Mestile
di Alessio Angioni

È cominciato tutto con la denuncia di un furto.
Qualche giorno dopo le volanti della Polizia si sono fermate in un punto della provinciale e gli agenti hanno transennato l’area. Ci siamo goduti la scena nascosti nel fienile della cascina abbandonata. Odore di polvere da sparo e una manciata di polli squarciati poco lontano dal bordo della strada. Le penne impiastricciate di schizzi di sangue arterioso disposte sul prato come in un disegno da terza elementare. Una nuvola al tramonto riflessa sulle acque verdi di un lago. Plasma su clorofilla.
La settimana seguente è stata la volta di un cane. I padroni stavano tornando all’ora di pranzo dalla ricevitoria, in cui avevano affisso la fotocopia di una schedina vincente del Superenalotto. Hanno trovato la bestia in cortile con la testa esplosa, i denti seminati per il prato, schizzati dalla mascella in ogni direzione. Sul giornale hanno scritto che la figlia di sette anni piangeva dalla finestra del primo piano con le mani a coprirsi gli occhi. Uno di noi ha detto che non era per lo spavento del botto o per le urla della madre, ma per il colore grigiastro del cervello liquefatto che colava dalle narici del cadavere.
I vicini non avevano visto nulla.

Occupazione dei territori domestici, è così che uno di noi l’aveva chiamata. Ce n’eravamo scordati di come fosse avere i genitori in giro per casa, addormentati sul divano col telecomando in un pugno e la televisione accesa sulla diretta di un quiz a premi, concentrati a temperare matite per cerchiare annunci di lavoro stagionale. Padri distratti che innaffiano l’orto mattina e sera, madri che si ingobbiscono nella pulitura delle pesche bianche per la marmellata. Li preferivamo quando non c’erano, assenze giustificate, quando tornavano dalla fabbrica la sera tardi giusto in tempo per lavarsi e preparare la cena e sedere a tavola con gli occhi annegati nel brodo. Volevamo tornassero così, lo sognavamo ad occhi aperti osservando da sotto un albero la gente entrare e uscire dalla drogheria, confinati sul suolo pubblico, profughi e assetati. Prima che chiudessero il lanificio e la cava di pietra era tutta un’altra storia. Prima che mettessero le catene all’ingresso del campo sportivo, giocavamo di notte sotto la luce di un solo lampione. Prima che smettessero di tagliare l’erba nei cortili del municipio, sapevamo dove fuggire dopo cena.
Uno di quei giorni soffocati dal sole, mentre giravamo in bici vicini alle recinzioni, seguendo l’ombra degli alberi nei viali di villette a schiera, qualcuno alla radio aveva detto che era colpa di certa gente se era finito tutto. La voce veniva dalla finestra aperta di una mansarda e bisbigliava che era il tipo di gente che guidava macchine di grande cilindrata, che frequentava circoli privati, che passava le vacanze al mare della Costa Azzurra.
Un manifesto elettorale denunciava infiltrazioni nel sindacato.
Durante il consiglio comunale a qualcuno era scappato un nome e un cognome.

Eravamo all’inseguimento di una di quelle macchine scure per vedere in faccia la gente che aveva rovinato tutto. Con i pedali incollati alle suole, gli stavamo alle costole, attenti a non farci scoprire, quando si è tuffata in un parcheggio alzando una nube di calce. Ci siamo lanciati giù dal sellino e abbiamo deviato a sinistra evitando lo spiazzo, sdraiando le bici nell’erba alta. Con la mascella serrata masticavamo i granelli di polvere, riconoscevamo i più grossi sotto la pressione degli incisivi, sentendoli incollati al palato e sulla punta della lingua. Quello di noi in testa al gruppo ha fatto segno di abbassarsi e seguirlo nella pineta. Finalmente ombra. Per terra una distesa di aghi bruciati dal sole, dall’alto il giro di basso di una vecchia canzone accompagnato da uno schiocco, come di una bottiglia stappata, fuori tempo, regolare, un suono pulito. Poco prima di ogni schiocco un ansimare gutturale. Di fronte a noi, una rete metallica alta tre metri coperta da teloni verdi in vinile.
Nessuno di noi aveva mai visto un posto del genere.
Il più grande del gruppo ha tolto le scarpe, si è tirato le maniche della maglietta sulle spalle. Lo abbiamo guardato arrampicarsi su un albero, quello più vicino alla recinzione. Ha fatto una smorfia e ha inspirato a narici spalancate quando una scheggia gli si è conficcata nel polso. Si doveva mettere una mano davanti agli occhi per vedere, spostava la testa nel tentativo di schivare il riflesso del sole.
Cosa vedi? ha chiesto uno di noi.
Delle persone, ha risposto lui sottovoce.
Che fanno?

Allora?
Un cazzo di niente. Stanno sedute sotto degli ombrelloni.
E poi?
Ci sono un paio di ragazze con dei vassoi in mano.
Ragazze?
Sì. Hanno tutte in testa lo stesso cappellino da baseball.

Aspetta, ha detto quello sull’albero.
Che succede?
Una delle ragazze ha lasciato qualcosa a un tavolo. Un biglietto, credo. L’uomo seduto lo sta firmando.
Sono qui davanti a noi?
Cristo, no. Sono più su. C’è un edificio sulla collinetta.
Allora cos’è questo rumore?
Il figlio del ferramenta ha tentato di tagliare il telone con un coltellino svizzero. La punta della lama si è storta. Allora ha insistito con il seghetto, pugnalando la superficie spessa fino ad aprire una piccola fessura. Ha inciso verticalmente fino a che non è riuscito a scostare i lembi e a vedere dentro.
Fanculo, ha detto. Sono solo due grassoni.
E non ha fatto in tempo a dire altro, che lo abbiamo preso per la maglia e scaraventato in mezzo alla polvere. Ha cominciato a lamentarsi. Si è preso un calcio. Gli abbiamo frugato nelle tasche, ma niente. Uno di noi lo ha trascinato per i capelli. Abbiamo scoperto il coltellino ai nostri piedi e abbiamo ricavato altre feritoie.
Di fronte a noi c’era un campo di terra rossa segnato da linee bianche e una rete bassa era tesa nel mezzo. Due uomini sudati impugnavano delle racchette.

Non si muovevano più di tanto. Un mezzo passo in avanti, un maldestro balzo laterale. Distendevano i gomiti cercando con gli occhi la pallina e una volta che questa li aveva superati restavano qualche secondo piegati sulle ginocchia a riprendere fiato. Sopra il campo, un edificio a due piani dalle pareti bianche. Uomini in camicia con al polso orologi luccicanti. Donne in polo e pantaloncini corti. Occhiali scuri. D’improvviso l’aria si è riempita di un sibilo acuto.
E questo? ha chiesto uno di noi.
Veniva dalla nostra sinistra. Impossibile vedere in quella direzione.
È la sputa-palline, ha detto quello sull’albero.
La sputa-che?
La macchina che sputa le palline. Nell’altro campo.
C’è un altro campo?
Credi costruiscano un posto così con un solo campo?
Che vuoi che ne sappia.
Se non stai zitto scendo e ti riempio di schiaffi, ha ruggito quello sull’albero guardando di sotto.
Anche sforzandoci di farlo, cercando di strappare con le dita qualche centimetro in più di telone, agitando il torace contro la rete metallica, non riuscivamo a vedere che di fronte a noi. I due uomini se n’erano andati. Il campo era deserto. Abbiamo sentito un altro suono acuto, simile a un fischio, ma questa volta più lungo e più acuto, e subito dopo come uno sparo attutito e un rumore di cespugli, e ancora uno sparo attutito e uno schiocco e qualcosa che finisce sulla rete metallica, e poi uno sparo attutito e uno scivolare di passi, e così via. Una delle palline è uscita dal campo e ha rotolato fino in mezzo alla pineta. Così, mentre alcuni rimanevano sotto l’albero o aggrappati alla rete, altri correvano in quella direzione, con le facce mimetizzate nel riflesso verde dei teloni di plastica.
All’angolo del campo la rete era rotta.

Siamo tornati il sabato seguente.
Nascosti nei cespugli, tra i binari e il parcheggio del Tennis Club gremito di macchine scure, abbiamo aspettato il passaggio del treno per coprire il rumore dei nostri spostamenti. Uno di noi ha tirato fuori un pacchetto di sigarette industriali che diceva di aver rubato dalla borsa della madre. I suoi genitori erano gli unici ad aver trovato un nuovo lavoro in paese. Secondo un paio di noi, le sigarette non le aveva rubate, le aveva comprate o, al massimo, ha detto uno, poteva averle barattate con il cugino più grande per dei giornali con le donne nude. Mentre restavamo accucciati pancia a terra, lui distribuiva le sigarette e raccontava questa storia. Diceva che aveva letto da qualche parte, non si ricordava dove, che era possibile costruire una specie di mina a pressione tagliando in due una pallina da tennis e mettendoci dentro una testa di fiammifero. Una granata pronta a esplodere a una forte sollecitazione esterna. La chiamavano bolide. Aveva letto che lo avevano già fatto, che funzionava.
Una nuvola si è fermata sopra le nostre teste.
Abbiamo sentito i vagoni sferragliare in lontananza.
Quel pomeriggio, sull’albero è salito un altro. Altri coltelli, altre feritoie. Era tutto come l’ultima volta. Solo che al posto dei due uomini grassi, c’erano due signore di mezza età con la visiera in testa e asciugamani con delle lettere cucite adagiati su una panchina. In compenso sotto gli ombrelloni sedevano molte più persone. Quello di noi che stava sull’albero ha tentato di raggiungere un ramo più alto, e quando ce l’ha fatta si è spinto ancora più su. Si è acceso un mozzicone di sigaretta. Ha sbuffato.
Dev’esserci qualcosa oltre, ha detto.
Oltre cosa? abbiamo domandato.
Oltre la collina.
A casa non potevamo tornare e non c’era più molto da vedere. Il resto del pomeriggio lo abbiamo passato al ponte della ferrovia a est della provinciale, a colpire vagoni merci con qualsiasi cosa ci capitasse sotto mano. Pietre, ossa di animali morti, spazzatura, saliva. Facevamo questo gioco. Legavamo una corda alla base di un palo e la facevamo passare sui binari. Poi la fissavamo alla vita di un ragazzino del paese che voleva unirsi a noi. La maggior parte delle volte, quando i binari cominciavano a vibrare e si sentiva arrivare il treno, l’aspirante cominciava a tremare e poi pregava come gli avevano insegnato a casa o all’oratorio. Gli dicevamo di non preoccuparsi, che se a un certo punto non se la fosse sentita, se avesse cambiato idea, gli sarebbe bastato dire la parola di sicurezza. Se avesse urlato mestile, uno di noi avrebbe tagliato la corda con delle forbici da giardino e sarebbe tutto finito. Non era un granché come prova. La maggior parte delle volte le ruote del treno tagliavano la corda dopo un bello strattone. Altre volte si veniva trascinati per qualche metro prima che il nodo cedesse.
Si stava facendo sera.
Qualcuno si era perso nei campi. Altri erano tornati a casa. Legato alla corda ci stava uno che non avevamo mai visto. E prima ancora che le rotaie si scuotessero e che sentissimo il fragore del treno, il ragazzino si è messo a urlare.
Mestile.
Come dici? lo ha preso in giro uno di noi.
Mestile, ha urlato quello. Mestile.
Non si sente niente, sbuffavamo.
Ho detto mestile.
Abbiamo sentito qualcuno che rideva e ci siamo voltati. Dall’erba alta sono spuntati tre o quattro di noi. Il primo si è fermato e ha incrociato le mani dietro la nuca.
Appena in tempo, ha sospirato.
Quelli dietro di lui lo hanno raggiunto affannati e hanno cominciato a ridere a loro volta.
Mestile, insisteva il ragazzino. Vi scongiuro.
Dove cazzo eravate? ha chiesto uno.
Che ti frega? hanno risposto.
Poi abbiamo sentito il sibilo, e qualcuno ha pensato che fosse il treno. Invece il primo si è voltato, i grilli in sottofondo, il ragazzino che piangeva ripetendo: mestile.
L’esplosione.
La colonna di fumo si è innalzata dal Tennis Club.
Uno stormo di beccaccini se n’è gracchiato via scomparendo nel sole.

Raccontaci, abbiamo detto al tizio del bolide.
Lui ha tastato i pantaloni per cercare il pacchetto di sigarette, ma quando l’ha trovato era accartocciato e vuoto. Aveva le unghie nere e si asciugava il naso con il dorso della mano.
Sono entrato dal buco nella rete, ha detto.
Sì, figurati, è sfuggito a uno di noi.
Se non mi credi, coglione, allora non ti racconto un cazzo.
Fatti furbo, gli ha detto un altro.
Giuro, vi prendo a calci in culo, ha detto lanciando il pacchetto vuoto.
Dai, sputa fuori, ha ordinato il più grande. Come hai fatto?
La rete era rotta all’angolo. Mi sono infilato dentro e ho messo i bolidi nella sputa-palline.
Cazzate.
Giuro.
Mi ci gioco quello che vuoi che non sei stato te.
Il parcheggio era deserto, il cancello transennato. Erano trascorsi tre giorni e l’erba era cresciuta ai lati della terra rossa e nel giardino. Non era passato nessuno a bagnare il campo. Gli ombrelloni erano chiusi, le serrande abbassate. Qualcuno della polizia aveva riparato con il fil di ferro il buco nella rete. Nessuno aveva il coraggio di guardare dalle fessure. Tranne me.
Fammi vedere dov’è successo, ho detto.
Nel campo più a sinistra.
Non vedo un cazzo da qui.
Ti dico a sinistra, ha insistito.
C’è del sangue?
E che ne so.
Se non lo sai tu.
Dai, fagli vedere il sangue, ha detto il più grande di noi.
Per me va bene, ha detto con aria di sfida.
Perfetto, ho detto io.
Abbiamo mandato una vedetta sull’albero per controllare che non arrivasse nessuno. Al via libera siamo corsi verso il cancello e abbiamo scavalcato. Io e lui, uno dopo l’altro. C’era un sentiero di pietre che terminava in una scalinata. Lui ha virato a sinistra e si è messo a correre. Quando ho girato l’angolo era già fermo in mezzo al campo più lontano. Ho sentito un frusciare di passi alle mie spalle e mi sono spaventato. Anche il figlio del ferramenta aveva scavalcato.
Ci siamo radunati attorno a una pozza. Sembrava vernice secca, fatta di scaglie dure, crepe sottilissime su una pellicola croccante. Odore di ferro bagnato. Il figlio del ferramenta ha fatto come per inginocchiarsi a toccarla, ma poi quando l’ha vista da vicino ha cambiato idea e si è allontanato di qualche passo.
Cosa ti avevo detto?
Sta’ zitto, ho risposto.
Altrimenti che fai? mi ha provocato.
Il figlio del ferramenta stava scalando la salita che portava dai campi alla sommità della collinetta. Ha tentato di aprire le porte dell’edificio, ma erano chiuse. C’era una scala di legno che portava direttamente al tetto. Poi, ai piedi della scala, ha visto una manopola e l’ha girata. Un tubo giallo è schizzato dal prato e ha cominciato ad agitarsi come una vipera. Vomitava acqua bollente. Il passaggio in cemento ha sbuffato vapore, tempestando l’aria di umidità. Altri due di noi hanno preso coraggio e hanno scavalcato. Hanno corso verso le reti del campo da tennis, saltandole come ostacoli. Uno è caduto e si è scheggiato un incisivo. I più furbi hanno usato un tronco per rompere il filo metallico nell’angolo del campo e riaprire il buco nella rete.
Altrimenti che fai? ha ripetuto dandomi una spinta.
Ti faccio il culo, ho detto restituendogliela.
Sei più basso di me, stupido, mi ha appoggiato l’indice sulla fronte.
Fa lo stesso, ho scacciato il dito come una mosca. Non mi fai paura.
Forse dovrei fartela, secco come sei.
Forse dovrei chiuderti la bocca, ho detto avvicinandomi.
Lo stronzo del bolide mi ha guardato dall’alto in basso. Ha inarcato la schiena all’indietro e mi ha spinto con entrambe le mani a terra. Sono caduto di schiena e non ho potuto rialzarmi ché me lo sono trovato addosso. Con le mani gli ho bloccato i polsi. Gli ho sferrato una ginocchiata nel fianco, come avevo visto fare in un film, ma non ha fatto una piega. Sentendoci ruggire, gli altri si sono radunati.
Rompigli il culo, sbraitavano.
Ammazza questo stronzo.
Dagli una lezione.
Tenevo il corpo a distanza, ma cominciava a pesarmi sulle braccia. La sua testa mi faceva ombra. I suoi occhi si facevano più vicini, le sue dita a pochi centimetri dalla mia faccia, dagli angoli della bocca gli colavano rivoli di bava. Più vicino, un battito di ciglia, un millimetro alla volta. Con un colpo di bacino, è riuscito a mettermi le mai al collo e ha cominciato a stringere. Dolcemente, come cercasse la forma dei muscoli, poi sempre più forte, spremendomi con i pollici la gola.
Che cazzo stai facendo, mi urlavano gli altri.
Sei una cazzo di femminuccia, gracchiavano.
Muovi il culo, insistevano. Fagli vedere chi sei.

Quando la vedetta ha ululato, tutti gli altri si sono dileguati.
Ho sentito la stretta intorno al collo allentarsi. Il volto sopra di me ha smesso di fissarmi e ha gettato lo sguardo all’orizzonte. Ho succhiato una manciata di ossigeno e subito ho preso a tossire. Gli occhi mi lacrimavano. La prima cosa a cui ho pensato tornando lucido, l’unica che mi è passata per la mente, è stata di sferrargli un pugno, e così ho fatto. Sul pomo di Adamo. Lui è rotolato di lato, annaspando nell’aria, le palme delle mani come a tappare un buco in gola. Mi sono alzato e ho dato un’occhiata in giro. La vedetta ha strillato, cane da guardia, ed è scesa rapida dall’albero, scomparendo dietro ai teloni.
Il pastore tedesco è spuntato da un angolo, mentre stavo già correndo verso il cancello. Me lo sono trovato sulla strada. Si è fermato a osservare, ha abbaiato. Sono rimasto immobile. Uno di noi lo ha distratto battendo un sasso sul cancello.
Vieni bello, diceva. Vieni da questa parte, stupido cane.
Così sono corso dalla parte opposta, su per la scalinata che portava in cima alla collina artificiale, alla fila di ombrelloni chiusi e tavolini piegati.
Per di qua, ho sentito dire dall’alto. Devi fare presto.
Il figlio del ferramenta era in cima alla scala di legno e guardava verso di me.
Sali, ha detto a voce più bassa. Muoviti.
E poi come scendiamo? gli ho urlato io.
Fai come vuoi, ha detto scomparendo.
Il cane è riapparso sul pendio correndo nella mia direzione. Sono saltato più in alto che potevo, afferrando un piolo. Quando la bestia è arrivata alla base della scala, ero a circa due metri da terra.
Non guardare sotto, mi sono ripetuto.
Giunto alla sommità della scala, mi sono aggrappato alla grondaia e issato sul tetto. Una tegola è volata giù. Solo allora, guardando verso il basso, mi sono accorto che ero rimasto solo. Potevo vedere tutto da lì. Potevo vedere quelli che scendevano dagli alberi e correvano alle biciclette, e poi via, pedalando verso casa. Quelli che attraversavano di corsa i binari e si buttavano nei campi di granturco fino alla provinciale e lungo il torrente. Potevo vedere il tetto di casa e il palo del telefono che ci attraversava il cortile. A sinistra, le fabbriche chiuse, il lanificio. A destra, sul fianco della montagna, la cava di pietra. Dal tetto vedevo la macchia di sangue diventare invisibile sulla terra rossa. Lo stronzo del bolide che correva fino al cancello, scavalcava, e fuggendo verso l’erba alta sventolava il dito medio. In mezzo al prato, usciva ancora acqua dalla pompa gialla e il giardino si era allagato. Alla base della scala il pastore tedesco, seduto, guardava verso l’alto.
Da lì sopra, potevo vedere tutto.
Oltre l’edificio, dopo la collina, c’erano altri campi da tennis, fontane e tendoni bianchi. Siepi con forme umane. Il figlio del ferramenta si era tuffato dal tetto nell’acqua sporca della piscina, un salto di appena cinque o sei metri, e ora correva verso un’uscita secondaria, una porta bassa, facile da scavalcare.
Stupido, avrebbe detto mio padre. Troppo stupido. Figlio mio, devi crescere, avrebbe detto mia madre. Devi capirne di cose della vita, sciocco ragazzino. Ne hai di strada da fare, avrebbero detto in coro, prima di diventare un uomo. Rifletti. Tu sei meglio di così.
Di tuffarmi non se ne parlava.
Così mi sono seduto sul comignolo.
Incastrata nella grondaia, c’era una pallina fluorescente finita lì chissà come. Ho camminato cercando di abbassare il baricentro, evitando di scivolare sulle tegole. Ho allungato il braccio e l’ho afferrata. L’ho tenuta in mano, con il braccio disteso parallelo al terreno. Con l’altro mi sono retto al comignolo. L’ho guardata. Ho cercato di non pensare alla gente che aveva mandato tutto in malora, ho provato a dimenticare i genitori tutto il giorno a casa. Ho chiuso gli occhi e ho inspirato a pieni polmoni, soffiando fuori aria sporca. Ho disteso la gamba all’indietro, ho caricato con forza piegando il corpo in avanti, mantenendo gli occhi fissi sulla palla. Ho allontanato l’idea dello stronzo del bolide e del pastore tedesco che ansimava al fondo della scala. Ho aperto la mano e la pallina ha iniziato la discesa. La coscia si è tesa, ho spostato il peso indietro. Il ginocchio è scomparso, femore e tibia hanno disegnato una sola retta. Ho colpito la pallina con il collo del piede.
Volevo solo che quel gioco finisse.

È cominciato tutto con la storia dei polli, ho detto.
Poi è stata la volta di un cane.
Della polvere da sparo rubata alla cava non sapevo nulla, pensavo bastassero dei fiammiferi.
Mi hanno chiesto del sindacalista a cui era esplosa la mano, e ho detto la verità. Io non c’ero. Avevo sentito delle voci. Magari era stato qualche ragazzo randagio, nulla a che vedere con il mio gruppo. Non scherziamo, avanti.
Hanno fatto delle ipotesi.
Per noi c’entri qualcosa, hanno detto.
Pensatela come volete, ho risposto.
Che ci facevo sul tetto? mi hanno chiesto.
Un giro, ero curioso.
Poi, un poliziotto ha sganciato lo specchio dal muro della stanza in cui fanno domande alle persone e mi ha afferrato il mento. Ha tirato via la garza senza cura e io mi sono lamentato.
Mio padre ti potrebbe uccidere per avermi toccato, l’ho minacciato.
Ma quando la mia immagine si è riflessa nello specchio, per la prima volta ho visto il viola del mio occhio. Le palpebre erano incollate, mi faceva male muoverlo, bruciava per la luce.
Forse non c’entri niente, mi si è seduto vicino un poliziotto in camicia.
Ci puoi giurare, ho detto.
Forse è stato solo un incidente, ha continuato.
Un brutto incidente, ho confermato.
Ma se restassi guercio, mi ha sussurrato nell’orecchio, non vorresti che prendessimo chi è stato? Se l’occhio non tornasse normale, mi ha sfiorato con le labbra perché fossi l’unico a sentire, non vorresti conoscere il volto de colpevole?

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 22 e ha le etichette . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.