giusto leggere di più in generale, che dovevo allenare l’immaginazione almeno per rolare meglio a D&D; stavi in camera mia, sdraiato sul tappeto impolverato a parlare fino a sera, andavi via presto solo se tuo padre ti chiamava.

Bardo è davanti a me, gli fisso la nuca: da quando si è rasato i capelli, il porro si vede subito, sembra uno scarafaggio piccolo, di quelli che ogni tanto trovo in cucina fermi sull’anta della credenza. «Dai, smuoviamoci» dice Panzer guardando verso il fondo della sala, dov’è appeso il tricolore con la scritta: L’Italia chiamò. Poi cala la bocca sul tuo orecchio: «Stai imparando qualcosa o no?» Tu hai finito di urlare, non scalci più, tieni la testa bassa, gli occhi chiusi e le gambe molli. Bardo si avvicina, ti solleva la faccia tirandoti i capelli: «Schifo della terra» dice e ti sputa sulla guancia.

Era bello andare in giro insieme a te; Bardo certe volte era troppo pesante, i suoi silenzi mi soffocavano, spesso non glielo dicevo nemmeno di venire con noi. Quando c’eri solo tu, ci rompevamo i fianchi dalle risate ad abbaiare contro gli indiani, gli facevamo scattare il cuore davanti ai loro negozietti puzzolenti, poi entravamo e prendevamo le bottiglie, uscivamo senza pagare, non s’azzardavano a dirci niente. Panzer ci aveva detto di evitare di fare gli interventi da soli, di rimanere calmi, ma noi, quando ci capitava, li facevamo lo stesso perché ci sentivamo in dovere, tu dicevi: «Siamo in dovere verso il nostro popolo, è giusto? Insomma, basta babbiàri. Ci dobbiamo smuovere anche se facciamo cose che vanno contro gli ordini. Sai come si chiama? Principio di disobbedienza civile. Se vedi qualcuno in pericolo, che fai, non lo aiuti perché altrimenti disobbedisci? È la stessa cosa. Noi direttamente evitiamo che si crei il pericolo, agiamo alle fonte del problema, capito? Li leviamo di mezzo».
Per le ronde notturne, ci facevamo a piedi tutte le fermate di via Roma partendo dalla stazione. Ormai sapevamo a che ora il gruppo di negri prendeva l’N11, ci mettevamo lì a controllare in caso ci fosse qualche ragazza sola bisognosa di aiuto. Quelle scimmie andavano di sicuro a rubare il lavoro. Prendevano il Notturno separati, in fermate diverse, si ritrovavano poi su, si salutavano, ridevano, una bella gita, e poi scendevano insieme a Roma-Belmonte, infilandosi nella strada che scende al porto, «Qualche volta li seguiamo, chissà che schifiu vanno a fare, sono pagati di sicuro». Quando li vedevamo alle fermate, non li facevamo salire sull’autobus, gli urlavamo che se ne dovevano andare, volavano con uno spintone, potevano pure farsela a piedi, non era mezzo per loro quello. Poi, i negri avevano imparato a riconoscerci e non salivano sull’autobus quando c’eravamo noi, superavano la fermata camminando veloce. Noi ridevamo quando ci passavano accanto con la testa bassa, gli facevamo le finte: uno scatto in avanti, fermi, «Ti scanno!» Quelli saltavano in aria e si mettevano a correre, poi si voltavano, rallentavano, e ci guardavano male, con gli occhi sporchi e ingialliti, ce li hanno così di razza.

Stanotte, Bardo è il nostro eroe, ti prende a pugni sulla bocca, ti fa saltare un dente con le sue braccia troppo magre, ha il tirapugni che gli ho regalato per Natale. Fisso il dente sul pavimento per non perderlo, per raccoglierlo dopo quando nessuno guarda, ma ci hanno messo sopra le scarpe, già non lo vedo più. Chi lo ha inghiottito? Panzer trattiene una risata, si raschia la gola: «Avanti, che ora c’è la parte più bella… vediamo se deve cadere qualche altra testa stanotte». Tu apri gli occhi e li rovesci, si vede il bianco che mi fa impressione, butti l’aria come una bestia. Hai una striscia di sangue colata sul maglione beige, quello sdillabrato che ti piaceva, ti divide il petto a metà, vicino al colletto è più larga, poi si assottiglia, diventa aguzza, come una lingua di rettile.

Avevi sempre avuto delle idee strane, però almeno prima avevi dei valori, stavi dalla parte giusta. All’inizio eri il migliore, eri il primo a proporre le spedizioni, dicevi le cose come stanno, sapevi cosa avremmo dovuto fare con tutte quelle zecche sparse per la città, avevi dei progetti. Qualcuno poi ti ha infettato, è stato per amore? Se solo avessi qua davanti chi ti ha cambiato, lo prenderei a calci in bocca, gli farei quello che stiamo facendo a te adesso. Hai rovinato tutto, è colpa tua se siamo finiti così. Quando parlavamo da soli, era un altro discorso, quelli erano fatti nostri e mi stavi pure convincendo. C’era qualcosa nella tua faccia, qualcosa di misterioso che potevo vedere solo io.
«Perché non lo fai tu il master qualche volta al posto di Panzer? Alla fine sei quello che ha letto di più.»
«Quando si decide un master, poi rimane lui, non è che si può così…. poi lui lo fa da anni. Possiamo provare quando incomincia un’altra campagna, caso mai. Per dire, lo potresti fare pure tu, perché io? Non ho più tante idee per ora, non mi sento più dentro il gioco.»
«Ma che minchia dici, io non posso narrare proprio niente, anzi adesso con i libri che mi hai prestato un po’ mi viene meglio a rolare ma alla fine vorrei che lo facessi tu, secondo me saresti bravo.»
«E invece forse il mio pg lo faccio proprio morire la prossima sessione e basta. Lo butto in mezzo a un’orda di barbari con le asce più grandi delle loro teste e non chiamo nessuna metamorfosi.»
«Cioè, vuoi suicidare il personaggio così, dopo tutti i livelli esperienza che ti sei fatto!»
«Non ho più fantasia, mi sono seccato. Sto pensando alle cose reali, mica si può continuare così all’infinito, tutta questa cosa non me la sento più. Noi, loro… il mondo vero è diverso, a farci le storie siamo bravi tutti. Per te ha ancora senso questo modo di fare politica?»
«Ma appunto, mica facciamo politica, non siamo mai stati un partito, si agisce nel sociale che è diverso. Ma dici vero?»
«Non lo so, per me non ha più senso, è tutto esagerato, sbagliato, tu lo vedi ancora l’obiettivo della missione? Guarda là sotto, in fondo alla strada, è tutto confuso, sfocato, vedi le luci delle macchine mischiate, sembra un terremoto. Riesci a vedere qualcosa di chiaro?»
I camerati non avrebbero mai scoperto i nostri discorsi se tu non fossi andato in sede, tutto orgoglioso, a dire che la politica finora era sbagliata, che eri stanco di giocare ai soldati, che non te la sentivi più con la storia degli immigrati e delle zecche, che tuo padre stava morendo e dovevi diventare più forte lasciando indietro tutto l’odio. Hai voluto metterti in mostra, fare la tua parte da egocentrico, bravo, esci dal gruppo, e ora vedi come sanguini dalla bocca mentre cadi a terra?

Sei tutto sparso sul pavimento, hai la faccia in giù, i capelli sudati ti coprono, non li hai mai voluti rasare. Sto guardando solo te mentre Panzer mi fissa, sento i suoi occhi puntati sulla fronte come due corna. Ti darò un calcio per ogni sillaba del tuo nome: pu-pil-lo. Prima, però, ti sputo addosso come hanno fatto loro, voglio imitarli in tutto alla perfezione. Mi piego sulle ginocchia, ti tiro per un braccio e ti volto. Mi spavento perché hai gli occhi aperti, sono annacquati di rosso. Mi rialzo, la saliva, dalla mia bocca, ti cade addosso come una stalattite. La sala è una grotta, la tua tana o la nostra? Ti passi una mano sulla faccia, hai un conato di vomito, mi guardi, prendi fiato. Ti colpisco prima che tu possa parlare.

Da quando ti ho chiamato «Pupillo», per me è stato sempre come se mi venissi figlio, anche se abbiamo la stessa età. Pure tu, certe volte mi chiamavi «figghiò», eravamo padri, oppure gemelli? Un gemello cattivo, nascosto, una bestia addormentata. Voglio farti più male di tutti, nessuno deve scoprire il nostro segreto, quel momento in cui siamo cambiati. Nessuno può accusarmi, non deve succedermi niente, per il bene di mia madre, lo capisci questo? Tiro i dadi per te, il punteggio è molto alto, la fortuna ti ha baciato, ti trasformi in un drago. Panzer cerca di contenere il tuo potere, di stringerti, ma le braccia gli si allargano fino a spezzarsi, cade all’indietro, sbatte forte la testa sul pavimento, mentre il tuo corpo si tramuta, diventa enorme, si ricopre di spuntoni, squame verdi brillanti. I tuoi occhi sono gialli, affilati, sbuffi vapore dalle narici, fai tremare l’aria, spalanchi le fauci e accendi tutti i nostri sogni. Moriamo bruciati, ci scolpiamo nella cenere, rinchiusi in questa sala. Ti muovi lento, è tutto troppo piccolo per te, con un balzo sfondi il soffitto, il calcinaccio ci nevica addosso, l’ombra delle tue grandi ali aguzze si apre su di noi, ci copre.

La punta della mia scarpa si scaglia contro la tua pancia, il tuo petto, la tua bocca, tirarla indietro e ricominciare mi viene difficile perché il tuo corpo mi trattiene. Pezzi di te mi rimangono attaccati al piede come una poltiglia appiccicosa. Ho le vertigini, sudo, siamo troppo ammassati in questa stanza, tutti gli uni sugli altri, su di me, attorno a te. La notte sta passando, mia madre sarà preoccupata perché non mi vede tornare. Vorrei fermarmi ma ho un grumo in gola che mi soffoca, si scioglie solo a ogni calcio, e sparisce nel coro alto, rauco del tuo nuovo nome: «Traditore, traditore!»

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 27 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.